La rivoluzione copernicana della filosofia

Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (1787), Kant espone gli scopi principali dell’opera e asserisce la necessità di concepire in maniera opposta a quella tradizionale la relazione tra oggetto e soggetto della conoscenza: quest’ultimo deve essere posto al centro della realtà come ordinatore di ogni esperienza possibile delle cose, attuando così una rivoluzione paragonabile a quella di Copernico in astronomia.  Troviamo qui anche la domanda sulla possibile esistenza di una scienza metafisica: la risposta è negativa in quanto la nostra conoscenza non può andare oltre ciò che è concretamente sperimentabile.

Alla metafisica, conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l’applicazione di questi all’intuizione), nella quale dunque la ragione deve essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e sopravviverebbe anche quando le altre dovessero tutte quan­te essere inghiottite nel baratro di una barbarie che tutto devastasse. Giacché la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poiché si trova che quella già seguita non conduce alla mè­ta; e, quanto all’accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è così lontana dall’averlo raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo destinato ad esercitar le forze antagoni­stiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar sulla sua vittoria un durevole pos­sesso. Non v’è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti. Da che deriva dunque che essa non abbia ancora potuto trovare il cammino sicuro della scienza? Egli è forse impossibile? Perché dunque la natura ha messo nella nostra ragione questa infaticabile tendenza, che gliene fa cercare la traccia, come se fosse per lei l’interesse più grave tra tutti? Ma v’ha di più: quanto poco motivo abbiamo noi di ripor fede nella nostra ragione, se essa non solo ci abbandona in uno dei più importanti oggetti della nostra curiosità, ma ci attira con lusinghe, e alla fine c’inganna? Oppure, se fino ad oggi abbiamo semplicemente sba­gliato strada, di quali indizi possiamo profittare, per sperare di essere più fortunati che gli altri finora non siano stati, rinnovando la ricerca? lo dovevo pensare che gli esempi della matematica e della fisica, che sono ciò che ora sono per effetto di una rivoluzione attuata tutta d’un colpo, fossero abbastanza degni dì nota, per riflettere sul punto essenziale del cambiamento di metodo, che è stato loro di tanto vantaggio, e per imitarlo qui, almeno come tentativo, per quanto l’analogia delle medesime, come conoscenze razionali, con la metafisica ce lo permette. Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo di concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolassi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desi­derata possibilità d’una conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa re­lativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati. Qui è proprio come per la prima idea di Copernico: il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’in­tuizione degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia l’oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i concetti, coi quali io compio questa determinazione, si regolino anche sull’oggetto, e in questo caso io mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscente qualche cosa a priori; oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’esperienza, nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi con­cetti; allora io vedo subito una via d’uscita più facile, perché l’esperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presuppone in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pensati dalla ragione, ossìa necessariamente, ma non possono esser dati punto nell’esperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo. Questo tentativo riesce conforme al desiderio, e promette alle meta­fisica, nella sua prima parte, dove ella si occupa dei concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza gli oggetti corrispondenti ad essi adeguati, il cammino sicuro di una scienza. Si può infatti spiegare benissimo, secondo questo mutamento di metodo, la possibilità di una conoscenza a priori, e, ciò che è più, munire delle prove sufficienti le leggi che a priori sono a fondamento della natura, come complesso degli oggetti dell’esperienza; due cose che, col tipo di procedimento fin oggi seguito, erano impossibili. Ma da questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori, nella prima parte della metafisica, ne vie­ne uno strano risultato, in apparenza assai dannoso allo scopo generale cui essa mira nella seconda parte, cioè: che noi con essa non possiamo oltrepassare i limiti dell’esperienza possibile, che è tuttavia proprio l’as­sunto più essenziale di questa scienza. Ma proprio in ciò consiste l’espe­rimento d’una controprova della verità del risultato di questo primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione: che essa giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la cosa in sé sia bensì per se stessa reale, ma sconosciuta a noi. Giacché quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni, è l’incondizionato(1), che la ragione necessariamente e a buon diritto esige nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni. Ora, se ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cose in sé si trova che l’incondizionato non può esser pensato senza contraddizione, mentre, al contrario, se si ammette che la nostra rappresentazione delle cose, quali ci son date, non si regoli su di esse, come cose in se stesse, ma piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolino sul nostro modo di rappresentarceli [si trova che] la contraddizione scompare, e che perciò l’incondizionato non deve trovarsi nelle cose in quanto noi le co­nosciamo (esse ci son date), ma nelle cose in quanto noi non le cono­sdamo, come cose in sé, ciò che noi abbiamo ammesso prima, soltanto in via di tentativo si vede che è ben fondato(2). Resta ora a vedere, dopo avere negato alla ragione speculativa ogni passo nel campo del so­prasensibile, se non si trovino nella sua conoscenza pratica dati, per determinare quel concetto trascendente dell’incondizionato proprio della ragione, e per oltrepassare in tal modo, secondo i desideri della metafisica, i limiti di ogni esperienza possibile mediante la nostra conoscenza a priori, possibile, per altro, solo dal punto di vista pratico (3). Con questo procedimento la ragione speculativa ci ha almeno procurato un campo libero per tale estensione (della ricerca], sebbene essa abbia dovuto lasciarlo vuoto; e noi restiamo così autorizzati, anzi, veniamo da lei stessi invitati ad occuparlo, se ci riesce, con i dati pratici della medesima. In quel tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica, e proprio nel senso di operare in essa una completa rivoluzione seguendo l’esempio dei geometri e dei fisici, consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato del metodo, e non un sistema della scienza stessa; ma essa ne traccia tutto il contorno, sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo alla sua completa struttura interna. Giacché la ragion pura speculativa ha in sé questo di peculiare, che essa può e deve misurare esattamente il suo proprio potere secondo il diverso modo col quale sceglie gli oggetti pel suo pensiero; e perfino enumerare esaurientemente tutti i differenti modi di porsi i problemi; e così, delineare tutto il disegno per un sistema di metafisica. Infatti, per ciò che concerne il primo punto, nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo; e, per ciò che riguarda il secondo punto, essa, rispetto ai principi della conoscenza, è un’unità affatto indipendente e per sé stante, nella quale ciascun membro, come in un corpo organico, esiste per gli altri, e tutti esistono per ciascuno; e nessun principio può essere assunto con certezza in un rapporto, se non sia stato investigato nell’insieme dei suoi rapporti, con tutto l’uso puro della ragione. Ma perciò la metafisica ha anche la rara felicità, della quale nessun’altra scienza razionale, che abbia da fare con oggetti (giacché la logica si occupa solo della forma del pensiero in generale), può partecipare: che, se per mezzo di questa critica, vien messa sulla via sicura della scienza, essa può abbracciare completamente tutto il campo delle conoscenze che le appartengono, e può quindi lasciare la sua opera compiuta, e tramandarla all’uso della posterità come un’opera importante che non sarà mai da accrescere, poiché essa ha che fare semplicemente con principi e con limitazioni del loro uso, determinate da lei stessa. A questa compiutezza quindi essa, in quanto scienza fondamentale, è anche obbligata, e di essa si deve poter dire: nil actum reputans, si quid superesset agendum (4). Nella parte analitica della critica sarà provato che lo spazio e il tempo non sono se non forme della intuizione sensibile, e perciò soltanto condizioni dell’esistenza delle cose come fenomeni; e che inoltre noi non abbiamo punto concetti dell’intelletto, e perciò nessun elemento per la conoscenza delle cose, se non in quanto può esser data una intuizione corrispondente a questi concetti; e che per conseguenza non c’è dato d’aver conoscenza di nessun oggetto come cosa in se stessa, ma solo come oggetto dell’intuizione sensibile, vale a dire come fenomeno; donde evidentemente deriva la limitazione di ogni possibile conoscenza speculativa della ragione ai semplici oggetti della esperienza. Tuttavia, e questo deve essere ben notato, in tutto ciò si deve far sempre questa riserva: che noi dobbiamo poter pensare gli oggetti stessi anche come cose in sé, sebbene non possiamo conoscerli.