Verso la guerra.

 Alla base della crisi della pace europea sta la crisi della pax britannica. La diminuita capacità inglese di assicurarsi il predominio sui mari e soprattutto d'impedire che l'equilibrio nel continente sia spezzato dall'egemonia di una nazione troppo potente è al tempo stesso causa e conseguenza del riacutizzarsi della tensione internazionale. Un primo colpo al prestigio inglese sui mari è stato inferto dalla guerra d'Etiopia. Insieme alle sanzioni Mussolini ha sfidato la flotta britannica nel Mediterraneo a lungo considerato "un mare interno inglese" dagli statisti di Londra. Il fascismo ne ha ricavato numerose simpatie nell'opinione pubblica di quei paesi che mordono il freno sotto il predominio britannico; l'Inghilterra, ha consapevolezza che la Società delle Nazioni non è più in grado di tutelare lo status quo.

Un'ulteriore conferma a questa convinzione è fornita dall'espansionismo germanico. La pretesa tedesca di rivedere l'assetto internazionale uscito dai trattati di Versailles coglie impreparate la Francia e l'Inghilterra, nazioni la cui opinione pubblica è orientata in direzione nettamente pacifista. Indebolite economicamente dalla crisi e militarmente dal taglio dei bilanci della difesa e, oltralpe, dalla riduzione del servizio di leva, le due grandi democrazie occidentali si trovano in molti casi costrette ad accettare il fatto compiuto.

In questa congiuntura, l'Italia per qualche tempo si illude di poter svolgere un autonomo ruolo internazionale. Alternando realismo e imperialismo (e, in certi casi, abbinando l'uno all'altro), Mussolini cerca di attuare la cosiddetta politica del "passo doppio" fra Londra e Berlino: tenta cioé di fare da ago della bilancia fra la declinante potenza britannica e l'aggressivo nazionalismo tedesco, realizzando nel gioco degli equilibri contrapposti i maggiori guadagni possibili. La sua ambizione di fondo è fare dell'Italia una potenza di primo piano, sottraendo all'Inghilterra il primato del Mediterraneo ed alla Francia alcune delle sue posizioni nell'Africa settentrionale, in particolare quelle ottenute dopo la grande guerra col sistema dei mandati nell'ex impero ottomano.

Questa politica è tuttavia destinata a fare i conti con diversi ostacoli che ne rendono difficile la realizzazione. Il primo fra essi è costituito dall'ostilità della Gran Bretagna ad accettare una revisione dell'assetto mediterraneo più favorevole all'Italia in cambio di un impegno di quest'ultima in funzione antitedesca. Mentre Parigi sarà sempre più possibilista, anche nel periodo del fronte popolare, Londra preferirà trattare direttamente con Berlino piuttosto che accettare le proposte italiane. A differenza della Francia, minacciata sul Reno, l'Inghilterra può infatti guardare con maggior distacco all'espansionismo tedesco; né manca presso molti suoi statisti la convinzione che un'Italia premuta al Brennero dalla potenza germanica sarà più disponibile a scendere a patti con le democrazie occidentali.

A fare incespicare Mussolini nel suo passo doppio fra Londra e Berlino contribuisce tuttavia anche un altro fattore: il radicalizzarsi dell'opinione pubblica internazionale, specie dopo la guerra di Spagna, e la mobilitazione nelle democrazie occidentali di fronti antifascisti evidentemente ostili a qualsiasi compromissione con i regimi dittatoriali. A tutto questo si aggiunge, poi, un ulteriore elemento, costituito dalla crescente pressione militare ed economica della Germania dinanzi a cui l'Italia fascista vede gradualmente erosi i margini di manovra. Si può infatti fare da ago della bilancia in una situazione di equilibrio internazionale; ma quando questo equilibrio viene meno, per il prevalere di una potenza più forte, le nazioni minori finiscono per dover abbandonare, loro malgrado, la possibilità di svolgere un ruolo autonomo.

