Categorie e Concetti
§22.
La
categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser
applicata agli oggetti dell’esperienza. Pensare
un oggetto e conoscere un oggetto non è dunque la stessa cosa. La
conoscenza comprede due punti: in primo luogo, un concetto per
cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo
luogo, l’intuizione, onde esso è dato; giacché, se al concetto non
potesse esser data un’intuizione corrispondente, esso, per la forma,
sarebbe un pensiero, ma senza alcun oggetto, e per mezzo di esso non
sarebbe punto possibile la conoscenza di una qualsiasi cosa; poiché,
per quanto io ne saprei, non vi sarebbe, né potrebbe esservi alcunché,
a cui poter applicare il mio pensiero. Ora, ogni nostra possibile
intuizione è sensibile (Estetica); il pensiero dunque di un oggetto in
generale mediante un concetto puro dell’intelletto, può in noi
diventare conoscenza solo in quanto questo concetto è messo in
relazione con oggetti dei sensi. L’intuizione sensibile o è
intuizione pura (spazio e tempo), o intuizione empirica di ciò che
vien rappresentato, per meno della sensazione, immediatamente come
reale nello spazio e nel tempo. Per la determinazione della prima noi
possiamo ottenere conoscenze a priori di oggetti (nella matematica), ma
solo rispetto alla forma di essi, come fenomeni; se poi ci possono
essere cose che si debbano intuire in questa forma, è ciò che rimane
tuttavia indeciso. Per conseguenza, tutti i concetti matematici non sono
per sé conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci siano cose che
si possono rappresentare solo conformemente alla forma di quella pura
intuizione sensibile. Ma le cose nello spazio e nel tempo sono date solo
in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione), e
perciò per rappresentazione empirica. Quindi i concetti puri
dell’intelletto, anche se applicati ad intuizioni a priori (come nella
matematica), creano conoscenze solo in quanto queste —
e però anche per mezzo di esse i concetti dell’intelletto — possono
essere applicate a intuizioni empiriche. Di guisa che le categorie
mediante l’intuizione non ci danno ancora nessuna conoscenza delle
cose, se non soltanto perla loro possibile applicazione a una
intuizione empirica, esse cioè servono solo alla possibilità della
conoscenza empirica. Ma questa si chiama esperienza.
Dunque le categorie non hanno alcun uso alla conoscenza delle cose, se
non in quanto queste sono prese come oggetti di esperienza possibile. §23.
Tale proposizione è della più grande importanza; perché determina i
limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli
oggetti, a quel modo che l’Estetica trascendentale ha determinato
quelli dell’uso della forma pura della nostra intuizione sensibile.
Spazio e tempo valgono, come condizioni della possibilità che ci sien
dati degli oggetti, non altrimenti che per gli oggetti dei sensi, e
perciò solo dell’esperienza. Fuori di questi limiti, essi non
rappresentano nulla; perocché sono soltanto nei sensi e fuori di essi
non hanno nessuna realtà. I concetti puri dell’intelletto sono
liberi da questa limitazione, e si estendono ad oggetti
dell’intuizione in generale, sia essa simile alla nostra o no, pur che
sia sensibile e non intellettuale. Ma questa più vasta estensione dei
concetti di là dalla nostra intuizione sensibile non ci giova a nulla.
Perché allora essi sono concetti vuoti di oggetti, dei quali, per mezzo
loro, non abbiamo assolutamente il modo di giudicare se mai sieno
possibili o no; semplici forme del pensiero senza realtà obbiettiva,
poiché noi non disponiamo di un’intuizione, a cui possa essere
applicata quell’unità sintetica dell’appercezione che soltanto esse
contengono, e con cui esse possono determinare un oggetto. Soltanto la
nostra intuizione sensibile ed empirica può dar loro senso e
significato. I...] §25.
