Il Sublime  dinamico della natura

Anche Kant (come Burke) lega il sublime della natura all’effetto di timore che l’apparente potere soverchiante di questa suscita nell’uomo. Per Kant, tuttavia, il sentimento del sublime, più che essere una rappresentazione di qualcosa d’esteriore, è un eco dello sgomento tutto interiore  per la cieca ed oscura fatalità che sembra regnare in natura là dove è assente un’azione dell’uomo finalizzata, insieme, alla bellezza ed al bene; un tale sgomento è quello stesso che viene suscitato dal compito immane che sembra attendere l’uomo affinché nel mondo trionfino ideali di bellezza e di bene

 (Critica del giudizio, Parte I, Sezione I, Libro Il, 28).

§ 25. 

DELLA NATURA IN QUANTO POTENZA

 

La potenza è un potere superiore a grandi ostacoli. Questa potenza si chiama impero, quando è superiore anche alla resistenza di ciò che è pure una potenza. La natura, considerata nel giudizio estetico come una potenza che non ha alcun impero su di noi, è dinamicamente sublime.

La natura, per essere giudicata dinamicamente sublime, dev’essere rappresentata come suscitante timore (sebbene non sia vera la reciproca, che cioè ogni oggetto che suscita timore debba essere trovato sublime nel giudizio estetico). Perché nel giudizio estetico (senza concetto) la superiorità sugli ostacoli non può essere giudicata se non dalla grandezza della resistenza. Ora, ciò cui noi siamo spinti ad opporci è un male, e, quando sentiamo che il nostro potere non è adeguato, è un oggetto di timore. Perciò la natura, pel Giudizio estetico, non può essere una potenza, e quindi dinamicamente sublime, se non è considerata come og­getto di timore.

Ma si può considerare un oggetto come temibile senza aver timore davanti ad esso, quando cioè lo giudichiamo tale pensando semplicemente il caso che gli volessimo far resistenza, e vedendo che allora qualunque resistenza sarebbe vana. Così l’uomo virtuoso teme Iddio, senza aver paura davanti a lui, perché non immagina il terribile caso in cui volesse opporsi a lui e ai suoi ordini. Ma per tutti i casi di questa specie, che non gli sembrano in se stessi impossibili, riconosce che Dio è da temersi.

Colui che teme non può giudicare del sublime della natura, come non può giudicare del bello chi è dominato dall’inclinazione e dall’appetito. Egli fugge la vista dell’oggetto, che gli incute timore; ed è impossibile trovar piacere in uno spavento, che è seriamente sentito. Per ciò quel piacere, che sentiamo al cessar di qualcosa che ci opprime, è una gioia. Ma è una gioia per la liberazione da un pericolo, accompagnata dal proposito di non esporvisi mai più; ben lungi dal cercare l’occasione di ripensare alla sensazione provata, non possiamo neppure ricordarla senza fastidio.

Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che

scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri subli­mi, perché esse elevano le forze dell’anima al disopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere intera­mente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura.

Difatti, allo stesso modo che nell’immensità della natura e nell’inca­pacità nostra a trovare una misura adeguata per la valutazione estetica della grandezza del suo dominio, scoprimmo la nostra propria limitazione, ma ci fu rivelata nel tempo stesso, nella facoltà della ragione, un’altra misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura, — trovammo per conseguenza nel nostro animo una superiorità sulla natura conside­rata anche nella sua immensità; così l’impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo della natura esterna; perché in virtù di essa l’umanità della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere all’impero della natura. In tal modo la natura, nel nostro giudizio estetico, non è giudicata subli­me in quanto è spaventevole, ma perché essa incita quella forza che è in noi (e che non è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), e perciò a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siam sempre sottoposti relativamente a tali cose) un duro impero su di noi e sulla nostra personalità, al quale dovremmo piegarci, quando si trattasse dei nostri principi supremi, della loro affermazione o del loro abbandono. La natura qui non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destina­zione, anche al disopra della natura.

Questa stima di se stesso non perde nulla pel fatto che dobbiamo sentirci al sicuro per poter trovare quel piacere entusiasmante; non perché non vi è serietà nel pericolo, non vi potrà essere serietà (come potrebbe sembrare) nella sublimità della nostra facoltà spirituale. Perché qui il piacere riguarda soltanto la scoperta della destinazione della nostra facoltà, in quanto la disposizione a questa si trova nella nostra natura, mentre lo sviluppo e l’esercizio di essa sono a noi affidati e sono compito nostro. Ed è la verità, per quanto l’uomo, allorché spinge la sua riflessione fin là, possa aver coscienza della sua presente e reale debo­lezza.

