della famiglia di Bruni, della città di Nola, vicina a Napoli dodici miglia, nato e allevato in quella città. La professione mia è stata ed è di lettere ed ogni scienza. Mio padre aveva nome Giovanni e mia madre Fraulissa Savolina, e la professione di mio padre era di soldato, il quale è morto insieme anco con mia madre… E nacqui, per quanto ho inteso dalli miei, nell’anno 48. E sono stato in Napoli ad imparare littere de umanità, logica e dialettica fino a 14 anni; e solevo sentir le lezioni pubbliche di uno che si chiamava il Sarneso, e andavo a sentir privatamente la logica da un padre agostiniano, chiamato fra’ Teofilo da Vairano, che dopo lesse la metafisica in Roma”. Giordano Bruno, fuggito nel 1576 dal convento napoletano di San Domenico Maggiore per sottrarsi a un processo per eresia, attraversa l’Europa conquistandosi una fama crescente di grande mago, di iniziato ai misteri della tradizione ermetica; la dote che più lo distingue e lo fa notare è il possesso di una memoria prodigiosa, risultato di una sofisticata mnemotecnica che coltiva fin dalla giovinezza. Compie le sue esperienze più importanti a Ginevra nel 1579, dove aderisce al calvinismo per poi essere scomunicato, processato e costretto ad un’umiliante abiura; in Francia, alla corte di re Enrico III di Valois: è di questo periodo la redazione di una sua opera teatrale, Il Candelaio.
In Inghilterra dove frequenta la regina Elisabetta e i circoli di corte scrivendo, fra il 1583 e il 1585 alcune delle sue opere più celebri, come La cena de le ceneri, De la causa, principio et Uno e lo Spaccio de la bestia trionfante. Bruno torna per un breve periodo a Parigi e, successivamente, vive in diverse città dell’area tedesca per periodi più o meno lunghi. Qui viene raggiunto da un invito a recarsi a Venezia, dove giunge prima dell’agosto del 1591 e viene ospitato dal Mocenigo, che aveva letto i suoi libri e desiderava apprendere da lui l’arte della memoria. Le cose comunque vanno in modo decisamente diverso: il Mocenigo dopo pochi mesi, deluso dall’insegnamento ricevuto dal filosofo di Nola, il 23 maggio 1592 lo denuncia al tribunale dell’Inquisizione. Il 30 luglio 1592, data dell’ultimo interrogatorio veneziano Bruno si getta in ginocchio davanti agli inquisitori ed implora il loro perdono: “Domando humilmente perdono al Signor Dio e alle Signorie Vostre illustrissime de tutti li errori da me commessi; et son qui pronto per essequire quanto dalla loro prudentia sarà deliberato et si giudicare espediente all’anima mia. (…) et se dalla misericordia d’Iddio et delle Vostre Signorie illustrissime mi sarà concessa la vita, prometto di far riforma notabile della mia vita, chè ricompenserò lo scandalo che ho dato con altretanta edificatione” Si tratta di un gesto di grande effetto che avrebbe probabilmente sortito un esito positivo se il Sant’Uffizio non avesse chiesto di avocare la causa a Roma. La richiesta di avocazione della causa di Bruno viene accolta con insolita facilità dal Senato veneziano, normalmente custode geloso delle proprie prerogative e della propria sovranità tant’è che Bruno giunge a Roma il 27 febbraio 1593, per venire rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio. Pochi mesi dopo l’arrivo di Bruno a Roma la sua situazione viene inaspettatamente compromessa dalla comparsa di un nuovo testimone dell’accusa, il frate cappuccino Celestino da Verona, suo compagno di carcere a Venezia. Il suo ex concarcerato denuncia Bruno lanciandogli contro un insieme di gravi accuse che in parte confermano l’impianto accusatorio del Mocenigo, in parte aggiungono nuovi capi d’accusa a suo carico. Inoltre Celestino chiama in causa come testimoni altri quattro compagni di carcere di Bruno a Venezia, che a loro volta confermano gran parte delle accuse. È una svolta gravissima per Bruno che col suo folle atteggiamento (in cella aveva un comportamento opposto a quello che teneva durante le sedute del processo, dove simula un pieno pentimento e dove giunge a chiedere perdono) ha compromesso quella che fino a quel momento era una posizione processuale abbastanza solida proprio perché doveva difendersi da un solo accusatore.