Di fronte alla minacciosa presenza della Germania in Europa centrale e al massiccio condizionamento rappresentato dalle importazioni tedesche, specie dopo le sanzioni, la diplomazia perde così gradualmente la sua libertà di manovra, sia pure realizzando in determinate occasioni alcuni successi. Prima la riluttanza delle altre potenze vincitrici ad impegnarsi nel contenimento dell'espansionismo hitleriano, più tardi la logica della contrapposizione dei blocchi fra fascismo e antifascismo, spingono Mussolini a stringere rapporti sempre più stretti col minaccioso vicino tedesco. La prima tappa di questo avvicinamento italo-germanico si verifica nel 1936. Nell'ottobre di quell'anno, sette mesi dopo l'occupazione tedesca della Renania e il rifiuto britannico di sollecitare sanzioni contro Hitler, Mussolini stipula l'asse Roma-Berlino, un'intesa con la Germania cui si aggiunge un accordo di entrambi i paesi con il Giappone, in chiave essenzialmente antisovietica.

A prima vista, l'asse sembra una smentita della tradizionale politica estera fascista che ancora due anni prima si era opposta con decisione all'annessione dell'Austria al Reich. In realtà, comunque, il patto di amicizia tra Berlino e Roma presenta un valore strumentale per entrambi i contraenti, che sperano, uniti e minacciosi, di mercanteggiare con l'Inghilterra un accordo più favorevole. Questa esigenza vale soprattutto per l'Italia, che conta di ottenere da Londra un riconoscimento ufficiale della conquista dell'Etiopia e dell' "impero".

Proprio mentre sono in corso trattative tra Italia e Gran Bretagna, nel marzo del 1938, Hitler compie un colpo di mano dettato anche dalla preoccupazione di mettere entrambe queste nazioni di fronte a un fatto compiuto prima di un loro eventuale riavvicinamento.

Hitler può condurre a termine in tempi estremamente brevi l'Anschluss: dopo le dimissioni di Schuschnigg a beneficio del leader nazionalsocialista locale, l'intervento armato tedesco, un plebiscito farsa e una politica di crudeli rappresaglie contro gli ultimi difensori dell'autonomia del paese sanzionano l'annessione dell'Austria alla Germania, fra l'impotenza e lo sgomento delle capitali europee. Neppure Mussolini reagisce all'Anschluss che pure minaccia seriamente le frontiere settentrionali del paese. Oltre tutto, da solo, non sarebbe certo in grado di opporsi all'efficientissima macchina bellica tedesca. Nonostante questa umiliazione, il duce non rinunzia a cercare compensazioni nell'area mediterranea, riprendendo le trattative con l'Inghilterra e con la stessa Francia. Più che Nizza, Savoia e la Corsica, enfaticamente reclamate dalla propaganda ufficiale, interessano a Mussolini la revisione dello status quo in Tunisia, a Gibuti, nel canale di Suez e in altre località strategiche per l'accesso degli oceani. Ma la diplomazia francese non è disposta, almeno per il momento, a questo ordine di concessioni e l'unico risultato è la stipula di un patto anglo-italiano che comporta, fra l'altro, il riconoscimento inglese dell'impero.

Nel settembre del 1938 Hitler richiede il "diritto all'autodeterminazione" per le popolazioni di lingua e nazionalità tedesche dei Sudeti, soggette al governo cecoslovacco. E lo fa minacciando una guerra contro Praga nel caso che la sua rivendicazione non venga accolta. Questa volta tuttavia Gran Bretagna e Francia si mostrano meno arrendevoli, pur facendo pressioni sul governo cecoslovacco perché accetti, almeno in parte, le sollecitazioni della Germania, cui si sono aggiunte quelle dell'Ungheria e della Polonia per l'annessione di altre aree popolate da minoranze etniche. Per qualche giorno il mondo pare sull'orlo di una guerra: il governo di Praga ordina la mobilitazione totale, l'Inghilterra è in stato di allerta e la Francia richiama i riservisti. Dopo un fallito tentativo di mediazione da parte del presidente degli Stati Uniti, Mussolini convince Hitler a incontrarsi a Monaco con i rappresentanti di Londra e di Parigi. E' il cosìdetto "patto a quattro" con cui l'inglese Chamberlain e il francese Daladier, insieme a Hitler e a Mussolini, risolvono la questione dei Sudeti con la cessione di questo territorio alla Germania e di altre aree della Cecoslovacchia all'Ungheria e alla Polonia. La pace é salva, ed entusiastiche manifestazioni di consenso accolgono gli uomini di stato reduci da Monaco. Mussolini viene esaltato dalla propaganda di regime come il "salvatore della pace" per aver indotto Hitler a trattare; Daladier e Chamberlain vengono accolti al ritorno da folle immense che non hanno dimenticato i massacri della grande guerra.

