Dei
moventi della ragion pura pratica
In
questo brano, uno dei più densi e significativi della Critica
della ragion pratica
(parte I, capitolo II),
Kant
espone — nel suo complesso linguaggio, caratteristico
della filosofia tedesca al termine del Settecento
—
alcuni elementi fondamentali della sua concezione etica:
quello di legge e di
sentimento morale,
di dovere, di rispetto
per la legge morale stessa,
e di santità. |
L’essenziale
di ogni valore morale delle azioni dipende da questo: che la legge
morale determini immediatamente la volontà. Se la determinazione della
volontà avviene bensì conformemente alla legge morale, ma solo
mediante un sentimento di qualunque specie, che si deve presupporre
perché diventi un motivo determinante sufficiente della volontà; se
quindi l’azione non avviene per la legge (1),
l’azione conterrà bensì la legalità, ma non la moralità. Ora, se
per movente (elater
animi) viene
inteso il motivo determinante soggettivo della volontà di un essere, la
cui ragione, già per sua natura, non è conforme necessariamente alla
legge oggettiva, ne seguirà anzitutto: che non si può affatto
attribuire alcun movente alla volontà divina, ma che il movente della
volontà umana (e di ogni essere razionale creato) non può mai essere
altro che la legge morale; e quindi il motivo determinante oggettivo
dev’essere sempre e nello stesso tempo il solo motivo determinante
soggettivamente sufficiente dell’azione, se questa non deve osservare
soltanto la lettera della legge senza contenerne lo spirito(2).
Siccome dunque per lo scopo della legge morale, e per procurare ad essa
un influsso sulla volontà, non si deve cercare nessun altro movente se
non quello della legge morale, perché tutto ciò produrrebbe una mera
ipocrisia senza consistenza, e siccome è pericoloso anche solo far
cooperare accanto alla legge morale alcuni altri moventi (come quello
del vantaggio), così non rimane che determinare accuratamente in che
modo la legge morale diventi movente, e cosa avvenga quando essa è
tale, nella facoltà di desiderare (3)(...).
Poiché, come una legge possa esser per sé e immediatamente un motivo
determinante della volontà (il che è pure l’essenziale di ogni
moralità), è un problema insolubile per la ragione umana e identico a
questo: come sia possibile una volontà libera. Dunque, noi avremo da
dimostrare a priori, non il motivo per cui la legge morale ha in sé un
movente, ma ciò che essa, in quanto movente, opera (o, meglio, deve
operare) nell’anima. L’essenziale di ogni determinazione
della volontà mediante la legge morale è: che essa venga determinata
solo mediante la legge come volontà libera, e quindi non soltanto senza
il concorso degl’impulsi sensibili, ma anche con l’esclusione di
tutti questi impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto
possano esser contrarie a quella legge. In questo senso, dunque,
l’effetto della legge morale come movente è soltanto negativo, e come
tale può esser conosciuto a priori (4).
Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul
sentimento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che
avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a
priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà,
perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un
sentimento che può esser chiamato dolore; (...).
Tutte le inclinazioni insieme (che possono anche venire ridotte in un
sistema tollerabile, e la soddisfazione delle quali in questo caso si
chiama felicità) costituiscono l’egoismo (solipsismus). Questo
è, o l’egoismo dell’amore di sé, ossia di una benevolenza verso se
stesso (philautia) che
supera tutto, o l’egoismo della compiacenza di se stesso (arrogantia).
Quello
si chiama particolarmente amor proprio, questo presunzione. La
ragion pura pratica (5)reca
semplicemente danno all’amor proprio, costringendolo soltanto, come
naturale e desto in noi ancor prima della legge morale, ad accordarsi
con tale legge; esso viene allora chiamato amor razionale di sé. Ma la
ragion pura pratica abbatte completamente la presunzione, in quanto
tutte le pretese della stima di sé, le quali precedono l’accordo con
la legge morale, sono vane e senza alcun diritto, e in quanto appunto la
certezza di un’intenzione, che s’accordi con la legge morale, è la
prima condizione di ogni valore della persona (come presto spiegheremo
meglio), e ogni pretesa anteriore ad essa è falsa e contraria alla
legge. Ora, la tendenza alla stima di sé appartiene alle inclinazioni a
cui la legge morale reca danno, in quanto quella stima si fonda soltanto
sulla sensibilità. Dunque la legge morale abbatte la presunzione. Ma
siccome questa legge è qualcosa di positivo in sé, e cioè la forma di
una causalità intellettuale, ossia della libertà, così, quando in
opposizione al contrario soggettivo, cioè alle inclinazioni in noi,
indebolisce la presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto di
rispetto; e quando l’abbatte completamente, e cioè l’umilia, è un
obbietto del massimo rispetto, e quindi anche la base di un sentimento
positivo che non è di origine empirica, ma vien conosciuto a priori.