Terminato il processo offensivo con l’interrogatorio di Bruno su tutte le nuove accuse, ha inizio il processo ripetitivo che aveva luogo solo se l’imputato non era riuscito a dimostrarsi innocente, né si era confessato colpevole. Anche questo processo, in cui l’accusato poteva studiare gli incartamenti che lo riguardavano per preparare una sua difesa , si concluse con una completa disfatta di Bruno. All’inizio del 1595 i giudici ordinano che venga recuperato il più ampio numero possibile di testi pubblicati da Bruno, per poter unire alle prove raccolte attraverso le testimonianze, quelle, irrefutabili, derivanti dai suoi testi. Nel marzo del 1597, dopo che una commissione di sei teologi li aveva esaminati, Bruno riceve le censure dei libri dove emergono con chiarezza alcune sue posizioni eretiche, soprattutto quelle contenenti le tesi della sua metafisica: ad esempio condannano il principio, sostenuto nel De la causa, per cui da una causa infinita debba derivare un infinito effetto, tesi eretica in quanto implicherebbe un Dio necessitato a produrre un dato effetto e non onnipotente; viene condannato il moto della Terra difeso ne La cena de le ceneri e l’idea bruniana della Terra come un grande animale dotato di un’anima sensitiva e razionale. Scrive nella Cena delle ceneri:”l’universo è infinito, che quello consta di un’immensa eterea ragione; è veramente un cielo, il quale è detto spacio e seno, in cui sono tanti astri…e così la luna, il sole et altri corpi innumerabili sono in questa eterea raggione, come vegghiamo essere la terra e che non è da credere altro firmamento, altra base, altro fondamento, ove s’appoggino questi grandi animali che concorreno alla costituzione del mondo, vero soggetto ed infinita materia dell’infinita divina potenza attuale”.
Poiché il processo langue da troppo tempo, il cardinal Bellarmino, che pochi anni dopo sarà protagonista del caso Galileo, propone di sottoporre a Bruno un gruppo di posizioni sicuramente eretiche estratte dagli atti del processo chiedendo all’imputato di abiurarle: se abiura, non essendo relapsus, ovvero non essendo già stato condannato per eresia in passato, il filosofo di Nola quasi sicuramente andrebbe incontro a una breve detenzione; se rifiuta non ha nessuna speranza di sfuggire al rogo. Dopo un nuovo ultimatum di quaranta giorni, il 15 febbraio Bruno si dichiara disposto ad abiurare totalmente ammettendo di aver pensato « troppo filosoficamente, disonestamente e non troppo da buon cristiano… fondando la sua dottrina sopra il senso e la raggione e non sopra la fede ». Mentre si procede a preparare il testo della condanna, il 5 aprile Bruno ritorna sui suoi passi. I giochi vengono così riaperti e devono passare molti mesi per arrivare a un nuovo conclusivo ultimatum: il 10 settembre 1599 il filosofo si dichiara nuovamente disposto all’abiura più completa per ritornare sui suoi passi in una lettera a papa Clemente VIII pochi giorni dopo. Ricevuto un secondo ultimatum di quaranta giorni per decidersi ad abiurare Bruno, allo scadere del periodo che gli era stato concesso, dichiara di non aver niente da abiurare. Il Papa, allora, ordina che egli venga condannato come eretico impenitente. Subito dopo la lettura della sentenza di morte, avvenuta l’8 Febbraio, Bruno disse:“ Forse avete più paura voi nel condannarmi, che non io nel subire la condanna” E questa frase così grave, quasi minacciosa, riesce ad inquadrare quelli che probabilmente sono i motivi principali della condanna di Bruno: la paura della Chiesa e l’impossibilità da parte di questa di accettare una dottrina che andava a minare le basi di un’istituzione plurisecolare; inoltre, dalla Riforma non era passato neanche un secolo. Dunque la Chiesa dovette muoversi per preservare addirittura elementi dogmatici, dal Bruno stesso messi in dubbio esplicitamente ed implicitamente: durante il processo affermò di aver «dubitato circa il nome di persona dello Spirito Santo e del Figliuolo» e di aver «dubitato come questa seconda persona se sia incarnata». Ma già in precedenza Bruno aveva mostrato di avere tali dubbi riguardo la religione: nel momento in cui abbracciò e rielaborò le tesi di Copernico, affermando la natura acentrica ed infinita dell’universo, negò, quasi per sillogismo, la fondatezza del dogma dei dogmi: l’Incarnazione. Questa verità biblica contiene infatti in se stessa l’idea dell’esistenza di un solo mondo. Così il 17 febbraio 1600: Giordano Bruno « fu condotto da ministri di giustizia in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo». Così « moriva martire e volentieri », dopo otto anni di incarcerazione nel Palazzo del Santo Uffizio, trascorsi tra « pertinaci ostinazioni », abiure e ritrattazioni, accusato di blasfemia, magia nera e millantato credo delle arti mnemotecniche.
