Categorie e Concetti

Nell’Analitica trascendentale (una delle tre parti in cui si divide la Critica della ragion pura), Kant prende in esame il processo di formazione dei concetti attraverso le categorie ed il loro rapporto con un materiale sensibile che è preordinato secondo intuizioni pure: quelle dello spazio e del tempo, non più pensati alla maniera di Newton o di Leibniz come “cose” o “relazioni tra cose”, ma come forme a priori del nostro conoscere. Riportiamo qui, dal capitolo II del libro I, alcuni paragrafi della sezione II.

§22. La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza. Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non è dunque la stessa cosa. La conoscenza comprede due punti: in primo luogo, un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo luogo, l’intuizione, onde esso è dato; giacché, se al concetto non potesse esser data un’intuizione corrispondente, esso, per la forma, sarebbe un pensiero, ma senza alcun oggetto, e per mezzo di esso non sarebbe punto possibile la conoscenza di una qualsiasi cosa; poiché, per quanto io ne saprei, non vi sarebbe, né potrebbe esservi al­cunché, a cui poter applicare il mio pensiero. Ora, ogni nostra possibile intuizione è sensibile (Estetica); il pensiero dunque di un oggetto in gene­rale mediante un concetto puro dell’intelletto, può in noi diventare co­noscenza solo in quanto questo concetto è messo in relazione con oggetti dei sensi. L’intuizione sensibile o è intuizione pura (spazio e tempo), o in­tuizione empirica di ciò che vien rappresentato, per meno della sensa­zione, immediatamente come reale nello spazio e nel tempo. Per la determinazione della prima noi possiamo ottenere conoscenze a priori di oggetti (nella matematica), ma solo rispetto alla forma di essi, come fenomeni; se poi ci possono essere cose che si debbano intuire in questa for­ma, è ciò che rimane tuttavia indeciso. Per conseguenza, tutti i concetti matematici non sono per sé conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci siano cose che si possono rappresentare solo conformemente alla forma di quella pura intuizione sensibile. Ma le cose nello spazio e nel tempo sono date solo in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione), e perciò per rappresentazione empirica. Quindi i concetti puri dell’intelletto, anche se applicati ad intuizioni a priori (come nella matematica), creano conoscenze solo in quanto queste — e però anche per mezzo di esse i concetti dell’intelletto — possono essere applicate a intuizioni empiriche. Di guisa che le categorie mediante l’intuizione non ci danno ancora nessuna conoscenza delle cose, se non soltanto perla lo­ro possibile applicazione a una intuizione empirica, esse cioè servono so­lo alla possibilità della conoscenza empirica. Ma questa si chiama esperienza. Dunque le categorie non hanno alcun uso alla conoscenza delle cose, se non in quanto queste sono prese come oggetti di esperienza possibile.

§23. Tale proposizione è della più grande importanza; perché determina i limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli oggetti, a quel modo che l’Estetica trascendentale ha determinato quelli dell’uso della forma pura della nostra intuizione sensibile. Spazio e tempo valgono, come condizioni della possibilità che ci sien dati degli oggetti, non altrimenti che per gli oggetti dei sensi, e perciò solo dell’esperienza. Fuori di questi limiti, essi non rappresentano nulla; perocché sono soltanto nei sensi e fuori di essi non hanno nessuna realtà. I concetti puri dell’in­telletto sono liberi da questa limitazione, e si estendono ad oggetti dell’intuizione in generale, sia essa simile alla nostra o no, pur che sia sensibile e non intellettuale. Ma questa più vasta estensione dei concetti di là dalla nostra intuizione sensibile non ci giova a nulla. Perché allora essi sono concetti vuoti di oggetti, dei quali, per mezzo loro, non abbiamo assolutamente il modo di giudicare se mai sieno possibili o no; semplici forme del pensiero senza realtà obbiettiva, poiché noi non disponiamo di un’intuizione, a cui possa essere applicata quell’unità sintetica dell’appercezione che soltanto esse contengono, e con cui esse possono determinare un oggetto. Soltanto la nostra intuizione sensibile ed empirica può dar loro senso e significato. I...]