Dunque, il rispetto alla legge morale è un sentimento che vien prodotto
mediante un principio intellettuale; e questo sentimento è il solo che
noi conosciamo affatto a priori, e di cui possiamo vedere la necessità.
(...)
Ora la coscienza di un assoggettamento libero della volontà alla legge,
legata tuttavia con una coercizione inevitabile che vien fatta a tutte
le inclinazioni, ma solo mediante la propria ragione, è il rispetto
della legge. La legge, che esige, e anche ispira, questo rispetto, è,
come si vede, niente altro che la legge morale (poiché nessuna altra
esclude tutte le inclinazioni dall’immediatezza del loro influsso
sulla volontà). L’azione che, secondo questa legge, con esclusione
di tutti i motivi determinanti che derivano dall’inclinazione, è
oggettivamente pratica, si chiama dovere, il quale, per questa
esclusione, contiene nel suo concetto un costringimento pratico, cioè
una determinazione alle azioni, per quanto mal volentieri esse
avvengano. Il sentimento che deriva dalla coscienza di questo
costringimento non è patologico come un sentimento che fosse prodotto
da un oggetto dei sensi, ma è soltanto pratico, cioè possibile
mediante una determinazione precedente (oggettiva) della volontà e la
causalità della ragione. Esso dunque, come assoggettamento a una legge,
cioè come comando (che significa violenza per un soggetto affetto
sensibilmente), non contiene nessun piacere, ma, in questo senso,
piuttosto dispiacere per l’azione in sé. D’altra parte, siccome
questa violenza viene esercitata solo mediante la legislazione della
propria ragione, esso contiene anche un’elevazione, e l’effetto
soggettivo sul sentimento, in quanto la ragion pura pratica ne è la
sola causa, si può quindi chiamare semplicemente approvazione di sé
relativamente all’elevazione, poiché ci si riconosce determinati
senza un interesse, solo mediante la legge, e si viene a conoscenza
ormai di un interesse affatto diverso, e per ciò stesso prodotto
soggettivamente, puramente pratico e libero, che non ci è consigliato
da un’inclinazione per un’azione conforme al dovere, ma che la
ragione mediante la legge pratica comanda semplicemente ed anche produce
realmente, e perciò porta un nome affatto speciale, cioè quello di
rispetto. Il concetto del dovere richiede dunque nell’azione,
oggettivamente, l’accordo con la legge, ma nella massima di essa,
soggettivamente, il rispetto alla legge, come il solo modo di
determinazione della volontà mediante la legge. E in ciò consiste la
differenza fra la coscienza di aver agito conformemente al dovere e
quella d’aver agito per il dovere, cioè per il rispetto della legge:
il primo caso (la legalità) è possibile anche se semplicemente le
inclinazioni siano state i motivi determinanti della volontà; il
secondo caso (la moralità), il valore morale, dev’essere posto
invece soltanto in ciò che l’azione avvenga pel dovere, cioè
semplicemente per la legge. In tutti i giudizi morali è della più
grande importanza far attenzione con somma diligenza al principio
soggettivo di tutte le massime (6),
affinché ogni moralità delle azioni venga posta nella necessità di
agire per dovere e per rispetto alla legge, non per amore o per
propensione a ciò che le azioni devono produrre. Per gli uomini e per
tutti gli esseri razionali creati la necessità morale è un
costringimento, cioè un obbligo; ogni azione fondata su di essa si deve
immaginare come dovere, e non come un modo di procedere che già ci
piace o può diventarci piacevole. Proprio come se noi, senza il
rispetto alla legge che è legato al timore o almeno con l’apprensione
per la trasgressione, non potessimo da noi, come la divinità che è
superiore a ogni dipendenza, e quasi per un accordo divenuto naturale
per noi, che non dovesse mai esser turbato, della volontà con la legge
pura morale (la quale perciò, giacché non potremmo mai tentare di
esserle infedeli, potrebbe bene infine cessar di essere un comando per
noi), venire in possesso di una santità della volontà. Vale a dire, la
legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge
della santità, ma per la volontà di ogni essere finito razionale è
una legge del dovere, del costringimento morale e della determinazione
delle azioni di essa mediante il rispetto a questa legge e per ossequio
al dovere. Non si deve prendere per movente un altro principio
soggettivo, poiché altrimenti l’azione può bensì avvenire come la
prescrive la legge, ma, essendo essa conforme sì al dovere, ma non
compiuta per il dovere, l’intenzione di essa non è morale, ed in
questa legislazione si tratta invece propriamente dell’intenzione
morale.
