Il
Sublime dinamico
della natura
§ 25. DELLA NATURA IN QUANTO POTENZA
La
potenza è un potere superiore a grandi ostacoli. Questa potenza si chiama
impero, quando è superiore anche alla resistenza di ciò che è pure una
potenza. La natura, considerata nel giudizio estetico come una potenza che
non ha alcun impero su di noi, è dinamicamente sublime. La
natura, per essere giudicata dinamicamente sublime, dev’essere
rappresentata come suscitante timore (sebbene non sia vera la reciproca,
che cioè ogni oggetto che suscita timore debba essere trovato sublime nel
giudizio estetico). Perché nel giudizio estetico (senza concetto) la
superiorità sugli ostacoli non può essere giudicata se non dalla
grandezza della resistenza. Ora, ciò cui noi siamo spinti ad opporci è
un male, e, quando sentiamo che il nostro potere non è adeguato, è un
oggetto di timore. Perciò la natura, pel Giudizio estetico, non può
essere una potenza, e quindi dinamicamente sublime, se non è considerata
come oggetto di timore. Ma
si può considerare un oggetto come temibile senza aver timore davanti ad
esso, quando cioè lo giudichiamo tale pensando semplicemente il caso che
gli volessimo far resistenza, e vedendo che allora qualunque resistenza
sarebbe vana. Così l’uomo virtuoso teme Iddio, senza aver paura davanti
a lui, perché non immagina il terribile caso in cui volesse opporsi a lui
e ai suoi ordini. Ma per tutti i casi di questa specie, che non gli
sembrano in se stessi impossibili, riconosce che Dio è da temersi. Colui
che teme non può giudicare del sublime della natura, come non può
giudicare del bello chi è dominato dall’inclinazione e dall’appetito.
Egli fugge la vista
dell’oggetto, che gli incute timore; ed è impossibile trovar piacere in
uno spavento, che è seriamente sentito. Per ciò quel piacere, che
sentiamo al cessar di qualcosa che ci opprime, è una gioia. Ma è una
gioia per la liberazione da un pericolo, accompagnata dal proposito di non
esporvisi mai più; ben lungi dal cercare l’occasione di ripensare alla
sensazione provata, non possiamo neppure ricordarla senza fastidio. Le
rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di
temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano
tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la
devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta
d’un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il
nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro
aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se
ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi,
perché esse elevano le forze dell’anima al disopra della mediocrità
ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere
interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con
l’apparente onnipotenza della natura. Difatti,
allo stesso modo che nell’immensità della natura e nell’incapacità
nostra a trovare una misura adeguata per la valutazione estetica della
grandezza del suo dominio, scoprimmo la nostra propria limitazione, ma ci
fu rivelata nel tempo stesso, nella facoltà della ragione, un’altra
misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una
unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura, — trovammo per
conseguenza nel nostro animo una superiorità sulla natura considerata
anche nella sua immensità; così l’impossibilità di resistere alla
potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri
della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre
contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura,
ed una superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di
conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in
pericolo della natura esterna; perché in virtù di essa l’umanità
della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere
all’impero della natura. In tal modo la natura, nel nostro giudizio
estetico, non è giudicata sublime in quanto è spaventevole, ma perché
essa incita quella forza che è in
noi (e che non
è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci
preoccupano (i beni, la salute e la vita),
e perciò a non riconoscere nella potenza
naturale (a cui siam sempre sottoposti relativamente a tali cose)
un duro impero su di noi
e sulla nostra
personalità, al quale dovremmo piegarci, quando si trattasse dei nostri
principi supremi, della loro
affermazione o del loro abbandono. La natura qui non è dunque chiamata
sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei
casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione,
anche al disopra della natura. Questa
stima di se stesso non perde nulla pel fatto che dobbiamo sentirci
al sicuro
per poter trovare quel piacere entusiasmante; non perché non vi è
serietà nel pericolo, non vi potrà essere serietà (come potrebbe
sembrare) nella sublimità della nostra facoltà spirituale. Perché qui
il piacere riguarda soltanto la scoperta della destinazione della nostra
facoltà, in quanto la disposizione a questa si trova nella nostra natura,
mentre lo sviluppo e l’esercizio di essa sono a noi affidati e sono
compito nostro. Ed è la verità, per quanto l’uomo, allorché spinge la
sua riflessione
fin là, possa aver coscienza della sua presente e reale debolezza. In
verità, questo principio sembra tratto da troppo lungi e troppo
cavilloso, e quindi al di là della portata di un giudizio estetico; ma
l’osservazione dell’uomo dimostra il contrario, che esso cioè può
stare a fondamento del più comune giudizio, sebbene di esso non si sia
sempre coscienti. Difatti, che cosa è, anche pel selvaggio, l’oggetto
della massima ammirazione? Un uomo, che non teme niente, che non si
spaventa di nulla, che non cede davanti al pericolo, ma che nel tempo
stesso scende energicamente all’azione con piena riflessione. Anche
nello stato di civiltà più raffinato resta questa stima singolare pel
guerriero; e solo si richiede che egli mostri nello stesso tempo tutte le
virtù della pace, la dolcezza, la pietà, e perfino una cura conveniente
della persona, perché appunto in ciò si riconosce l’invincibilità del
suo animo di fronte al pericolo. Perciò si potrà disputare finché si
vuole per decidere a chi spetti la preferenza nella nostra stima, se
all’uomo di stato o al guerriero; il giudizio estetico è per quest’ultimo.
