I miti dell'anima
(Dal "Fedro")
"…Dell' immortalità dell'anima s'è parlato
abbastanza, ma quanto alla sua natura c'è questo che dobbiamo dire.
Definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente
solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo
immagini è impresa umana e più breve. Questo sia dunque il modo del
nostro discorso. Si raffiguri l'anima come la potenza d'insieme di
una pariglia alata e di un auriga.
Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi sono buoni e di
buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’
nò. Innanzitutto, per noi uomini, l'auriga conduce la pariglia; poi
dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre
l'altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue
che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e
penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano
chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura
di ciò che è inanimato, e penetra per l'intero universo assumendo
secondo i luoghi forme sempre differenti.
Così, quando sia perfetta ed alata, l'anima spazia nell'alto, e
governa il mondo; ma quando un'anima perda le ali, essa precipita
fino a che non s'appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e
assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito
della potenza dell'anima. Questa composita struttura d'anima e di
corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale.
La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento
razionale, però noi ci preformiamo il dio, senza averlo mai visto né
pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di
anima e di corpo eternamente connessi in un'unica natura. Ma qui
giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento
del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali
ond'esse si staccano dall'anima. Ed è press'a poco in questo modo."
"La funzione naturale dell'ala è di sollevare ciò che è peso e di
innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo
essa partecipa del divino più delle altre cose che hanno attinenza
col corpo. Il divino è bellezza, sapienza, bontà, ed ogni altra
virtù affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce
l'ala dell'anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da
altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente
sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed
ordina ogni cosa provvedendo a tutto.
A lui vien dietro l'esercito degli dèi e dei demoni ordinato in
undici schiere: Estia rimane sola nella casa degli dèi. Quanto agli
altri dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come capi,
conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato
assegnato. Varie e venerabili sono le visioni e le evoluzioni che la
felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l'adempiere ognuno
di essi il loro compito.
Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché
l'Invidia non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano
ai loro banchetti e festini, salgono per l'erta che mena alla
sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché le pariglie
degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini,
mentre per gli altri l'ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno
fa peso, e tira verso terra premendo l'auriga che non l'abbia bene
addestrato.
Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell'anima.
Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al
sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il
dorso del cielo: e l'orbitare del cielo le trae attorno, così
librate, ed esso contemplano quanto sta fuori del cielo."
"Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato,
né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna
pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il
discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella
essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo
dall'intelletto, pilota dell'anima, quella essenza che è scaturigine
della vera scienza.
Ora il pensiero divino è nutrito d'intelligenza e di pura scienza,
così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere
ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l'essere,
ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la
rivoluzione circolare non riconduca l'anima al medesimo punto.
Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la
temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al
divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo
esseri, ma quella scienza che è nell'essere che veramente è. E
quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è
cibata, s'immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed
essendo così giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia
e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare."
"Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che
meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad
assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione
superceleste, ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di
rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a
fatica le realtà che sono.
Ma un'altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo la
violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed
eccoti, seguono le altre tutte agognanti quell'altezza, ma poiché
non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte, qua e là e cadendosi
addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l'un
l'altra. Ne conseguono scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e
per l'inettitudine dell'auriga molte rimangono sciancate e molte ne
hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne
dipartono senza aver goduto la visione dell'essere e, come se ne
sono allontanate, si cibano dell'opinione.
La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire
dove sia la Pianura della Verità è che lì in quel prato si trova il
pascolo congeniale alla parte migliore dell'anima e che di questo si
nutre la natura dell’ala, onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge
di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi al seguito di un dio, abbia
contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca
da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà
immune da mali.
Ma quando l'anima, impotente a seguire questo volo, non scopra nulla
della verità, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta
gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di
questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole
che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina durante la
prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più
abbia veduto si trapianti in un seme d'uomo destinato a divenire un
ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto
d'amore; che l'anima, seconda alla prima nella visione dell'essere
s'incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e
capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di
stato, o in un esperto d'affari o di finanze; che la quarta scenda
in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la quinta
abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si
adatti un poeta o un altro artista d'arti imitative, alla settima un
operaio o un contadino, all'ottava un sofista o un demagogo, e alla
nona un tiranno.
"Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in
cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore.
Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita
prima di diecimila anni - giacchè non mette ali in un tempo minore -
tranne l'anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, o
di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se
durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito,
questa vita filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne
dipartono al termine del terzo millennio.
Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a
giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni
sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste,
ci vivono così come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma
umana. Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al
sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie
secondo il proprio volere: è qui che un'anima può passare in una
vita ferina e l'anima di una bestia che una volta sia stata in un
uomo può ritornare in un uomo. Giacché l'anima che non abbia mai
visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché
bisogna che l'uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una
molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal
ragionamento.
Questa compressione è reminiscenza della verità che una volta
l'anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d'un dio, e
dall'alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo
esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per
questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché
per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli
oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Così se un
uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai
perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto, e poiché
si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato
dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è
posseduto dalla divinità."
"Ecco dove l'intero discorso viene a toccare la quarta specie di
delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza
terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e
di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come
un uccello fissi l'altezza e trascuri le cose terrene, offre motivo
d'essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la più
nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è più
nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi
conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto
amatore. Perché, secondo quanto s'è detto, ogni anima umana per sua
natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe
penetrata in questa creatura che è l'uomo.
Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene,
far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che
ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per
quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte
cosicché, stravolte verso l'ingiustizia da certe compagnie,
dimenticarono quanto allora videro di santo. Proprio poche rimangono
che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando
scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e
non si tengono più, pur non sapendo di che patimento si tratti
perché la percezione di ciò non è sufficientemente profonda.
Ora nelle imitazioni terrene non traspare neppure un raggio di
giustizia, di temperanza e di quant'altri beni siano preziosi per
l'anima, ma solo pochi, con organi così ottusi, possono a fatica
scorgere, accostandosi alle immagini, la natura di ciò che in esse è
raffigurato. La bellezza brillava allora in tutta luce, quando nella
beata schiera ne godevamo la beatificata visone, noi al seguito di
Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati a quella
iniziazione che si può ben dire la più beatifica di tutte; e la
celebravamo integri ed inesperti dei mali che in seguito ci
avrebbero atteso, in misterica contemplazione di integre e semplici,
immobili e venerabili forme, immersi in una luce pura, noi stessi
puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di
corpo, imprigionati in esso come un'ostrica…"
"Questo discorso sia il nostro tributo alla reminiscenza che già ci
ha tirato ad una lunga digressione, presi dal rimpianto delle cose
di allora. Ora, la bellezza, come s'è detto, splendeva di vera luce
lassù fra quelle essenze, e anche dopo la nostra discesa quaggiù
l'abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e
risplendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al
nostro corpo; essa però non vede il pensiero. Quali straordinari
amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche
mai chiara immagine di sé da contemplare! Né può vedere le altre
essenze che son degne d'amore. Così solo la bellezza sortì questo
privilegio di essere la più percepibile dai sensi e la più amabile
di tutte. Chi pertanto ha una lontana iniziazione o è già corrotto
non può rapidamente elevarsi da questo mondo a contemplare la
bellezza in sé di lassù, col mettersi a guardare ciò che qui in
terra si chiama bello; cosicché egli la riguarda senza venerazione
e, arrendendosi al piacere, come una bestia, si lancia a seminare
figlioli, o abbandonatosi agli eccessi non prova timore né vergogna
a perseguire piaceri contro natura.
Ma chi sia iniziato di fresco e abbia goduto di lunga visione lassù,
quando scorga un volto d'apparenza divina, o una qualche forma
corporea che ben riproduca la bellezza, sùbito rabbrividisce e lo
colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa
bellezza la venera come divina e se non temesse d'esser giudicato
del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come a un'immagine
di un dio. E rimirandolo, come avviene quando il brivido cede, gli
subentra un sudore e un'accensione insolita: perché man mano che gli
occhi assorbono l'effluvio di bellezza, egli s'accende e col calore
si nutre la natura dell'ala. Con il calore poi si discioglie intorno
alle gemme l'ispessimento che, da tempo incallito, proibiva loro di
germogliare. Affluendo il nutrimento, diviene turgida e lo stelo
dell'ala riceve impulso a crescere su dalla radice, investendo
l'intera sostanza dell'anima. Perché un tempo era tutta alata."
"Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i
bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco
questo l'anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali:
palpita, s'irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque
rimirando la bellezza d'un giovane, l'anima riceve le particelle che
da quello partono e scorrono (ed è perciò che si chiama "fiume di
desiderio") , se ne nutre, se ne riscalda, cessa l'affanno e
gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l'anima
inaridisce e le aperture dei meati attraverso i quali spuntano le
penne disseccandosi si contraggono sì da impedire i germogli
dell'ala. Ma questi, imprigionati dentro, insieme dall'onda del
desiderio amoroso, palpitando come un'arteria urgono ciascuno contro
la propria apertura sicché l'anima, trafitta da ogni parte, smania
per l'assillo ed è tutta affannata. Ma riassalendola il ricordo
della bellezza, ringioisce. Così sovrapponendosi questi due
sentimenti, l'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua
condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova
sonno di notte né riposo di giorno, ma corre anela là dove spera di
poter rimirare colui che possiede la bellezza.
E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le
si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle
trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno,
questo soavissimo piacere. Ed è così che non si staccherebbe mai
dalla bellezza e che la tiene cara più di tutte; anzi si smemora
della madre, dei fratelli e di tutti gli amici, e se il patrimonio
rovina perché l'ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, messe
da parte norme e convenienze delle quali prima si adornava, è prona
ad ogni schiavitù e a dormire in qualunque posto le si permetta, il
più vicino possibile al suo caro. Perché, oltre a venerare colui che
possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi
dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui
sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore; ma quando ti dirò
come lo chiamano gli dèi, forse sorriderai, data la tua giovinezza.
C'è una coppia di versi sull'amore, citati da certi Omeridi,
traendoli forse dalla loro tradizione segreta, il secondo dei quali
è davvero insolente e zoppicante di metrica. Dicono così:
Gli uomini lo chiamano Amore che vola,
Alato gli dèi, perché fa crescere l'ali.
Ci si può credere o no, tuttavia la causa delle condizioni degli
innamorati è proprio questa.
"Ora, se chi è preso d'Amore faceva parte del
seguito di Zeus, è in grado di portare con più solidità l'affanno
del dio che ha nome dalle ali. Ma quanti furon nel corteggio di Ares
e lo seguirono nel suo giro, quando sian preda d'Amore e credano
d'aver subito offesa dall'amato, sono facili al sangue, e disposti a
sacrificare se stessi e il loro amato. E così via, ogni innamorato
vive secondo il modo del dio di cui fu al seguito, venerandolo ed
imitandolo per quanto può.
Finché rimane incorrotto e sia nella prima esistenza, egli tratta e
si comporta in quel modo con gli amati e con gli altri. E ancora
secondo quella maniera ciascuno trasceglie il suo amore fra i belli
e di quello ne fa suo dio; se ne costruisce una specie di immagine
divina e la adorna con l'idea di venerarla e tributarle un culto.
Così quelli che erano al seguito di Zeus anelano ad amare chi abbia
un’anima conforme alle virtù di Zeus: scrutano se abbia sortito da
natura amore alla saggezza e carattere per comandare, e quando
l'abbiano trovato, se ne infiammano d'amore e fanno di tutto per
mantenere quelle disposizioni. Ma se prima non avevano intrapreso
questo studio, ora, impegnandosi, lo apprendono da ogni altra fonte
per quanto possono e ne proseguono da se stessi la ricerca. E mentre
essi si mettono sulle tracce per scoprire da sé la natura del loro
dio, sono facilitati dall'essere fortemente costretti a tenere gli
occhi su di lui: finalmente raggiungendolo con il ricordo, ne sono
invasati e da lui prendono costumi e attività, per quanto è
possibile all'uomo di partecipare della divinità. Ora, ecco che
attribuendo il merito di ciò al loro amato lo amano ancor più, e
sebbene l'abbiano attinto da Zeus come attingono le Baccanti,
riversano nell'anima del diletto e la formano così per quanto
possono più simile al proprio dio.
Quanti poi furono al seguito di Era, anelano a un'anima regale e ,
trovata che l'hanno, fanno del pari ogni cosa per lei. Quelli al
seguito di Apollo e di ciascuno degli dèi, procedendo al passo del
loro dio anelano a un amato che ne abbia natura conforme. E quando
l'hanno conquistato, sia imitando essi stessi il loro dio, sia
persuadendo e disciplinando il loro amato, lo menano, per quanto a
ciascuno è possibile, verso l'attività e la forma del dio; e
agiscono in tal modo non per gelosia o meschina malevolenza verso il
diletto, ma nello sforzo di renderlo simile a se stessi e più
completamente al dio ch'essi onorano. Così l'ispirazione e
l'iniziazione dei veri amanti, se cercano di conquistarsi l'amore
nel modo che sto dicendo, è gloriosa e felice per chi sia amato e
sia stato conquistato da un amico invasato d'amore. E l'amato si
conquista in questo modo."