Al contrario, io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascendentale
del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità
sintetica originaria dell’appercezione, non come io apparisco a me, né
come io sono in me stesso, ma solo che sono. Questa rappresentazione è
un pensare, non un intuire. Ora, poiché per la conoscenza di noi stessi
oltre all’operazione del pensiero che riduce all’unità
dell’appercezione il molteplice di ogni intuizione possibile, si
richiede anche una determinata maniera di intuizione, onde questo
molteplice venga dato; così la mia propria esistenza non è per vero
fenomeno (e tanto meno semplice parvenza); ma la determinazione della
mia esistenza può avvenire solo secondo la forma del senso interno, in
quella speciale maniera in cui il molteplice, che io unifico, può
essere dato nell’intuizione interna; ed io non ho dunque pertanto una
conoscenza di me quale sono, ma semplicemente quale apparisco a me
stesso. La coscienza di se medesimo è dunque ben lungi dall’essere
una conoscenza di se stesso, malgrado tutte le categorie che
costituiscono il pensiero di un oggetto in generale mediante
l’unificazione del molteplice in una appercezione. Come per la
conoscenza di un oggetto diverso da me, oltre il pensiero di un oggetto
in generale (nella categoria), io ho pure bisogno di una intuizione con
cui determinare quel concetto generale; così, per la conoscenza di me
stesso, oltre alla coscienza, ovvero oltre al pensare me stesso, io ho
pur bisogno di una intuizione di un molteplice entro me, con cui io
determini quel pensiero; ed io esisto come intelligenza che è
consapevole soltanto della sua potenza unificatrice, ma che essendo
sottoposta,
rispetto al molteplice che deve unificare, a una condizione limitativa
che chiama senso interno, non può render intuibile quella unificazione
se non secondo rapporti di tempo, i quali restano al tutto fuori dei
concetti propri dell’intelletto; e può conoscersi quindi solo come
apparisce a se stessa, in rapporto con una intuizione (che non può essere
intellettuale e data dallo stesso intelletto), ma non come si conoscerebbe
se la sua intuizione fosse intellettuale. §26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto. Nella Deduzione metafisica l’origine a priori delle categorie in generale è stata dimostrata mediante il loro perfetto accordo con le funzioni logiche generali del pensiero; ma nella Deduzione trascendentale è stata poi mostrata la possibilità di esse come conoscenze a priori di oggetti di una intuizione in generale(1). Ora si deve spiegare la possibilità di conoscere a priori per mezzo delle categorie gli oggetti che possono presentarsi soltanto ai nostri sensi; di conoscerli, non secondo la forma della loro intuizione, ma secondo le leggi della loro unificazione: si deve spiegare perciò la possibilità di prescrivere, per così dire, la legge alla natura, anzi di renderla possibile. Giacché, senza questa capacità delle categorie, non risulterebbe chiaro come tutto ciò che può presentarsi ai nostri sensi possa sottostare alle leggi che provengono solo a priori dall’intelletto. Prima di tutto, noto che col nome di sintesi dell’apprensione intendo la composizione del molteplice in una intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione, cioè la coscienza empirica di essa (come fenomeno). Noi abbiamo a priori forme così della intuizione sensibile esterna, come della interna nelle rappresentazioni di spazio e di tempo, e a queste deve sempre conformarsi la sintesi dell’apprensione del molteplice del fenomeno, poiché essa stessa può sorgere solo secondo questa forma. Ma spazio e tempo non sono rappresentati semplicemente come forme dell’intuizione sensibile, bensì, a priori, come intuizioni essi stessi (che contengono un molteplice), e perciò con la determinazione dell’unità di questo molteplice che è in essi (vedi Estetica trascendentale) a. a. “Lo spazio, rappresentato come oggetto (come occorre realmente fare in geometria), contiene più che la semplice forma dell’intuizione, e cioè la sintesi del molteplice dato, secondo la forma della sensibilità, in una rappresentazione intuitiva, per modo che la forma dell’intuizione dà solamente il molteplice, ma l’intuizione formale dà l’unità della rappresentazione. Nell’estetica io ho attribuito questa unità semplicemente alla sensibilità, solo allo scopo di rilevare che essa è prima di ogni concetto, sebbene presupponga una sintesi la quale non appartiene ai sensi, ma dalla quale è reso possibile ogni concetto di spazio o di tempo. Poiché, infatti solo per essa (in quanto l’intelletto determina la sensibilità) il tempo e lo spazio vengono dati come intuizioni, l’unità di questa intuizione a priori appartiene allo spazio e al tempo, e non al concetto dell’intelletto”. L’unità
della
sintesi del molteplice, fuori di noi o in noi, e perciò anche una unificazione
alla quale deve conformarsi tutto ciò che può esser determinante
rappresentato nel tempo e nello spazio, è dunque essa stessa data a
priori, come condizione della sintesi di ogni apprensione, colle (non
nelle) intuizioni suddette. Ma questa unità sintetica non può esser
altro che quella dell’unificazione del molteplice d’una data
intuizione in generale in una coscienza originaria, applicata, in
conformità delle categorie, solo alla nostra intuizione sensibile.
