La metafisica dei costumi
Etica
significava negli antichi tempi la dottrina dei costumi (philosophia moralis) in
generale, che era anche chiamata la dottrina
dei doveri. In
seguito si ritenne conveniente applicare questo nome soltanto a una
parte della dottrina dei costumi, cioè propriamente a quella parte che
si occupa dei doveri che non cadono sotto le leggi esterne (e per la
quale in tedesco si è trovato il nome così appropriato di dottrina
della virtù), in modo che oggi il sistema della dottrina generale dei
doveri si divide in dottrina
del diritto (iurisprudentia), che
è suscettibile di essere tradotta in leggi esterne, e in dottrina della virtù (ethica),
che sfugge a ogni legislazione di tal genere; e possiamo
accontentarci di questo. Il concetto
del dovere contiene
già in se stesso il concetto di una obbligazione (costrizione)
esercitata dalla legge sul libero arbitrio; questa costrizione può
essere o esterna o imposta da noi stessi. L’imperativo morale con il suo decreto
categorico (il dovere assoluto) indica questa condizione, la quale
s’applica dunque non a tutti gli esseri ragionevoli in generale (perché
fra questi potrebbero esservi anche dei santi),
ma
agli uomini, quali enti naturali ragionevoli,
che non sono tanto santi da non sentire il desiderio di violare la legge
morale, per quanto ne riconoscano l’autorità, e che, quando anche la
seguono, lo fanno malvolentieri (incontrando
resistenza da parte delle loro inclinazioni); nel che appunto consiste
propriamente la costrizione. Siccome però l’uomo è un essere libero (morale),
il concetto del dovere, se
si considera la determinazine interna della volontà (l’impulso), non
può contenere altra costrizione se non quella che ci imponiamo da noi stessi
(con
la sola rappresentazione della legge). Soltanto in tale modo è infatti
possibile conciliare questa costrizione
(anche
se fosse esterna) con la libertà della volontà, ma allora il concetto
del dovere rientrerà nel dominio dell’etica.
Gli impulsi della natura rappresentano dunque nel cuore dell’uomo degli
ostacoli all’adempimento
del dovere, e vi oppongono delle forze potenti, che egli deve sentirsi
in grado di combattere e di vincere con la ragione, non nell’avvenire,
ma subito (nello stesso tempo in cui ne ha il pensiero); egli deve cioè
sentirsi in grado di poter fare
ciò che la legge gli comanda assolutamente di dover
fare.
Ora la capacità e il ponderato proposito con cui si resiste a un forte,
ma ingiusto, avversario, si chiama coraggio (fortitudo), e quando si tratta dell’avversario che il
sentimento morale trova in
noi, si
chiama virtù (virtus, fortitudo moralis). La
parte della dottrina generale dei doveri che sottomette a leggi non la
libertà esterna, ma la liberta interna, è dunque una dottrina
della virtù.
La
dottrina del diritto si occupava soltanto della condizione formale della
libertà esterna (che essa faceva consistere nell’accordo della libertà
con se stessa, considerando le sue massime come leggi generali), vale a
dire si occupava del diritto. L’etica, al contrario, offre inoltre una
materia
(un
oggetto del libero arbitrio), uno scopo della ragione pura, che essa
presenta nello stesso tempo come un fine oggettivamente necessario,
cioè come un dovere per gli uomini. Ora, siccome le inclinazioni della
sensibilità persuadono a fini (come materia dell’arbitrio) che
possono esser contrari al dovere, la ragione legislatrice non può
resistere alla loro influenza se non opponendo loro a sua volta un fine
morale, che quindi deve esser dato a priori indipendentemente
da ogni inclinazione.
Fine è
un oggetto dell’arbitrio (di un essere ragionevole), la
rappresentazione del quale determina la volontà a una certa azione che
realizzi l’oggetto medesimo. Ora io posso ben essere costretto da
altri a compiere certe azioni, che sono dirette, come mezzo, per
ottenere un certo fine, ma non potrò mai essere costretto ad avere un fine: io
solo posso proporre a me stesso qualche
cosa come fine. Ma se sono obbligato a propormi per fine qualche cosa
che rientri nel concetto della ragione pratica, e quindi a dare come
principio di determinazione della mia volontà, oltre a un principio
formale (come è quello che contiene il diritto), anche un principio
materiale, un fine che possa essere opposto a quello delle tendenze
della sensibilità, allora si avrebbe un concetto di un fine che
è in se stesso un dovere; la
scienza di esso non può tuttavia appartenere al diritto, ma
all’etica, la quale è l’unica che contiene nel suo concetto una costrizione
esercitata su noi stessi, in
nome delle leggi morali. Per
questa ragione l’etica si può anche definire il sistema dei fini
della ragione pura pratica. Fini e doveri vincolanti
contraddistinguono le due sezioni della dottrina generale dei costumi.
Che l’etica contenga dei doveri alla cui osservanza non possiamo
essere costretti (fisicamente) da altri, è unicamente la conseguenza di
ciò, che essa è una scienza dei fini, dove l’esser costretti
ad averli o a proporseli è una cosa contraddittoria. Risulta però
anche dalla precedente definizione della virtù paragonata
all’obbligazione, di cui il carattere speciale è stato ugualmente
indicato, che l’etica è una dottrina
della virtù (doctrina officiorum
virtutis). Infatti
quella determinazione dell’arbitrio, che consiste nel proporsi un fine,
è la sola che sfugga, per la natura stessa del suo concetto, a ogni
costrizione fisica proveniente dall’arbitrio
altrui.
Un altro potrà ben costringermi a
fare qualche cosa che non sia uno scopo per me (ma soltanto un
mezzo per raggiungere un fine voluto da altri), ma non potrà
mai costringermi a considerano come un fine mio: io
non posso dunque avere un fine, se non me lo propongo da me stesso.
L’opposto sarebbe una contraddizione, cioè un atto della libertà
che non sarebbe libera. Invece non è affatto contraddittorio proporre
a se stessi un fine che è nello stesso tempo un dovere, perché allora
la costrizione viene da me, e ciò si concilia benissimo con la libertà.
Come è però possibile un tal fine? Questa è ora la questione da
risolvere. Perché la possibilità di concepire una cosa (la sua
contraddittorietà) non è ancora sufficiente per stabilire la
possibilità della cosa stessa (la realtà oggettiva del concetto).
Da LA METAFISICA DEI COSTUMI Trad.
C.Vidari, Laterza, Bari 1970, vol.I, pp.227-230
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