"Al principio di questo nostro mito abbiamo distinto ciascun’anima
in tre parti, delle quali due rassomigliandole a corsieri e la terza
a un auriga. Riprendiamo l'immagine. L'uno dei cavalli, dicemmo, è
nobile, e l'altro no; ma quale sia l'eccellenza del virtuoso e il
vizio del malvagio non l'abbiamo spiegato: conviene dunque parlarne
ora. Ora l'uno, e cioè quello in miglior forma, è di figura dritta e
snella, ha la cervice alta, le froge regali, il mantello bianco e
gli occhi neri, ama la gloria temperata e pudica, ed è amico
dell'opinione verace; lo si guida senza frusta solo con
l'incitamento e la ragione. Ma l'altro corsiero ha una struttura
contorta e massiccia, messa insieme non si sa come, ha forte
cervice, collo tozzo, froge vili, mantello nero ed occhi chiari e
sanguigni, compagno di insolenza e di vanità, peloso fino alle
orecchie, sordo e a stento dà retta alle sferzate della frusta.
Quando l'auriga alla vista del volto amoroso, tutto infiammato
l'animo di quella sensazione, è invaso dalla smania e dal pungolo
della passione, il cavallo docile all'auriga, costretto ora come
sempre dal pudore, si trattiene dal lanciarsi sull'amato, ma il
cavallo sordo alle sferzate della frusta, scalpitando è spinto di
forza e, mettendo in grande imbarazzo il compagno e l'auriga, li
costringe ad avanzare verso l'amato e a rammemorare i piaceri
dell'amore afrodisiaco. E i due da principio resistono, infuriati
d'esser forzati ad azioni mostruose e proibite, ma alla fine, non
trovando un freno al male, spinti ad avanzare cedono e lasciano fare
ciò che gli è imposto. E si fanno vicini all'amato e ne vedono la
folgorante visione."
"A tal vista la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza e di nuovo la vede alta su un sacro soglio a fianco della
Temperanza, e al ricordo di questa visione l'auriga preso dal timore
e dalla venerazione cade riverso all'indietro: perciò è costretto a
trarre indietro le redini con tale violenza che i cavalli si
accosciano sulle anche, senza resistenza il corsiero docile, ma a
forza il violento.
Ora che si sono tratti un po’ più lontani dall'amato, il primo
corsiero, vergognoso e smarrito, inonda l'anima intiera di sudore,
ma l'altro, placandosi la sofferenza provocata dal morso e dalla
caduta, non ha ancora preso lena, che infuria d'ira ingiuriando e
svergognando molto l'auriga e il compagno d'aver tradito il posto e
l'accordo per viltà e debolezza. E di nuovo cerca di forzarli ad
avanzare contro voglia e solo a stento cede alla loro preghiera di
rimandare a un’altra volta. Ma giunto il momento che hanno
stabilito, mentre quei due fingono d'aver scordato l'impegno,
l'altro cavallo li richiama alla promessa e con violenza, nitriti e
strattoni di forza di nuovo ad avvicinarsi all'amato per rinnovare
la loro profferta. E quando gli sono vicini protende innanzi la
testa, rizza la coda, morde il freno e tira avanti impudico.
Ma l'auriga, impressionato ancor più violentemente di prima,
rovesciatosi indietro come un corridore rinculante dalla barra di
partenza, con rinnovata violenza strappa indietro dai denti il morso
del cavallo insolente insanguinandogli la lingua malvagia e le
mascelle, e atterrandolo sulle anche "lo dà in preda ai dolori".
Quando però spesse volte sottoposto allo stesso trattamento, il
malvagio abbandona l'insolenza, ubbidisce finalmente, tutto
umiliato, alla guida dell'auriga e, quando vede il bell'amato, muore
dalla paura. Così avviene che finalmente l’anima dell’amante tiene
dietro all’amato, vergognosa e riverente…
Vedi dunque che se ottengono la supremazia gli elementi migliori
dell’anima che guidano a una vita ordinata dall’amore della
sapienza, i loro giorni su questa terra saranno beati e in piena
armonia, perché sono padroni di se stessi e misurati, avendo
assoggettato ciò che produce il male nell’anima e liberato ciò che è
fonte di virtù..."