§25. Al contrario, io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità sintetica originaria dell’appercezione, non come io apparisco a me, né come io sono in me stesso, ma solo che sono. Questa rappresentazione è un pensare, non un intuire. Ora, poiché per la conoscenza di noi stessi oltre all’operazione del pensiero che riduce all’unità dell’appercezione il molteplice di ogni intuizione possibile, si richiede anche una determinata maniera di intuizione, onde questo molteplice venga dato; così la mia propria esistenza non è per vero fenomeno (e tanto meno semplice parvenza); ma la determinazione della mia esistenza può avvenire solo secondo la forma del senso interno, in quella speciale maniera in cui il molteplice, che io unifico, può essere dato nell’intuizione interna; ed io non ho dunque pertanto una conoscenza di me quale sono, ma semplicemente quale apparisco a me stesso. La coscienza di se medesimo è dunque ben lungi dall’essere una conoscenza di se stesso, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di un oggetto in generale mediante l’unificazione del molteplice in una appercezione. Come per la conoscenza di un oggetto diverso da me, oltre il pensiero di un oggetto in generale (nella categoria), io ho pure bisogno di una intuizione con cui determinare quel concetto generale; così, per la conoscenza di me stesso, oltre alla coscienza, ovvero oltre al pensare me stesso, io ho pur bisogno di una intuizione di un molteplice entro me, con cui io determini quel pensiero; ed io esisto come intelligenza che è consapevole soltanto della sua potenza unificatrice, ma che essendo sottoposta, rispetto al molteplice che deve unificare, a una condizione limitativa che chiama senso interno, non può render intuibile quella unificazione se non secondo rapporti di tempo, i quali restano al tutto fuo­ri dei concetti propri dell’intelletto; e può conoscersi quindi solo come apparisce a se stessa, in rapporto con una intuizione (che non può esse­re intellettuale e data dallo stesso intelletto), ma non come si conosce­rebbe se la sua intuizione fosse intellettuale.

§26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto. Nella Deduzione metafisica l’origine a priori delle categorie in generale è stata dimostrata mediante il loro perfetto accordo con le funzioni logiche generali del pensiero; ma nella Deduzione trascendentale è stata poi mostrata la possibilità di esse come conoscenze a priori di oggetti di una intuizione in generale(1). Ora si deve spiegare la possibilità di conoscere a priori per mezzo delle categorie gli oggetti che possono presentarsi soltanto ai nostri sensi; di conoscerli, non secondo la forma della loro intuizione, ma secondo le leggi della loro unificazione: si deve spiegare perciò la possibilità di prescrivere, per così dire, la legge alla natura, anzi di renderla possibile. Giac­ché, senza questa capacità delle categorie, non risulterebbe chiaro come tutto ciò che può presentarsi ai nostri sensi possa sottostare alle leggi che provengono solo a priori dall’intelletto. Prima di tutto, noto che col nome di sintesi dell’apprensione intendo la composizione del molteplice in una intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione, cioè la coscienza empirica di essa (come fenomeno). Noi abbiamo a priori forme così della intuizione sensibile esterna, come della interna nelle rappresentazioni di spazio e di tempo, e a queste deve sempre conformarsi la sintesi dell’apprensione del molteplice del fe­nomeno, poiché essa stessa può sorgere solo secondo questa forma. Ma spazio e tempo non sono rappresentati semplicemente come forme dell’intuizione sensibile, bensì, a priori, come intuizioni essi stessi (che con­tengono un molteplice), e perciò con la determinazione dell’unità di que­sto molteplice che è in essi (vedi Estetica trascendentale) a

a. “Lo spazio, rappresentato come oggetto (come occorre realmente fare in geometria), contiene più che la semplice forma dell’intuizione, e cioè la sintesi del molteplice dato, secondo la forma della sensibilità, in una rappresentazione intuitiva, per modo che la forma dell’intuizione dà solamente il molteplice, ma l’intuizione formale dà l’unità della rappresentazione. Nell’estetica io ho attribuito questa unità semplicemente alla sensibilità, solo allo scopo di rilevare che essa è prima di ogni concetto, sebbene presupponga una sintesi la quale non appartiene ai sensi, ma dalla quale è reso possibile ogni concetto di spazio o di tempo. Poiché, infatti solo per essa (in quanto l’intelletto determina la sensibilità) il tempo e lo spazio vengono dati come intuizioni, l’unità di questa intuizione a priori appartiene allo spazio e al tempo, e non al concetto dell’intelletto”.

L’unità della sintesi del molteplice, fuori di noi o in noi, e perciò anche una unificazione alla quale deve conformarsi tutto ciò che può esser determinante rappresentato nel tempo e nello spazio, è dunque essa stessa data a priori, come condizione della sintesi di ogni apprensione, colle (non nelle) intuizioni suddette. Ma questa unità sintetica non può esser altro che quella dell’unificazione del molteplice d’una data intuizione in generale in una coscienza originaria, applicata, in conformità delle categorie, solo alla nostra intuizione sensibile. Perciò ogni sintesi, per la quale la stessa percezione è possibile, sottostà alle categorie; e poiché l’esperienza è conoscenza mediante percezioni connesse, le categorie sono condizioni della possibilità dell’esperienza, e valgono perciò a priori tutti gli oggetti dell’esperienza.