Perfino la guerra, quando è condotta con ordine e col sacro rispetto dei
diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime, e rende il carattere del
popolo, che la fa in tal modo, tanto più sublime quanto più numerosi
sono stati i pericoli a cui si è esposto e più coraggiosamente si è
affermato; mentre invece una lunga pace di solito dà il predominio al
semplice spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla
viltà, alla mollezza, abbassando il carattere e la mentalità del popolo. Con
questa spiegazione del concetto del sublime, che lo attribuisce alla
potenza, pare contrastare il fatto che noi siamo soliti rappresentarci Dio
come in collera nelle tempeste, negli uragani, nei terremoti e via
discorrendo; ma nel tempo stesso come rivelante la sua sublimità, in modo
tale che sarebbe stoltezza e follia l’immaginare una superiorità del
nostro animo sugli effetti, e, a quanto pare, anche su fini di una tale
potenza. Pare che non sia il sentimento di sublimità della nostra propria
natura, ma piuttosto la sottomissione, la costernazione, il sentimento
della propria assoluta debolezza, lo stato d’animo che conviene di fronte
alle manifestazioni di un essere cosiffatto, e che ordinariamente va
congiunto con l’idea che di esso ci facciamo in presenza di simili avvenimenti
naturali. Pare che nella religione in generale l’unica maniera adeguata
di comportarsi alla presenza della divinità sia il prosternarsi,
l’adorare a testa bassa, con atteggiamento compunto e voce angosciata;
ed è perciò che questa maniera è stata adottata dalla maggior parte dei
popoli, ed è ancora osservata. Ma questa disposizione d’animo è ben
lungi dall’essere in se stessa e necessariamente legata con l’idea
della sublimità d’una religione e dell’oggetto di questa. L’uomo,
che teme realmente, perché ne trova la ragione in se stesso, avendo
coscienza di peccare con le sue cattive intenzioni contro una potenza, la
cui volontà è irresistibile ma nel tempo stesso giusta, non si trova
nella disposizione d’animo favorevole per ammirare la grandezza divina,
per cui è necessaria una disposizione alla contemplazione calma e un
giudizio interamente libero. Solo quando è cosciente delle sue rette
intenzioni, che sa grate a Dio, quegli effetti della potenza divina
possono suscitare nell’uomo l’idea della sublimità di questo essere,
perché allora egli trova in
se stesso una sublimità di sentire conforme alla volontà di lui, e si
eleva al disopra della paura davanti a questi avvenimenti naturali, che
non considera più come sfoghi della sua collera. Anche l’umiltà, in
quanto giudizio rigoroso di quegli errori proprii, che altrimenti, quando
si ha coscienza delle buone intenzioni, potrebbero essere facilmente
scusati con la fragilità della natura umana, è una sublime disposizione
dell’anima, che consiste nel sottoporsi volontariamente al dolore del
rimorso, per estirparne a poco a poco la causa. Solo così la religione si
distingue intimamente dalla superstizione: questa non induce nell’animo
il rispetto pel sublime, ma la paura e l’angoscia davanti all’essere
onnipotente, alla cui volontà l’uomo spaventato si vede sottomesso,
senza però rispettarlo; da che non possono nascere, invece di una
religione della condotta buona, se non pratiche propiziatrici ed
adulatorie. La
sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto
nell’animo nostro. Quando possiamo accorgerci di esser superiori alla
natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi (in
quanto ha influsso su di noi). Tutto ciò che suscita in noi questo
sentimento, e quindi la potenza della natura che provoca le nostre forze,
si chiama (sebbene impropriamente) sublime; e solo supponendo questa
idea in noi, e relativamente ad essa, siamo capaci di giungere all’idea
della sublimità di quell’essere, il quale produce in noi un’intima
stima, non solamente con la potenza che mostra nella natura, ma ancor più
con la facoltà, che è in noi, di giudicarla senza timore, e di concepire
la nostra destinazione come sublime rispetto ad essa. |