I miti della conoscenza
"La Repubblica"
Il mito del sole
"Ma qual è quel dio del cielo, la cui luce ci
consente di vedere nel modo migliore gli oggetti visibili e a questi
di essere visti?"
"Quello a cui state pensando tu e gli altri" rispose "perché
evidentemente vuoi alludere al sole".
"Non è forse tale la relazione che intercorre fra vista e questa
divinità"?
"Quale relazione?"
"La vista non è identica al sole, né in se stessa né nell'occhio in
cui si realizza."
"Certamente no".
"Tuttavia, a me sembra, è il più solare dei sensi".
"Sicuro".
"E la sua facoltà non è dispensata dal sole come un fluido?".
"E' così".
"Dunque il sole non è identico alla vista, ma né è la causa, e come
tale è un oggetto della vista stessa?".
"Sì".
"Sappi allora" ripresi "che io intendevo parlare del sole come del
figlio del bene, creato a sua somiglianza, che nel mondo visibile è
analogo, in rapporto alla vista e alle cose visibili,
all'intelligenza e alle cose intellegibili nel mondo intelligibile".
"Non capisco. Continua a spiegare", disse.
"Tu sai che gli occhi, quando si volgono verso oggetti i cui colori
non siano più illuminati dalla luce del giorno, bensì soltanto dai
bagliori della notte, sono deboli e sembrano quasi ciechi, come se
non vedessero bene".
"Sì, lo sono" rispose.
"Ma quando, a me pare, si volgono, ad oggetti illuminati dal sole,
vedono con chiarezza, e la loro vista è di nuovo pura".
"E con ciò'"
"Credi pure che lo stesso accade all'anima. Quando essa si volge a
ciò che è illuminato dalla verità e dall'essere, ne comprende
pienamente l'essenza e dà l'impressione di essere intelligente….
Quando invece si volge a ciò che è avvolto nell'oscurità, a ciò che
nasce e perisce, essa nutre solo opinioni, e s'indebolisce
stravolgendole sopra e sotto, ed è come stupida".
"Sì, è così".
"Dì, pure, dunque, che solo l'idea del bene conferisce la loro
verità agli oggetti della conoscenza e a colui che li conosce: essa
è dunque causa della scienza e della verità in quanto oggetti di
conoscenza. Ma quantunque la scienza e la verità siano belle
entrambe, farai bene a pensare che esiste qualcosa di ancora più
bello. E' giusto ritenere solari la luce e la vista, ma non bisogna
identificarle con il sole. Così anche la scienza e la verità si
possono correttamente considerare affini al bene, ma non identiche
ad esso né l'una né 'altra: alla natura del bene spetta una più alta
considerazione."
"Tu affermerai, penso, che il sole dà alle cose visibili non
soltanto la capacità di essere viste, ma anche la vita, la crescita
e il nutrimento, pur non identificandosi con la vita
stessa."…."Dunque anche a proposito delle cose intelligibili si può
affermare che dal bene esse ricevono non solo il dono di essere
conosciute, ma anche l'esistenza e l'essenza, quantunque il bene non
s'identifichi con l'essenza, ma per dignità e potenza sia superiore
anche a questa."
"Pensa dunque" dissi "che esistano due soli, per così dire: l'uno
domina il regno delle cose intelligibili, l'altro quello delle cose
visibili."
Il mito della linea
Il modo in cui
l'anima esprime la sua facoltà
conoscitiva è la reminiscenza (anamnesis)
[reminiscenza: nella filosofia
platonica, la reminiscenza è spec. la
teoria per cui la conoscenza consiste
nel ricordo delle idee contemplate
dall'anima nell'iperuranio prima
di incarnarsi nel corpo] . Conoscere è
ricordare: l'anima possiede in sé i
concetti fondamentali che danno forma al
sapere -
Menone -. La più compiuta teoria
della conoscenza (teoria
della linea) è quella esposta nel
dialogo sulla
La Repubblica rappresentabile
col seguente schema:
conoscenza sensibile o opinione
(δόξα)
immaginazione (εικασία) |
credenza (πίστις) |
|
conoscenza intellegibile o
scienza (επιστήμη)
pensiero discorsivo (διάνοια) |
intellezione (νόησις) |
|
Solo la conoscenza
intelligibile assicura un sapere vero e
universale; affidarsi a immaginazione e
credenza significa confondere la verità
con la sua immagine.