In verità, questo principio sembra tratto da troppo lungi e troppo cavilloso, e quindi al di là della portata di un giudizio estetico; ma l’osservazione dell’uomo dimostra il contrario, che esso cioè può stare a fondamento del più comune giudizio, sebbene di esso non si sia sempre co­scienti. Difatti, che cosa è, anche pel selvaggio, l’oggetto della massima ammirazione? Un uomo, che non teme niente, che non si spaventa di nulla, che non cede davanti al pericolo, ma che nel tempo stesso scende energicamente all’azione con piena riflessione. Anche nello stato di civiltà più raffinato resta questa stima singolare pel guerriero; e solo si richiede che egli mostri nello stesso tempo tutte le virtù della pace, la dolcezza, la pietà, e perfino una cura conveniente della persona, perché appunto in ciò si riconosce l’invincibilità del suo animo di fronte al pe­ricolo. Perciò si potrà disputare finché si vuole per decidere a chi spetti la preferenza nella nostra stima, se all’uomo di stato o al guerriero; il giudizio estetico è per quest’ultimo. Perfino la guerra, quando è condotta con ordine e col sacro rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime, e rende il carattere del popolo, che la fa in tal modo, tanto più sublime quanto più numerosi sono stati i pericoli a cui si è esposto e più coraggiosamente si è affermato; mentre invece una lunga pace di solito dà il predominio al semplice spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla viltà, alla mollezza, abbassando il carattere e la mentalità del popolo.

Con questa spiegazione del concetto del sublime, che lo attribuisce alla potenza, pare contrastare il fatto che noi siamo soliti rappresentarci Dio come in collera nelle tempeste, negli uragani, nei terremoti e via discorrendo; ma nel tempo stesso come rivelante la sua sublimità, in modo tale che sarebbe stoltezza e follia l’immaginare una superiorità del nostro animo sugli effetti, e, a quanto pare, anche su fini di una tale potenza. Pare che non sia il sentimento di sublimità della nostra propria natura, ma piuttosto la sottomissione, la costernazione, il sentimento della propria assoluta debolezza, lo stato d’animo che conviene di fron­te alle manifestazioni di un essere cosiffatto, e che ordinariamente va congiunto con l’idea che di esso ci facciamo in presenza di simili avve­nimenti naturali. Pare che nella religione in generale l’unica maniera adeguata di comportarsi alla presenza della divinità sia il prosternarsi, l’adorare a testa bassa, con atteggiamento compunto e voce angosciata; ed è perciò che questa maniera è stata adottata dalla maggior parte dei popoli, ed è ancora osservata. Ma questa disposizione d’animo è ben lungi dall’essere in se stessa e necessariamente legata con l’idea della sublimità d’una religione e dell’oggetto di questa. L’uomo, che teme realmente, perché ne trova la ragione in se stesso, avendo coscienza di peccare con le sue cattive intenzioni contro una potenza, la cui volontà è irresistibile ma nel tempo stesso giusta, non si trova nella disposizione d’animo favorevole per ammirare la grandezza divina, per cui è neces­saria una disposizione alla contemplazione calma e un giudizio intera­mente libero. Solo quando è cosciente delle sue rette intenzioni, che sa grate a Dio, quegli effetti della potenza divina possono suscitare nell’uomo l’idea della sublimità di questo essere, perché allora egli trova

in se stesso una sublimità di sentire conforme alla volontà di lui, e si eleva al disopra della paura davanti a questi avvenimenti naturali, che non considera più come sfoghi della sua collera. Anche l’umiltà, in quanto giudizio rigoroso di quegli errori proprii, che altrimenti, quando si ha coscienza delle buone intenzioni, potrebbero essere facilmente scusati con la fragilità della natura umana, è una sublime disposizione dell’anima, che consiste nel sottoporsi volontariamente al dolore del rimorso, per estirparne a poco a poco la causa. Solo così la religione si distingue intimamente dalla superstizione: questa non induce nell’animo il rispetto pel sublime, ma la paura e l’angoscia davanti all’essere onnipotente, alla cui volontà l’uomo spaventato si vede sottomesso, senza però ri­spettarlo; da che non possono nascere, invece di una religione della con­dotta buona, se non pratiche propiziatrici ed adulatorie.

La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma sol­tanto nell’animo nostro. Quando possiamo accorgerci di esser superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi (in quanto ha influsso su di noi). Tutto ciò che suscita in noi questo sentimento, e quindi la potenza della natura che provoca le nostre forze, si chiama (sebbene impropriamente) sublime; e solo supponendo que­sta idea in noi, e relativamente ad essa, siamo capaci di giungere all’i­dea della sublimità di quell’essere, il quale produce in noi un’intima sti­ma, non solamente con la potenza che mostra nella natura, ma ancor più con la facoltà, che è in noi, di giudicarla senza timore, e di concepi­re la nostra destinazione come sublime rispetto ad essa.

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