La metafisica dei costumi

Nella Metafisica dei costumi, Kant, con un linguaggio più piano, ripropone i diversi temi del proprio pensiero etico, temi già trattati nella Critica della ragion pratica. In particolare, egli pone in discussione ogni genere di etica fondata sul sentimento, sull’utile e sul piacere, moventi puramente soggettivi e dunque variabili e contingenti. Un’etica fondata su di essi è, inevitabilmente, priva di universalità.

Etica significava negli antichi tempi la dottrina dei costumi (philosophia moralis) in generale, che era anche chiamata la dottrina dei doveri. In seguito si ritenne conveniente applicare questo nome soltanto a una parte della dottrina dei costumi, cioè propriamente a quella parte che si occupa dei doveri che non cadono sotto le leggi esterne (e per la quale in tedesco si è trovato il nome così appropriato di dottrina della virtù), in modo che oggi il sistema della dottrina generale dei doveri si divide in dottrina del diritto (iurisprudentia), che è suscettibile di essere tradotta in leggi esterne, e in dottrina della virtù (ethica), che sfugge a ogni legislazione di tal genere; e possiamo accontentarci di questo. Il concetto del dovere contiene già in se stesso il concetto di una obbligazione (costrizione) esercitata dalla legge sul libero arbitrio; questa costrizione può essere o esterna o imposta da noi stessi. L’imperativo morale con il suo decreto categorico (il dovere assoluto) indica questa condizione, la quale s’applica dunque non a tutti gli esseri ragionevoli in generale (perché fra questi potrebbero esservi anche dei santi), ma agli uomini, quali enti naturali ragionevoli, che non sono tanto santi da non sentire il desiderio di violare la legge morale, per quanto ne riconoscano l’autorità, e che, quando anche la seguono, lo fanno malvolentieri (incontrando resistenza da parte delle loro inclinazioni); nel che appunto consiste propriamente la costrizione. Siccome però l’uomo è un essere libero (morale), il concetto del dovere, se si considera la determinazine interna della volontà (l’impulso), non può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi (con la sola rappresentazione della legge). Soltanto in tale modo è infatti possibile conciliare questa costrizione (anche se fosse esterna) con la libertà della volontà, ma allora il concetto del dovere rientrerà nel dominio dell’etica. Gli impulsi della natura rappresentano dunque nel cuore dell’uomo degli ostacoli all’adempimento del dovere, e vi oppongono delle forze potenti, che egli deve sentirsi in grado di combattere e di vincere con la ragione, non nell’avvenire, ma subito (nello stesso tempo in cui ne ha il pensiero); egli deve cioè sentirsi in grado di poter fare ciò che la legge gli comanda assolutamente di dover fare. Ora la capacità e il ponderato proposito con cui si resiste a un forte, ma ingiusto, avversario, si chiama coraggio (fortitudo), e quando si tratta dell’avversario che il sentimento morale trova in noi, si chiama virtù (virtus, fortitudo moralis). La parte della dottrina generale dei doveri che sottomette a leggi non la libertà esterna, ma la liberta interna, è dun­que una dottrina della virtù. La dottrina del diritto si occupava soltanto della condizione formale della libertà esterna (che essa faceva consistere nell’accordo della libertà con se stessa, considerando le sue massime come leggi generali), vale a dire si occupava del diritto. L’etica, al contrario, offre inoltre una materia (un oggetto del libero arbitrio), uno scopo della ragione pura, che essa presenta nello stesso tempo come un fine oggettivamente necessa­rio, cioè come un dovere per gli uomini. Ora, siccome le inclinazioni della sensibilità persuadono a fini (come materia dell’arbitrio) che possono esser contrari al dovere, la ragione legislatrice non può resistere alla loro influenza se non opponendo loro a sua volta un fine morale, che quindi deve esser dato a priori indipendentemente da ogni inclinazione. Fine è un oggetto dell’arbitrio (di un essere ragionevole), la rappresentazione del quale determina la volontà a una certa azione che realizzi l’oggetto medesimo. Ora io posso ben essere costretto da altri a com­piere certe azioni, che sono dirette, come mezzo, per ottenere un certo fine, ma non potrò mai essere costretto ad avere un fine: io solo posso proporre a me stesso qualche cosa come fine. Ma se sono obbligato a propormi per fine qualche cosa che rientri nel concetto della ragione pratica, e quindi a dare come principio di determinazione della mia volontà, oltre a un principio formale (come è quello che contiene il diritto), anche un principio materiale, un fine che possa essere opposto a quello delle tendenze della sensibilità, allora si avrebbe un concetto di un fine che è in se stesso un dovere; la scienza di esso non può tuttavia appartenere al diritto, ma all’etica, la quale è l’unica che contiene nel suo concetto una costrizione esercitata su noi stessi, in nome delle leggi morali. Per questa ragione l’etica si può anche definire il sistema dei fini della ragione pura pratica. Fini e doveri vincolanti contraddistinguono le due sezioni della dottrina generale dei costumi. Che l’etica contenga dei doveri alla cui osservanza non possiamo essere costretti (fisicamente) da altri, è unicamente la conseguenza di ciò, che essa è una scienza dei fini, dove l’esser costretti ad averli o a proporseli è una cosa contraddittoria. Risulta però anche dalla precedente definizione della virtù paragona­ta all’obbligazione, di cui il carattere speciale è stato ugualmente indicato, che l’etica è una dottrina della virtù (doctrina officiorum virtutis). Infatti quella determinazione dell’arbitrio, che consiste nel proporsi un fine, è la sola che sfugga, per la natura stessa del suo concetto, a ogni costrizione fisica proveniente dall’arbitrio altrui. Un altro potrà ben costringermi a fare qualche cosa che non sia uno scopo per me (ma sol­tanto un mezzo per raggiungere un fine voluto da altri), ma non potrà mai costringermi a considerano come un fine mio: io non posso dunque avere un fine, se non me lo propongo da me stesso. L’opposto sa­rebbe una contraddizione, cioè un atto della libertà che non sarebbe li­bera. Invece non è affatto contraddittorio proporre a se stessi un fine che è nello stesso tempo un dovere, perché allora la costrizione viene da me, e ciò si concilia benissimo con la libertà. Come è però possibile un tal fine? Questa è ora la questione da risolvere. Perché la possibi­lità di concepire una cosa (la sua contraddittorietà) non è ancora sufficiente per stabilire la possibilità della cosa stessa (la realtà oggettiva del concetto).

 

Da  LA METAFISICA DEI COSTUMI

Trad. C.Vidari, Laterza, Bari 1970, vol.I, pp.227-230

 

Vai al Testo Vai al Testo