L’analitica del bello
§ 1. IL GIUDIZIO DI GUSTO È ESTETICO Per
discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione
all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma,
mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la
riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il
giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico,
ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se
non soggettivo. Ma ogni rapporto delle rappresentazioni, ed anche delle
sensazioni, può essere oggettivo (e allora esso indica ciò che è reale
in una rappresentazione empirica); e non è tale soltanto il rapporto al
sentimento di piacere e dispiacere, col quale non vien designato nulla
nell’oggetto, e nel quale il soggetto sente se stesso, secondo la
rappresentazione di cui è affetto.
Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione
chiara o confusa) un edifizio regolare ed appropriato al suo scopo, è una
cosa del tutto diversa dall’esser cosciente di questa rappresentazione
col sentimento di piacere. In quest’ultimo caso la rappresentazione è
riferita interamente al soggetto, e, veramente al suo senso vitale, sotto
il nome di piacere o dispiacere; la qual cosa dà luogo ad una facoltà
interamente distinta di discernere e di giudicare, che non porta alcun
contributo alla conoscenza, ma pone soltanto in rapporto, nel soggetto, la
rappresentazione data con la facoltà rappresentativa nella sua totalità;
di che l’animo ha coscienza nel sentimento del proprio stato. Le
rappresentazioni date in un giudizio possono essere empiriche (e quindi
estetiche); ma il giudizio che risulta da esse, è logico, se esse sono
riferite soltanto nel giudizio all’oggetto. E viceversa, se anche le
rappresentazioni date siano razionali, qualora vengano riferite in un
giudizio unicamente al soggetto (e al suo sentimento), il giudizio resterà
sempre estetico. § 2. IL PIACERE CHE DETERMINA IL GIUDIZIO DI GUSTO È SCEVRO DI OGNI INTERESSE È detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso col movente stesso. Ma, quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuole sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandola semplicemente (nell’intuizione o nella riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che mi è davanti, io posso ben dire che non approvo queste cose fatte soltanto per destar stupore, o rispondere come quel Sachem1 irocchese, cui niente a Parigi piaceva più delle bettole; posso anche biasimare, da buon seguace di Rousseau, la vanità dei grandi, che spendono i sudori del popolo in cose tanto superflue; infine, posso anche facilmente convincermi che, se mi trovassi su di una isola deserta senza speranza di tornar mai tra gli uomini, e potessi magicamente col solo mio desiderio elevare un sì splendido edifizio, io non mi darei nemmeno questa pena, sol, che avessi già una capanna che fosse abbastanza comoda per me. Mi si può concedere ed approvare tutto ciò; ma gli è che non si tratta di questo: si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere, per quanto, d’altra parte, io possa essere indifferente circa l’esistenza del suo oggetto. Si vede facilmente che dal mio apprezzamento di questa rappresentazione, non dal mio rapporto con l’esistenza dell’oggetto, dipende che si possa dire se esso è bello, e che io provi di aver gusto. Ognuno deve riconoscere che quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto parziale e non è un puro giudizio di gusto. Non bisogna essere menomamente preoccupato dell’esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo riguardo, per essere giudice in fatto di gusto. Ma non possiamo chiarir meglio questa proposizione, che è della più grande importanza, se non contrapponendo al piacere puramente disinteressato del giudizio di gusto quello che è legato con l’interesse; soprattutto se possiamo esser certi che non vi son altre specie d’interesse oltre quelle che ora dobbiamo esporre. §
2.
COMPARAZIONE DEI TRE MODI
SPECIFICAMENTE DIVERSI DEL PIACERE Il
piacevole ed il buono si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare
e producono quindi, il primo un piacere condizionato patologicamente (da
eccitazioni, stimoli), il
secondo un piacere pratico puro; cioè un piacere che è determinato in
entrambi i casi non semplicemente dalla rappresentazione dell’oggetto,
ma anche da quella del rapporto del soggetto con l’esistenza
dell’oggetto stesso. Non è soltanto l’oggetto che piace, ma anche la
sua esistenza. Perciò il giudizio dì gusto è puramente contemplativo,
è un giudizio, cioè, che, indifferente riguardo all’esistenza
dell’oggetto, ne mette solo a riscontro i caratteri con il sentimento di
piacere e di dispiacere. Ma questa contemplazione a sua volta non è
diretta a concetti; perché il giudizio di gusto non è un giudizio di
conoscenza (né teorico né pratico), e per conseguenza non è fondato
sopra concetti, né se ne propone alcuno. Il
piacevole, il bello, il buono designano
dunque tre diversi rapporti delle
rappresentazioni verso il
sentimento di piacere e di dispiacere, secondo cui distinguiamo gli
oggetti o i modi della rappresentazione. Anche le espressioni adeguate,
con le quali si designa il compiacimento nei tre casi, non sono le stesse.
Ognuno chiama piacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli
piace senz’altro; buono ciò che apprezza, approva, vale a dire
ciò cui dà un valore
oggettivo. Il piacevole vale anche per gli animali irragionevoli; la
bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di esseri
animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono
semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti), ma
in quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per
ogni essere ragionevole in generale. Questo punto, del resto, potrà esser
interamente chiarito e giustificato solo in seguito. Si può dire che di
questi tre modi del piacere, unico e solo quello del gusto del bello è un
piacere disinteressato e libero; perché in esso l’approvazione non è
imposta da alcun interesse, né dai sensi, né dalla ragione. Del
piacere quindi si potrebbe dire che
esso si riferisce nei tre casi esaminati all’inclinazione, al favore o
alla stima. Perché il favore è l’unico piacere libero. L’oggetto di
un’inclinazione e quello che è imposto da una legge della ragione al
nostro desiderio, non ci lasciano alcuna libertà di farcene noi stessi un
oggetto del piacere. Ogni interesse presuppone o produce un bisogno e,
come motivo dell’approvazione, non lascia libertà al giudizio sopra
l’oggetto. Per
ciò che riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, si dice
da ognuno che la fame è il migliore dei cuochi e che la gente di buon
appetito gusta qualunque cosa, purché sia mangiabile; quindi un piacere
di questa specie non dimostra nel gusto nessuna scelta. Solo quando il
bisogno sia soddisfatto, si può distinguere
tra molti chi ha e chi non ha gusto. Allo stesso modo può esservi
costume (condotta) senza virtù, cortesia senza benevolenza, decoro senza
onestà, etc. etc. Poiché dove parla la legge morale non resta
oggettivamente alcuna libertà nella scelta circa ciò che si deve fare; e
mostrare gusto nella propria condotta (o nel giudicare quella degli altri)
è cosa del tutto diversa dal manifestare il proprio carattere morale;
perché questo contiene un precetto e produce un bisogno, mentre invece i!
gusto morale gioca soltanto con gli oggetti del piacere, senza legarsi
propriamente con nessuno. da
CRITICA
DEL GIUDIZIO, (
Laterza, bari 1979)
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