(5). Giacchè altrimenti ne seguirebbe l’assurdo che ci sarebbe una apparenza senza qualche cosa che in essa appaia. Ora, supposto che non fosse punto fatta la distinzione, fatta necessariamente dalla nostra critica, delle cose come oggetti dell’esperienza dalle medesime come cose in sé, ne nascerebbe la conseguenza, che il principio di casualità, e con esso il meccanismo naturale nella determinazione delle cose, dovrebbe valere per tutte le cose stesse in generale, come cause efficienti. Dello stesso ente, dunque, come per es., dell’anima umana, io non potrei dire che la sua volontà sia libera e che sia a un tempo soggetta alla necessità naturale, cioè non sia libera, senza cadere in una contraddizione manifesta; giacché in ambedue le proposizioni, avrei preso l’anima nell’identico significato, cioè come cosa senz’altro (cose in se stessa); e senza una critica precedente non avrei potuto prenderla diversamente. Ma se la critica non ha errato quando c’insegna a prendere l’oggetto in un duplice significato, cioè come fenomeno o come cosa in sé; se è esatta la sua deduzione dei concetti dell’intelletto, e pertanto anche il principio di causalità conviene solo alle cose nel primo senso, in quanto cioè sono oggetti dell’esperienza, mentre le cose nel secondo significato non sono soggette a tal principio; allora la stessa volontà è pensata nel fenomeno (azione visibile) come necessariamente conforme alla legge naturale e pertanto non libera; e pure d’altra parte, in quanto appartenente a una cosa in sé, è pensata come non soggetta a quella, e quindi libera, senza che in ciò vi sia contraddizione. Ora, sebbene io non possa conoscere la mia anima, considerata sotto il secondo rispetto, per mezzo della ragione speculativa (e tanto meno per osservazione empirica), e perciò nemmeno la libertà come proprietà di un essere al quale attribuisco azioni nel mondo sensibile, giacché dovrei conoscere un tale essere determinato nella sua esistenza e pur fuori del tempo (la qual cosa è impossibile, non potendo io mettere a base del mio concetto alcuna intuizione); pure posso, ciò malgrado, pensare la libertà, cioè la sua rappresentazione per lo meno non racchiude alcuna contraddizione in se stessa, ove sia stata fermata la nostra distinzione critica dei due modi di rappresentarmi le cose (sensibile ed intellettuale), e la limitazione che ne segue dei concetti puri dell’intelletto, e perciò anche dei principi che ne derivano. Ora, posto che la morale necessariamente supponga la libertà (nel senso più rigoroso) come proprietà del nostro volere, giacché essa ammette immanenti a priori nella nostra ragione, come suoi dati, principi pratici originari, i quali senza il presupposto della libertà sarebbero assolutamente impossibili; ove però la ragione speculativa avesse provato che essa non è pensabile, di necessità quel presupposto, cioè il presupposto morale, dovrebbe cedere a quell’altro, il cui contrario importa una evidente contraddizione; e, per conseguenza, libertà e con lei moralità (il cui contrario non racchiude alcuna contraddizione, se non si presuppone già la libertà) dovrebbero cedere il posto al meccanismo della natura. Ma, poiché per la morale io ho bisogno soltanto che la libertà non sia in sé contraddittoria, e si possa almeno pensare senza che occorra penetrarla più a fondo; in altri termini, che essa non crei un ostacolo al meccanismo naturale della medesima azione (presa sotto altro rapporto), così la dottrina della moralità mantiene il suo posto, e altrettanto fa la scienza della natura(6); il che non avverrebbe, se la critica non ci avesse in precedenza istruiti della irrimediabile nostra ignoranza rispetto alle cose in sé, e se non avesse limitato ai semplici fenomeni tutto ciò che possiamo conoscere teoricamente. La stessa disamina dell’utilità positiva dei principi critici della ragion pura si può presentare a proposito del concetto di Dio e della natura semplice della nostra anima, su che non insisto per brevità. Io dunque non posso ammettere mai Dio, la libertà, l’immortalità per l’uso pratico necessario della mia ragione, senza togliere a un tempo alla ragione speculativa le sue pretese a vedute trascendenti; giacché per arrivar a questo, bisogna che essa impieghi tali principi, non estendendosi in realtà se non agli oggetti di esperienza possibile, quando tuttavia si vogliono applicare a ciò che non può essere oggetto di esperienza, lo trasformano realmente subito in fenomeno, e così mostrano impossibile ogni estensione pratica della ragion pura. Io dunque ho dovuto sopprimere il sapere per sostituire la fede: e del resto il dommatismo della metafisica, cioè il pregiudizio di progredire in questa scienza senza una critica della ragion pura, è la vera fonte del­lo scetticismo che si contrappone alla moralità, e che è sempre mai for­temente dommatico. Se dunque non può affatto esser difficile lasciare ai posteri una metafisica sistematica, costruita a seconda della critica della ragion pura, questo non va considerato un dono di scarso prezzo; sia che si consideri semplicemente la coltura della ragione lungo le vie sicure di una scienza in generale, in paragone ai tentativi a casaccio e alle scorrerie fatte alla leggiera senza critica; o che si badi anche al miglior impiego del tempo per una gioventù avida di sapere, che trova nell’ordinario dommatismo un incentivo, così precoce e così efficace, a ragionare alla leggiera di cose di cui non comprende nulla, e delle quali essa, come nessuno al mondo, intenderà mai nulla, o a correre alla ri­cerca di pensieri o di opinioni alla moda, trascurando lo studio delle scienze solide; o, soprattutto, che si tenga in conto l’inestimabile van­taggio di finirla una volta per