È cosa molto bella far del bene agli uomini per amore verso di essi e
per affettuosa benevolenza, oppure esser giusti per amore dell’ordine;
ma questa non è ancora la vera massima morale del nostro comportamento,
conforme alla nostra natura di esseri razionali, se pretendiamo, come
soldati volontari, con superbia chimerica, di non curarci del pensiero
del dovere e, come indipendenti dal comando, di voler fare soltanto per
proprio piacere quello per cui non ci sarebbe necessario alcun comando.
Noi stiamo sotto una disciplina della ragione, e in tutte le nostre
massime dell’assoggettamento ad essa non dobbiamo dimenticare di non
toglierle niente, e di non diminuire con un errore egoistico
l’autorità della legge (quantunque l’autorità gliela dia la nostra
ragione), ponendo il motivo determinante della nostra volontà, benché
conforme al dovere, in qualche cosa di altro dalla legge stessa, e dal
rispetto per questa legge. Dovere e obbligo sono le denominazioni che
dobbiamo dare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi
siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile
mediante la libertà, rappresentato a noi mediante la ragion pratica
come oggetto di rispetto; ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non
il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e
il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una
infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la
lettera.
Da
CRITICA DELLA RAGION PRATICA,
cur.
F.Capra & E.Garin, Laterza, Bari 1955, vol.I, pp.89-102
1.Ossia, non per il valore che ha in sé la legge morale, ma
per una qualche ragione che può essere dettata dal sentimento o
da un calcolo d’ordine utilitaristico.
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2.Kant osserva che si può rispettare la legge morale
ignorandone o non volendone considerare lo spirito: se ne rispetta
la lettera, per motivi che possono essere ad esempio di
convenienza o per semplice convenzionalità, ma non se ne rispetta
appunto lo spirito, ossia non si considera il fatto che essa vale
di per sé.
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3. Qui Kant enuncia qual è il
problema fondamentale di una scienza etica: come sia possibile che
la legge morale — che vale di per sé, che
non ha altra forza che in se stessa — divenga
un movente della nostra azione, un movente tanto forte da superare
quelli del sentimento, dell’utile e del piacere.
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4.
Il problema della scienza etica si riduce quindi,
forzatamente, a quello di comprendere gli effetti che possono
essere prodotti nell’uomo dall’inserzione di moventi, come
quelli propriamente morali, diversi da quelli del tutto naturali
del sentimento, dell’utile e del piacere. Il problema
diviene quello di comprendere in quale misura simili effetti
sono compatibili con il benessere, con il bene individuale e
collettivo degli uomini. Va precisato che nella scienza etica — così come questa è concepita da Kant — tali
effetti non sono da provare a posteriori,
ma
a priori; gli effetti ai quali si riferisce Kant, non sono cioè
quelli empirici ordinariamente osservabili, ma quelli possibili,
che potrebbero conseguire da una modificazione profonda del modo
di concepire la vita da parte degli uomini |
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5. La ragione pratica è a rigore da Kant detta anche
“ragione pura pratica”: i suoi oggetti, infatti, sono, oltre
alla moralità, alcuni fra gli oggetti della ragione pura: più
esattamente, la libertà dell’uomo, l’immortalità
dell’anima e Dio, che la ragion pura
stessa, assumendo una forma o funzione speculativa,
presume di poter dimostrare, mentre, assumendo una forma o
funzione pratica, postula soltanto come condizioni necessarie dell’azione
morale.
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6. Tale principio è appunto il
“rispetto” nei confronti del dovere.
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