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Dai verbali dell’Inquisizione: alcuni atti del processo a Giordano Bruno | |||||||||
Il primo brano è il testo della prima deposizione d’accusa fatta dal Mocenigo ai giudici del tribunale veneziano, in cui compaiono sia teso metafisiche di Bruno, sia affermazioni fortemente critiche o irridenti verso la religione cattolica e il clero, sia, infine, affermazioni riferite alle pratiche magiche cui il nolano si dedicava. “Molto reverendo Padre et signore osservandissimo, io Zuane Mocenigo fo del carissimo messer Marco Antonio dinuntio a Vostra Paternità molto reverenda per obligo della conoscientia, et per ordine del mio confessor, haver sentito a dire a Giordano Bruno Nolano, alcune volte che ha ragionato meco in casa mia: che è biastemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustantii in carne; che lui è nemico della messa; che niuna religione gli piace; che Cristo fu un tristo et che, se faceva opere triste di sedur populi, poteva molto ben predire di dover esser impicato; che non vi è distintione in Dio di persone, et che questo sarebbe imperfetion in Dio; che il mondo è eterno, et che sono infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole quanto che può; che Cristo faceva miracoli apparenti et che era un mago, et così gl’appostoli et che a lui daria l’animo di far tanto, et più di loro; che Cristo mostrò di morir malvolentieri et che la fuggì quanto che puotè; che non vi è punitione de’ peccati, et che le anime create per opera della natura possano d’un animal in un altro; et che come nascono gli animali brutti di corruzione, così nascono anco gl’huomini, quando doppo i diluvii ritornano a nasser. Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia; ha detto che la Vergine non può haver partorito et che la nostra fede cattolica è piena tutta di bestemmie contra la maestà di Dio; che bisognerebbe levar la disputa et le entrate a li frati, perché imbratano il mondo; che sono tutti asini, et che le nostre opinioni sono dottrine d’asini; che non habbiamo prova che la nostra fede meriti con Dio; et che il non far ad altri quello che non volessimo che fosse fatto a noi basta per ben vivere; et che se n’aride di tutti gli altri peccati; et che si meraviglia come Dio supporti tante eresie di cattolici. Dice di voler attender all’arte divinatoria et che si vuole far correr dietro tutto il mondo; che San Tomaso et tutti li dottori non hanno saputo niente a par di lui, et che chiariria tutti i primi theologi del mondo, che non sapriano rispondere. M’ha detto di non haver avuto altre volte i Roma querellle a l’inquisitione di cento e trenta articoli, et che se fuggì mentre era presentato, perché fu imputato d’haver gettato in Tevere chi l’accusò, o chi credete lui che l’havesse accusato a l’inquisitione. Io disegnavo d’imparar da lui come le ho detto a bocca, non sapendo che fosse così tristo come è et avendo notato tutte queste cose per darne conto a Vostra Paternità molto reverenda, quando ho dubitato che se no possi partire, come lui diceva di voler fare, l’ho serrato in una camera a requisitione sua; et perché io lo tengo per indemoniato, la prego far resolutione presta di lui.”
Questo brano, invece, è tratto dal terzo interrogatorio di Bruno a Venezia. Qui Bruno espone gli elementi di fondo della sua nuova metafisica e della sua visione cosmologica e lo fa con uno slancio e una decisione che appaiono volti, quasi, a cercare di portare i giudici a comprendere il valore delle sue argomentazioni.
“Direttamente non ho insegnato cosa contra la religione cattolica cristiana, benché indirettamente, come è stato giudicato in Parisi (…) L’intention mia è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infiniti divina potentia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia, che tossendo produr, oltra questo modo un altro et altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dichiarato infiniti mondi particolari simili a questo della terra; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile alla quale è la luna, altri pianeti et altre stelle, le qual sono infinite; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali costituiscono poi la università infinita in uno spatio infinito; et questo se chiama universo infinito, nel quale sono mondi innumerabili. Di sorte che è doppia sorte de infinitudine de grandezza dell’infinito et de moltitudine de mondi, onde indirettamente si intende essere ripugnata la verità secondo la fede”.
L’ultimo passo estratto dai verbali è il testo della condanna letta l’8 febbraio in Piazza Navona alla presenza di tutta la Congregazione del Sant’Uffizio dal notaio Flaminio Ariani. Secondo una testimonianza Bruno, che ha ascoltato la sentenza in ginocchio, al termine della lettura si alzò in piedi e con volto minaccioso gridò:“ Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla! ”.
“(…) Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Christo et della sua gloriosissima madre sempre vergine Maria, nella causa et cause predette al presente vertenti in questo Santo Offitio tra il reverendo Giulio Monterenti, dottore di leggi, procurator fiscale di detto Santo Offitio, da una parte, et te fra’ Giordano Bruno predetto, reo inquisito, processato, colpevole, impenitente, ostinato et pertinace ritrovato, dall’altra parte: per questa nostra diffinitiva sententia, quale di conseglio et parere de’ reverendi padri maestri di sacra theologia et dottori dell’una e dell’altra legge, nostri consultori, proferimo in questi scritti, dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dichiaramo te, fra’ Giordano Bruno predetto, essere heretico impenitente, pertinace (et ostinato), et perciò essere in corso in tutte le censure ecclesiastiche et pene (dalli sacri) Canoni, leggi et constitutioni, cosi generali come (particolari,a) tali heretici confessi, impenitenti pertinaceet ostinati imposte; et come tale te degradiamo verbalmente et dechiaramo dover essere degradato, sì come ordiniamo et comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gli ordini ecclesiastici maggiori et minori nelli quali sei costituito, secondo l’ordine dei sacri Canoni; et dover essere scacciato si come ti scacciamo dal foro nostro ecclesiastico et dalla nostra santa et immaculatata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno; et dover essere rilasciato alla Corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governator di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro. Di più condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti gli sopradetti et altri tuoi libri et scritti come heretici et erronei et continenti molte heresie et errori, ordinando che tutti quelli che si’hora si sono havuti, et per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di San Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nel Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci”. |
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