 Hitler si affretta a smembrare quello che resta della Cecoslovacchia in una serie di stati vassalli. Mussolini ha raggiunto alla Conferenza di Monaco il culmine del suo prestigio come negoziatore internazionale, ma ha recitato anche il suo canto del cigno. Dopo questa data, infatti, lo spazio per la sua politica sarà sempre minore: preoccupata per la crescita della potenza della Germania, divenuta la nazione egemone in Europa continentale, la Gran Bretagna si convince che lo scontro con Hitler sia ormai necessario alla tutela dei propri interessi nazionali e imperiali, e, seguita a rimorchio dalla Francia, intraprende una massiccia politica di riarmo. Finita l'epoca del "passo doppio" fra Roma e Berlino, sembra che ormai agli italiani non resti che adeguarsi al "passo dell'oca" dei reparti tedeschi.

  L'ultimo scorcio degli anni Trenta registra un progressivo allineamento del regime agli orientamenti del nazionalsocialismo, non solo e non tanto in politica estera, quanto nella stessa politica interna. Nell'agosto del 1938, dopo la pubblicazione di un "manifesto per la difesa della razza", il governo fascista vara una serie di provvedimenti volti a limitare i diritti politici e civili della minoranza israelita. La stampa di regime presenta questa scelta come decisione autonoma, fondata su principi diversi da quelli del razzismo germanico; ma la logica di questa brusca svolta appare evidente, tanto più che in passato, prima dell'asse, Mussolini aveva assunto atteggiamenti decisamente filosionisti. I provvedimenti antisemiti, che escludono gli ebrei dalla scuola, dai pubblici uffici e dal servizio militare, oltre a vietare i matrimoni misti, non trovano che modesto riscontro nell'opinione pubblica italiana, in cui non è in alcun modo diffuso il risentimento nei confronti della comunità ebraica, molti esponenti della quale hanno oltretutto militato nelle file fasciste.

Le misure antisemite - Le misure per la "difesa della razza" (mal viste anche dal Vaticano, soprattutto perché non fanno troppe distinzioni fra ebrei ortodossi ed ebrei convertiti al cristianesimo) si inseriscono del resto in un nuovo orientamento del fascismo, volto a trasformare Italia, da regime autoritario quale esso nella sostanza è rimasto, in uno stato totalitario in grado di incanalare ed irregimentare tutte le componenti della vita nazionale. Mosso da uno spirito di emulazione (ma anche da un inconfessabile complesso di inferiorità) nei confronti della dittatura hitleriana, Mussolini si propone sempre più di forgiare "l'uomo nuovo", una nuova generazione di italiani formata sul modello imperiale di Roma; e, a tal fine, polemizza con crescente livore contro gli ambienti e la mentalità della borghesia. Il risultato sarà di incrinare il consenso al regime delle stesse piccola e media borghesia, senza per questo guadagnargli l'appoggio del proletariato operaio.

Se a tutto questo si aggiunge che, proprio mentre Hitler completa l'invasione della Cecoslovacchia, l'Italia nell'aprile del 1939 annette l'Albania detronizzando il legittimo sovrano, l'alleanza italo-germanica appare ormai imposta sempre più dalla forza delle cose. Ed infatti nel maggio del 1939 Roma stipula con Berlino una stretta alleanza militare, il patto d'acciaio, poco dopo che Inghilterra e Turchia hanno stipulato un patto di mutua assistenza volto in prevalenza a limitare il peso dell'Italia nel Mediterraneo. Nel frattempo Gran Bretagna e Francia rafforzano i legami e cercano di realizzare con la Russia Sovietica un'alleanza in funzione antitedesca.