sempre, al modo di Socrate, cioè con la più evidente prova dell’ignoranza dell’avversario, con tutte le obbiezioni contro la moralità e la religione. Giacché nel mondo c’è sempre stata e ci sarà sempre anche in avvenire una metafisica, ma accanto ad essa si troverà anche sempre una dialettica della ragion pura, poiché le è naturale. Il primo e il più importante bisogno della filosofia è dunque quello di sottrarla a ogni pernicioso influsso, facendo cessare le fonti degli errori. Malgrado questo importante cambiamento nel campo delle scienze, e la perdita che la ragione speculativa deve risentirne nei possessi che sino ad ora s’era figurato d’avere, ogni cosa resta nel vantaggioso stato di prima, per ciò che concerne il fatto generale dell’umanità, e il frutto che il mondo traeva dalle teorie della ragion pura; e la perdita tocca soltanto il monopolio delle scuole, ma non già punto gl’interessi degli uomini. Io domando al più rigido dei dommatici, se la prova della sopravvivenza della nostra anima dopo la morte, ricavata dalla semplicità della sostanza, o quella della libertà del volere, fondata, di contro al meccanismo universale, sulle sottili ma impotenti distinzioni della necessità pratica soggettiva e oggettiva, o se quella dell’esistenza di Dio desunta dal concetto di un essere realissimo (dalla contingenza del mutevole e necessità di un primo motore); se, uscite dalle scuole, queste prove abbiano mai potuto arrivare al pubblico, ed esercitare il minimo influsso sulle sue convinzioni. Ora, se ciò non è accaduto, né si può mai sperare che accada, a causa della incapacità intellettuale degli uomini per così sottili speculazioni; se, inoltre, per ciò che riguarda il primo punto, questa notevole disposizione, propria d’ogni uomo, a non poter mai restar soddisfatto dal temporale (come insufficiente al bisogno di tutto intero il suo destino) può far nascere la speranza di una vita futura; se, per ciò che riguarda il secondo punto, la semplice idea chiara dei doveri, in contrasto con tutte le esigenze delle nostre inclinazioni, basta da sola a far nascere la coscienza della libertà; se, da ultimo, per ciò che riguarda il terzo punto, l’ordine sovrano, la bellezza, la provvidenza che traspare da ogni cosa naturale, sono da sole sufficienti a su­scitare la fede che ci sia un sapiente e grande creatore del mondo, fede che si diffonde nel pubblico, perché riposa su fondamenti razionali; è da concludere, che non soltanto questo dominio resta intatto, ma, inoltre, guadagna d’importanza, dal fatto che le scuole avranno imparato finalmente a non accampar pretese, su un argomento che riguarda il generale interesse umano, di una cognizione più vasta e più alta di quella alla quale può arrivare facilmente la gran maggioranza degli uomini (per noi degnissima di stima); e a limitarsi quindi unicamente a coltivar quelle prove che sono alla portata di tutti, e sufficienti dal punto di vista morale. La riforma dunque colpisce soltanto le arroganti pretese delle scuole, che in questo punto (come spesso a ragione in parecchi altri) si vantano volentieri d’esser sole capaci di conoscere e di custodire la verità; delle quali alla folla lasciano solo l’uso, ma serbano gelosamente per sé la chiave (quod mecum nescit, solus vult scire videri)(7). Nondimeno io ho avuto cura di alcune pretese più legittime del filosofo speculativo. Egli rimane sempre il depositario esclusivo di una scienza, che è utile al pubblico senza che questo lo sappia; voglio dire della critica della ragione. Essa non può, infatti, diventar mai popolare, ma nemmeno è necessario che sia tale; giacché, come al popolo i sottili argomenti, filati in sussidio delle verità utili, entrano poco in testa, altrettanto poco gli vengono in mente le obbiezioni, egualmente sottili, in contrario; d’altra parte, poiché la scuola, come ogni uomo che s’innalzi alla speculazione, casca inevitabilmente nell’una cosa e nell’altra, la carica è tenuta a prevenire una volta per sempre, mediante l’esame profondo dei diritti della ragione speculativa, lo scandalo che presto o tardi deve provenire anche al popolo dalle dispute nelle quali si avvolgono inevitabilmente i metafisici (e, in quanto tali, infine anche molti dei teologi), non infrenati dalla critica, e che finiscono per falsare le loro dottrine. Soltanto dalla critica possono essere tagliati alla radice il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo, la superstizione, che possono diventare perniciosi a tutti, e infine anche l’idealismo e lo scetticismo, che sono dannosi più specialmente alle scuole, e difficilmente possono passare nel pubblico. Se i governi trovano conveniente mescolarsi nelle faccende dei dotti, sarebbe più conveniente alla loro savia sollecitazione per le scienze come per gli uomini, favorire la libertà di una tale critica, per cui soltanto le produzioni della ragione potrebbero essere messe su un solido piede, anzi che sostenere il ridicolo dispotismo delle scuole, che mandano alte grida annunziando un pubblico danno, quando si strappano quelle loro ragnatele, di cui, pure, il pubblico non ha avuto mai notizia e non può avvertire perciò la perdita.