|
"Considera per esempio una linea
divisa in due segmenti disuguali, poi continua a dividerla allo
stesso modo distinguendo il segmento del genere visibile da quello
del genere intelligibile. In base alla relativa chiarezza o oscurità
degli oggetti farai un primo taglio, corrispondente alle immagini,
considero tali in primo luogo le ombre, poi i riflessi nell'acqua e
nei corpi opachi lisci e brillanti, e tutti i fenomeni simili a
questi. Ma tu mi capisci?".
"Sì, ti capisco".
"Considera poi l'altro segmento, di cui il primo è l'immagine: esso
corrisponde agli esseri viventi, alle piante, a tutto ciò che
esiste".
"Bene!" approvò.
"Sei disposto ad ammettere che il mondo visibile si può dividere in
vero e falso, e che l'immagine sta al modello come l'opinione alla
verità?"
"Sì, senz'altro" rispose.
"Vedi ora come occorra dividere il segmento che corrisponde al
genere intelligibile".
"Ossia?"
"Nella prima sezione di tale segmento, l'anima, usando come immagini
le cose che nell'altro segmento erano i modelli, è costretta a
procedere per ipotesi, lungo una via che la conduce non verso il
principio ma verso la fine. Poi, nella seconda sezione, essa procede
verso il principio assoluto senza ricorrere alle ipotesi e alle
immagini, conducendo la sua ricerca solo grazie alle idee".
.."Ora ti dirò che cosa io consideri come secondo segmento del mondo
intelligibile. Esso è compreso solo dalla ragione mediante la
dialettica, che interpreta le ipotesi non come princìpi, ma appunto
come ipotesi, come premesse e punti di partenza per giungere al
principio assoluto di ogni cosa. Raggiunto quest'ultimo, la ragione
scende di nuovo alla fine attraverso la successione delle
conseguenze, senza alcun riferimento sensibile, ma passando da
un'idea all'altra e rimanendo nel loro ambito fino alla fine".
"Mi pare di comprenderti, anche se non perfettamente: questo
problema mi sembra davvero difficile. Insomma, tu vuoi affermare che
la conoscenza dell'essere intelligibile ottenuta con la dialettica é
più certa di quella offerta dalle cosiddette scienze, i cui principi
sono ipotetici: ipotesi che occorre studiare con il pensiero, non
con i sensi. Ma poiché gli scienziati non risalgono al principio, ma
partono dalle ipotesi, a te sembra che essi non colgano pienamente
queste realtà, sebbene intelligibili con un principio. E credo che
tu consideri pensiero discorsivo, non intelligenza, la condizione
della geometria e delle altre discipline affini, ossia un pensiero
intermedio fra l'opinione e l'intelligenza.".
"Hai capito benissimo!" risposi "E ora ai quattro segmenti fa
corrispondere le quattro condizioni spirituali: al segmento
superiore l’intelligenza, al secondo il pensiero discorsivo, al
terzo attribuisce l’assenso e all’ultimo la congettura. Poi mettili
in ordine secondo il principio che tanto maggiore è la loro evidenza
quanto maggiore la loro partecipazione"…
Il mito della caverna
Nel cosiddetto
Mito della Caverna (più giustamente
chiamato
allegoria della caverna), presentato
nella
Repubblica,
Platone paragona gli uomini a dei
cavernicoli. Costoro vivono in una
grotta (ci hanno sempre vissuto)
legati in maniera tale da non potersi
muovere, col viso rivolto contro una
parete. Fuori dalla grotta, su una
strada rialzata rispetto ai prigionieri,
vi è un grande fuoco, che illumina il
paesaggio circostante. Tra questo fuoco
e l'accesso della caverna vi è un grande
muro, simile agli schermi usati dai
burattini. Dietro di questo passano
degli uomini recanti sulle spalle grossi
pezzi di statue. I cavernicoli, vedendo
le ombre di questi, li scambiano per
esseri reali. Essi non possono voltarsi
verso la luce, ma sono costretti ad
attribuire valori di
realtà alle ombre proiettate sul
fondo della grotta verso il quale sono
rivolti. Questa è, per Platone, la
condizione degli esseri umani che
ignorano la
Verità. Platone, poi, ipotizza che
uno di questi uomini venga liberato,