Alla fine dell'agosto 1939 Hitler solleva in termini perentori la questione di Danzica, rivendicando l'annessione alla Germania di questa città e della sottile striscia di territorio compreso tra la Prussia orientale e il resto del Reich, che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia per assicurare a questa nazione uno sbocco sul mare. Questa volta, Inghilterra e Francia paiono decise ad intervenire contro l'espansionismo tedesco; Hitler a sorpresa esibisce un accordo con la Russia sovietica, stipulato a Mosca il 23 agosto. Tale patto è ufficialmente un trattato di non aggressione; in realtà contiene una clausola segreta che ne fa un vero e proprio accordo per la spartizione di vasti territori dell'Europa orientale (patto Molotov-Ribbentrop). Con esso l'URSS lascia mano libera nella Polonia occidentale alla Germania nazional-socialista e questa, a sua volta, dà carta bianca alla Russia sovietica nella Polonia dell'est, in Lettonia, Estonia, Finlandia e Bessarabia. Il 1° settembre 1939 la Germania attacca la Polonia, che si è appena legata con patto di mutua assistenza alla Gran Bretagna. Francia e Inghilterra si mobilitano e due giorni dopo, in seguito al rifiuto tedesco di sgombrare i territori occupati, dichiarano guerra a Berlino, dopo aver respinto un estremo tentativo italiano di mediazione. Roma rimane per il momento neutrale (anzi "non belligerante"), in quella che è destinata a divenire la seconda guerra mondiale

 

 

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

 Le prime fasi del conflitto mondiale vedono una spartizione di vaste aree dell'Europa orientale e baltica fra la Germania e l'Urss. La prima vittima, naturalmente, è la Polonia. La resistenza dell'esercito di Varsavia dura meno di un mese. Le truppe polacche, provviste di un'organizzazione e di un armamento arretrato, soccombono dinanzi alle divizioni meccanizzate o corazzate della Wehrmacht, appoggiate massicciamente dall'aviazione.

Il 27 settembre Varsavia capitola e i governi tedesco e sovietico si dividono in parti pressoché uguali la Polonia, secondo i protocolli dell'accordo Ribbentrop-Molotov. Comune a entrambi i conquistatori è la preoccupazione di umiliare il sentimento nazionale del paese amputandone la classe dirigente. Le università polacche vengono chiuse e, mentre i nazionalsocialisti concentrano le loro spietate persecuzioni sulla minoranza israelita, pur senza risparmiare lo stesso clero cattolico e gli intellettuali, i sovietici cercano di eliminare nella loro area di occupazione le élites borghesi, compiendo tra l'altro esecuzioni sommarie di ufficiali di carriera e di complemento.

Nel frattempo, l'Unione Sovietica tenta di rafforzare la propria presenza nella Europa orientale e baltica. Dopo aver trasformato Lituania, Estonia e Lettonia in altrettanti protettorati, l'Urss attacca la Finlandia, dove incontra però una duratura resistenza che si protrae sino al marzo del 1940, quando il governo di Helsinki è costretto ad alcune concessioni territoriali.

 Inglesi e francesi, che hanno assistito alla sconfitta della Polonia senza inviare consistenti aiuti a Varsavia né assalire la Germania sul Reno, sperano di piegare il terzo Reich con un blocco navale che ne metta in ginocchio l'economia; ma in realtà l'effetto del blocco è vanificato sia dalla collaborazione russo-tedesca, sia dal massiccio sfruttamento nazista delle regioni conquistate.

 La posizione di Mussolini, nonostante il patto d'acciaio, è ancora incerta. La diplomazia italiana ha giustificato il mancato intervento con impreparazione economica e militare del paese e con la mancata consultazione del nostro governo prima dell'aggressione alla Polonia, ed ha subordinato la partecipazione al conflitto alla fornitura di una lunga serie di materie prime indispensabili alla nostra industria di guerra.

Nel frattempo Roma non ha interrotto i rapporti con Londra e con Parigi, stipulando all'insaputa dei tedeschi un accordo militare confidenziale con l'Inghilterra e intensificando i rapporti commerciali con essa. Mentre invia aiuti alla Finlandia, sostenuta da Inghilterra e Francia e aggredita dall'Urss, che è alleata della Germania, Mussolini continua a fortificare il Brennero in attesa che la "strana guerra" entri nella fase risolutiva.

 

La situazione precipita nella primavera del 1940. In aprile la Germania invade la Danimarca, che non oppone resistenza, per il suo stato di semitotale disarmo, e la Norvegia, le cui difese vengono infrante dopo venti giorni di accaniti combattimenti cui partecipano anche alcuni contingenti anglo-francesi.

Appena finito di spezzare la resistenza di Oslo e, dopo avere rinnovate le sue offerte di pace a Parigi e a Londra, Hitler ritiene giunto il momento della grande offensiva sul fronte occidentale, nonostante le incertezze dei suoi generali. Dopo avere aggredito, violandone la neutralità, il Lussemburgo, l'Olanda e il Belgio, che capitolano nel giro di pochi giorni, l'esercito tedesco muove alla conquista della Francia.