 

 

Da  CRITICA DELLA RAGION PURA,

cur. G.Gentile, G. Lombardo-Radice, V.Mathieu, Laterza, Bari 1979, vol.I, pp.19-31

 

1.L'incondizionato è il soprasensibile, ciò che oltrepassa la possibilità d'esperienza.
2.Vi sono idee della ragione che possono essere pensate ma non conosciute (ossia attestate nella loro verità), come l’esistenza di Dio o l’anima come sostanza. La nostra conoscenza, infatti, si ferma ai fenomeni, ossia, a ciò di cui si può avere esperienza.
3. È il tema che verrà affrontato compiutamente nella Critica della ragion pratica: le idee della ragione non hanno valore conoscitivo, ma normativo.
4. E' una citazione rimaneggiata da Lucano (Pharsalia,II 657): "ritenendo nulla il già fatto, se rimaneva qualcosa da fare

5.   Viene qui postulata l’esistenza della “cosa in sé” (noùmeno), ossia di una real­tà solamente pensabile e non conoscibile attraverso l’esperienza

6.  E' qui posta la differenza tra il dominio dell’intelletto speculativo, coincidente con il mondo naturale, e quello della ragione pratica, coincidente con il mondo morale.
7.La frase esatta è: "Quod mecum ignorat, solus vult scire videri" ("vuole far credere di conoscere da solo quel che ignora con me") (Orazio, Epistulae II, I, 87)

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