girato, e fatto uscire dalla grotta. Inizialmente
proverebbe dolore e sarebbe accecato. Dopo
ancora se qualcuno gli dicesse che ciò
che vedeva prima era falsità, mentre ora
poteva vedere i veri oggetti che prima
gli si presentavano sotto forma di
ombre, costui rimarrebbe dubbioso. In
seguito, però, dopo che i suoi occhi si
saranno abituati alla luce, allora potrà
riconoscere oggetti come l'acqua, il
cielo, gli stessi uomini passanti dietro
il muro, fino a guardare il Sole, che è
rappresentativo del
Vero e del
Bene. A questo punto l'uomo vorrà
comunicare ai suoi compagni la sua
scoperta, ma questi non gli crederanno
e, anzi, lui metterà a rischio la sua
stessa vita provando a comunicare la sua
esperienza. Questa è, per Platone,
la missione del
filosofo: risvegliare gli uomini dal
sonno di
opinioni errate in cui vivono. Sarà
preso per pazzo e, forse, addirittura
ucciso. Il riferimento, sempre presente
nelle sue opere, è, ancora una volta,
alla figura di
Socrate.
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.."Pensa ad uomini in una caverna sotterranea,
dotata di un'apertura verso la luce che occupi tutta la parete
lunga. Essi vi stanno chiusi fin dall'infanzia, carichi di catene al
collo e alle gambe che li costringono a rimanere lì e a guardare
soltanto in avanti, poiché la catena al collo impedisce loro di
volgere intorno il capo. In alto, sopra di loro, brilla lontana una
fiamma; tra questa e i prigionieri corre una strada in salita, lungo
la quale è stato costruito un muretto, simile ai paraventi divisori
al di sopra dei quali i saltimbanchi mostrano al pubblico i loro
prodigi".
"Sì, li vedo" disse.
"Ecco dunque lungo quel muretto degli uomini che portano oggetti
d'ogni sorta che sopravanzano il muretto, e immagini di uomini e di
animali in pietra, in legno e in fogge d'ogni tipo. Alcuni degli
uomini che le portano, com'è naturale, parlano, altri stanno zitti".
"Che strana visione! E che strani prigionieri!".
"Eppure sono simili a noi" risposi. "Pensi, in primo luogo, che di
se stessi e dei compagni abbiamo visto qualcos'altro se non le ombre
proiettate dalla fiamma sulla parete della caverna di fronte a loro?
"Impossibile," rispose "se sono stati costretti a rimanere per tutta
le vita senza muovere il capo!".
"E non si trovano nella stessa situazione riguardo agli oggetti che
vengono fatti sfilare?".
"Certo".
"Se dunque potessero parlare fra loro, non credi che
considererebbero reali le immagini che vedono?"
"Inevitabilmente".
"E se la parete opposta della caverna rimandasse un'eco? Quando uno
dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi
attribuirebbero quelle parole alla sua ombra?"
"Sì, per Zeus!" rispose.
"Allora per tali uomini la realtà consisterebbe soltanto nelle ombre
degli oggetti".
"E' assolutamente inevitabile" rispose.
"Pensa ora quale potrebbe essere per loro l'eventuale liberazione
dalle catene e dall'ignoranza. Un prigioniero che venisse liberato e
costretto ad alzarsi, a volgere il collo, a camminare e a levare gli
occhi verso la luce, soffrirebbe facendo tutto ciò, rimarrebbe
abbagliato e sarebbe incapace di mirare ciò di cui prima vedeva le
ombre. E se gli si dicesse che prima vedeva solo apparenze vane
mentre ora può vedere meglio, perché il suo sguardo è più vicino
all'essere e rivolto ad oggetti più reali; e se gli si mostrasse
ognuno degli oggetti che sfilano e lo si costringesse con alcune
domande a rispondere che cosa sia, tu come pensi che si
comporterebbe? Non credi che rimarrebbe imbarazzato e riterrebbe le
cose che vedeva allora più vere di quelle che gli vengono mostrate
ora?
"Sì, molto più vere" rispose.
"E se egli fosse costretto a guardare proprio verso la luce, gli
occhi non gli farebbero male, non cercherebbe di sottrarsi e di
fuggire verso ciò che può vedere, e non crederebbe che questo sia in
realtà più vero di ciò che gli si vuole mostrare?".