§27. Risultato di questa deduzione dei concetti dell’intelletto. Noi non possiamo pensare alcun oggetto, se non per le categorie; né possiamo conoscere un oggetto pensato, se non per intuizioni che corri­spondano a quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza, in quanto l’oggetto suo è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è l’esperienza. Dunque, non è per noi possibile nessuna conoscenza a priori, se non unicamente di oggetti di esperienza possibile b.

b. Affinché non si urti in maniera precipitata nelle conseguenze pregiudizievoli ed inquietanti di questo principio, voglio ricordare che le categorie nel pensiero non sono vincolate dalle condizioni della nostra intuizione sensibile, ma hanno un campo illimitato; e solamente la conoscenza di ciò che pensiamo, la determinazione dell’oggetto, ha bisogno di una intuizione; laddove, in mancanza di questa, il pensiero dell’oggetto può del resto aver sempre le sue conseguenze vere ed utili nell’uso che il soggetto fa della ragione, e che non si può ancora qui trattare, poiché non sempre esso è indirizzato alla determinazione dell’oggetto, ma anche a quella del soggetto e del suo volere.

Se non che questa conoscenza, che è limitata semplicemente ad oggetti dell’esperienza, non è perciò derivata tutta dall’esperienza; ma sì le intuizioni pure, sì i concetti puri dell’intelletto sono elementi della conoscenza, che si trovano in noi a priori. Ora, vi sono soltanto due vie, per le quali si può pensare un accordo necessario dell’esperienza coi con­cetti dei suoi oggetti: o l’esperienza rende possibili questi concetti, o questi rendono possibile l’esperienza. La prima non ha luogo rispetto alle categorie (e neppure rispetto alla intuizione sensibile pura); perché esse sono concetti a priori, quindi indipendenti dall’esperienza (l’asserzione di una origine empirica, sarebbe una specie di generatio aequivoca). Dunque, rimane soltanto la seconda via (un sistema, per dir così, di epigenesi(2) della ragion pura); cioè che le categorie, dal lato dell’intelletto, contengano i fondamenti della possibilità di ogni esperienza in ge­nerale. Ma come rendano possibile l’esperienza, e quali princìpi ci diano della possibilità di essa nella loro applicazione ai fenomeni, ce l’inse­gnerà meglio il seguente capitolo intorno all’uso trascendentale del Giudizio.

Se si volesse fra le due sole vie ricordate introdurre ancora una via di mezzo, cioè che le categorie non siano né primi principi a priori spontanei della nostra conoscenza, e neppure tratte dall’esperienza, ma disposizioni soggettive del pensare, piantate in noi col nascere, e così ordinate dal nostro Creatore che il loro uso s’accordi esattamente con le leggi della natura secondo le quali si svolge l’esperienza (una specie di sistema di performazione della ragion pura); oltre che, in tale ipote­si, nessun può dire fino a che punto si potrebbe spingere la presupposizione di predeterminate disposizioni a futuri giudizi; contro cotesta via di mezzo ci sarebbe questo argomento perentorio: che in tal caso alle categorie mancherebbe la necessità, che è essenziale al loro concetto. Infatti il concetto, ad es., di causa, che esprime la necessità di un effetto supposta una condizione, sarebbe falso, qualora riposasse su una qualsiasi necessità soggettiva, innata in noi, di unire certe rappresentazioni empiriche secondo una tale regola di relazione. Io non potrei dire: l’effetto è collegato con la causa nell’oggetto (cioè, necessariamente); ma: io sono così fatto da non poter pensare questa rappresentazione se non così collegata; che è proprio ciò che più desidera lo scettico; giacché allora tutta la nostra convinzione, fondata sul supposto valore oggettivo dei nostri giudizi, non è altro che una semplice illusione, e non manche­rebbero di quelli, che di sé non confesserebbero questa necessità soggettiva (che deve esser sentita): per lo meno non si potrebbero fare contestazioni a nessuno su ciò, che è fondato solo sulla maniera in cui ciascun soggetto è organizzato.

Da  CRITICA DELLA RAGION PURA,

cur. G.Gentile, G. Lombardo-Radice, V.Mathieu, Laterza, Bari 1979, vol.I, pp.141-157

 

1.Va sottolineato che la “deduzione  metafisica” è il procedimento con cui Kant si sforza di provare la coerenza logica delle categorie, ossia che queste corrispondono a concetti che non implicano in sé contraddizioni; la “deduzione trascendentale”è invece il procedimento con cui Kant si sforza di mostrare come le categorie stesse costituiscano le condizioni (a priori) dalle quali non è possibile prescindere nelle nostre rappresentazioni degli oggetti (vere o false che siano).
2.L’epigenesi è il processo di generazione dell’esperienza a partire dalle categorie

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