Perciò ogni sintesi, per la quale la stessa percezione è possibile,
sottostà alle categorie; e poiché l’esperienza è conoscenza
mediante percezioni connesse, le categorie sono condizioni della
possibilità dell’esperienza, e valgono perciò a priori tutti gli
oggetti dell’esperienza. §27.
Risultato
di questa deduzione dei concetti dell’intelletto. Noi
non possiamo pensare alcun oggetto, se non per le categorie; né possiamo
conoscere un oggetto pensato, se non per intuizioni che corrispondano
a quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e
questa conoscenza, in quanto l’oggetto suo è dato, è empirica. Ma la
conoscenza empirica è l’esperienza. Dunque, non è per noi possibile
nessuna conoscenza a priori, se non unicamente di oggetti di esperienza
possibile b. b.
Affinché non si urti in maniera precipitata nelle conseguenze
pregiudizievoli ed inquietanti di questo principio, voglio ricordare che
le categorie nel pensiero non sono vincolate dalle condizioni della
nostra intuizione sensibile, ma hanno un campo illimitato; e solamente
la conoscenza di ciò che pensiamo, la determinazione dell’oggetto, ha
bisogno di una intuizione; laddove, in mancanza di questa, il pensiero
dell’oggetto può del resto aver sempre le sue conseguenze vere ed
utili nell’uso che il soggetto fa della ragione, e che non si può
ancora qui trattare, poiché non sempre esso è indirizzato alla
determinazione dell’oggetto, ma anche a quella del soggetto e del suo
volere. Se si volesse fra le due sole vie ricordate introdurre ancora una via di mezzo, cioè che le categorie non siano né primi principi a priori spontanei della nostra conoscenza, e neppure tratte dall’esperienza, ma disposizioni soggettive del pensare, piantate in noi col nascere, e così ordinate dal nostro Creatore che il loro uso s’accordi esattamente con le leggi della natura secondo le quali si svolge l’esperienza (una specie di sistema di performazione della ragion pura); oltre che, in tale ipotesi, nessun può dire fino a che punto si potrebbe spingere la presupposizione di predeterminate disposizioni a futuri giudizi; contro cotesta via di mezzo ci sarebbe questo argomento perentorio: che in tal caso alle categorie mancherebbe la necessità, che è essenziale al loro concetto. Infatti il concetto, ad es., di causa, che esprime la necessità di un effetto supposta una condizione, sarebbe falso, qualora riposasse su una qualsiasi necessità soggettiva, innata in noi, di unire certe rappresentazioni empiriche secondo una tale regola di relazione. Io non potrei dire: l’effetto è collegato con la causa nell’oggetto (cioè, necessariamente); ma: io sono così fatto da non poter pensare questa rappresentazione se non così collegata; che è proprio ciò che più desidera lo scettico; giacché allora tutta la nostra convinzione, fondata sul supposto valore oggettivo dei nostri giudizi, non è altro che una semplice illusione, e non mancherebbero di quelli, che di sé non confesserebbero questa necessità soggettiva (che deve esser sentita): per lo meno non si potrebbero fare contestazioni a nessuno su ciò, che è fondato solo sulla maniera in cui ciascun soggetto è organizzato. Da CRITICA DELLA RAGION PURA, cur.
G.Gentile, G. Lombardo-Radice, V.Mathieu, Laterza, Bari 1979, vol.I, pp.141-157
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