"E' così" rispose.
"E se qualcuno lo strappasse a forza di lì e lo spingesse su per
l'aspra e ripida salita, senza lasciarlo prima d'averlo condotto
alla luce del sole, il prigioniero non proverebbe dolore e rabbia di
venire così trascinato? E una volta giunto alla luce, non è forse
vero che con i suoi occhi accecati dai raggi del sole non
riuscirebbe a contemplare neppure uno degli oggetti che noi ora
consideriamo reali?".
"Sì" rispose "per lo meno non subito."
"Per contemplare quelle realtà superiori dovrebbe abituarsi, io
credo. E innanzi tutto vedrebbe con la massima facilità le ombre,
poi le figure umane e tutte le altre riflesse nell'acqua, e da
ultimo le potrebbe vedere come sono in realtà. Poi sarebbe capace di
guardare le costellazioni e il cielo stesso di notte, alla luce
delle stelle e della luna, anziché di giorno quando sfolgora il
sole".
"Come no!".
"Infine, io credo, contemplerebbe il sole, non la sua immagine
riflessa nell'acqua o in qualche altra superficie, ma nella sua
realtà e così com'è, nella sua propria sede."
"Per forza!".
"E poi si metterebbe a riflettere che è il sole a portare le
stagioni e gli anni, a governare tutti i fenomeni del mondo
visibile, e che insomma in qualche misura esso è la vera causa di
ciò che i prigionieri vedevano."
"Ma è evidente" disse "che a questa riflessione giungerebbe in un
secondo tempo".
"E poi che farà? Memore della sua antica dimora e della sapienza di
laggiù e dei suoi vecchi compagni di prigionia, non credi che si
riterrebbe fortunato per il mutamento della sua sorte, e proverebbe
pietà per loro?.
"Sì, indubbiamente".
"Se quelli si attribuissero a vicenda onori, elogi e premi per chi
vedesse meglio il passaggio delle ombre e si ricordasse con maggiore
esattezza quali passano per prime e quali per ultime e quali
insieme, e in base a ciò indovinasse con suprema abilità quelle
destinate a passare in ogni momento: credi che egli proverebbe
desiderio e invidia dei loro onori e del loro potere, oppure si
troverebbe nella condizione dell'eroe omerico e vorrebbe
ardentemente "lavorare come salariato al servizio di un povero
contadino" e patire qualsiasi sofferenza, piuttosto che condividere
le opinioni di costoro e vivere a modo loro?".
"Sì", rispose "credo che accetterebbe qualsiasi destino pur di non
vivere a quel modo".
"E pensa ancora a una cosa:" dissi "se quell'uomo scendesse a
sedersi di nuovo al suo posto, non sentirebbe male agli occhi per
l'oscurità, venendo all'improvviso dal sole?".
"Certo" rispose.
"E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con quegli
eterni prigionieri prima che i suoi occhi, ancora confusi, si
fossero ripresi, e a riacquistare questa abitudine gli occorresse un
certo tempo, non credi che sembrerebbe ridicolo, e si direbbe di lui
che l'ascesa gli ha rovinato la vista e che non vale neppure la pena
di affrontare la scalata? E non verrebbe ucciso chi tentasse di
liberare e far salire gli altri, se solo potessero averlo fra le
mani e ucciderlo?".
"Occorre dunque," dissi "caro Glaucone, riferire tutta questa
allegoria a quanto abbiamo detto prima. Paragona il mondo visibile
alla dimora in prigione, e la fiamma che vi risplende al sole; e non
deluderai la mia attesa considerando l'ascesa verso la
contemplazione della realtà superiore come l'ascesa dell'anima verso
il mondo intelligibile.
Questa è la mia interpretazione, dato che vuoi conoscerla. Ma Dio
solo sa se sia vera; in ogni caso io la penso così: l'idea del bene
rappresenta il limite estremo e appena discernibile del mondo
intelligibile. Quando si è compresa quella, occorre dedurre che essa
è causa per tutti di tutto ciò che è retto e bello: nel mondo
visibile ha generato la luce e il signore della luce, mentre nel
mondo intelligibile offre essa stessa la verità e l'intelligenza, e
chi voglia comportarsi saggiamente in privato e in pubblico deve
contemplare questa idea".
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