La conclusione della Ragion Pratica
Due
cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e
crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di
esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due
cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se
fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del
mio orizzonte: io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con
la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io
occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi
trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di
sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico,
del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io
indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che
ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con
cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi
riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale,
ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità
innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura
animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto
nell’universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata
provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il
secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come valore di una
intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi
manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero
mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione
conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale
determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa
vita, ma si estende all’infinito. Ma l’ammirazione e il rispetto
possono bensì eccitare alla ricerca, ma non compensano la sua mancanza.
Ora, che c’è da fare per intraprendere questa ricerca in un modo
utile e conveniente alla sublimità dell’oggetto? Gli esempi a questo
proposito possono servire all’esortazione, ma anche all’imitazione.
La considerazione del mondo cominciò dallo spettacolo più bello che i
sensi umani possano mai presentare, e che il nostro intelletto possa mai
sostenere di perseguire nella sua grande estensione, e finì — con
l’astrologia. La morale cominciò con la proprietà più nobile della
natura umana, il cui sviluppo e la cui cultura mirano ad una utilità
infinita, e finì — col fanatismo o con la superstizione. Così
avviene di tutti i tentativi ancora rozzi, in cui la parte principale
dell’impresa dipende dall’uso della ragione, che non si trova
spontaneamente come l’uso dei piedi mediante l’esercizio frequente,
specialmente se riguarda proprietà che non si possono manifestare così
immediatamente nell’esperienza comune. Ma, dopo che, quantunque
tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i
passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere
altrimenti che per il sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora
il giudizio sull’universo ricevette tutt’altro indirizzo, e, insieme
con questo, un esito, senza paragone, più felice. La caduta di una
pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e nelle
forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero,
infine, quella cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per
tutto l’avvenire, la quale, col progresso dell’osservazione, può
sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai temere di dover
ritornare indietro. Ora, quest’esempio ci può consigliare a seguir la
stessa via nella trattazione delle disposizioni morali della nostra
natura, e ci può dare la speranza di un simile buon risultato. Noi
abbiamo sotto mano gli esempi del giudizio morale della ragione. Ora,
analizzare questi esempi nei loro concetti elementari, e in mancanza
della matematica adottare un procedimento simile a quello della chimica,
della separazione dell’empirico dal razionale che si potrebbe trovare
in essi, con ripetuti tentativi sull’intelletto umano ordinario, ci può
far conoscere con certezza entrambi gli elementi puri, e ciò che ognuno
per sé solo può fare; e così si può impedire in parte l’errore di
un giudizio ancora rozzo e non esercitato, e in parte (cosa molto più
necessaria) le stravaganze geniali, mediante le quali, come suole
avvenire negli adepti della pietra filosofale, si promettono,
senz’alcuna ricerca metodica e cognizione della natura, tesori
immaginari mentre si sprecano quelli veri. In una parola, la scienza
(criticamente cercata e metodicamente avviata) è la porta stretta che
conduce alla dottrina della saggezza, se per questa non s’intende
semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire di regola
ai maestri per spianar bene e far conoscere la via della saggezza, che
ciascuno deve seguire, e assicurare gli altri dagli errori; una
scienza, custode della quale deve sempre restare la filosofia, alla cui
sottile ricerca il pubblico non ha da prendere nessuna parte, dovendo
bensì partecipare delle dottrine che soltanto dopo una tale
elaborazione gli possono riuscire affatto chiare. Da CRITICA DELLA RAGION PRATICA cur.
F. Capra & E. Garin, Laterza, Bari 1955,cit.pp.197-199
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