All'apparenza, le forze in campo sono pari, anzi leggermente superiori per gli anglo-francesi, se si considerano anche le truppe olandesi e belghe. Persino il numero dei carri armati delle due parti si equivale (2.450 sono quelli degli alleati; 2.500 quelli tedeschi). Solo sull'aria l'aviazione germanica, la Luftwaffe, può contare su una massiccia superiorità, con 3.500 apparecchi contro i 1.200 degli avversari. Ma è sul piano del morale dei soldati e delle concezioni strategiche dei generali che gli eserciti alleati versano in condizioni di netta inferiorità.

Presso larga parte dell'opinione pubblica francese la guerra contro Hitler non è popolare e il desiderio della pace è un sentimento largamente diffuso in questa nazione democratica e contraddistinta, nonostante la crisi, da un buon tenore di vita.

Negli stessi anni in cui la Francia si culla nell'illusione che la linea Maginot - un poderoso sistema difensivo basato su un complesso di casematte e reticolati - la renda invulnerabile da una attacco germanico, i generali tedeschi vanno elaborando i princìpi della guerra di movimento, anzi per l'esattezza della guerra lampo, di quel Blitzkrieg che caratterizzerà quasi tutto il secondo conflitto mondiale, così come la guerra di posizione e di trincea ha contrassegnato il primo.

La strategia del Blitzkrieg consiste in reparti di elevata mobilità e potenza di fuoco - divisioni corazzate e fanteria motorizzata - cui spetta il compito di scompaginare lo schieramento nemico conquistando quelle posizioni che poi saranno consolidate dall'avanzata della fanteria di linea. Un ruolo importantissimo in questa strategia è svolto dalla cooperazione tra esercito e aviazione - con i bombardieri da picchiata, i famosi Stukas - e, inoltre, i reparti di paracadutisti che, catapultati oltre le linee avversarie, contribuiscono a seminare il panico e la distruzione nelle file degli avversari. Dopo l'invasione di Belgio, Lussemburgo e Olanda, le truppe tedesche aggirano la linea Maginot e sfondano il fronte avversario tra Dinant e Sedan. In questo modo le truppe anglo-francesi sono divise in due e buona parte di esse rimane chiusa in una sacca nei pressi di Dunkerque. Dopo la caduta di Boulogne, la situazione di queste forza, comprendenti quasi l'intero contingente britannico, diviene drammatica: solo la volontà hitleriana di non umiliare del tutto gli inglesi, pregiudicando la possibilità di una pace negoziata con essi, consente a quel che resta delle loro truppe di imbarcarsi fortunosamente per l'isola, il 4 giugno 1940 mentre i tedeschi si accingono ad entrare in Parigi.

La folgorante vittoria di Hitler induce il 10 giugno a intervenire al suo fianco Mussolini che sino a pochi giorni prima ha tenuto un atteggiamento ancora incerto. Sulla sua decisione pesa il desiderio di sedersi con poca spesa al tavolo delle trattative, ma anche la consapevolezza che la situazione economica è tale da rendere l'Italia sempre più dipendente dalle forniture tedesche specie di carbone. Più di tutto, comunque, Mussolini spera di poter svolgere un ruolo di mediatore in trattative di pace che ritiene imminenti e nelle quali, secondo le sue previsioni, la potenza inglese dovrebbe limitare lo strapotere tedesco. E' difficile stabilire se anche a Londra, nell'eventualità di una sconfitta, si guardi con favore alla presenza dell'Italia al tavolo delle trattative come elemento moderatore; certo è comunque che il leader britannico Winston Churchill intrattiene sino all'entrata in guerra del nostro paese una fitta corrispondenza col dittatore italiano.

Il 17 giugno la Francia, da sola, chiede un armistizio a Hitler e il 22 giugno accetta le pesanti condizioni imposte dalla Germania. Le forze armate d'oltralpe vengono disarmate e i tre quinti del paese - Parigi compresa - sono posti sotto controllo tedesco. Un altro armistizio è firmato con l'esercito italiano, che nei pochi giorni di conflitto è comunque riuscito a dar prova della propria impreparazione, mentre gli inglesi si vendicano della defezione dell'ex alleato affondando o catturando la maggior parte della flotta francese ancorata a Orano, in Algeria. Si tratta di una decisione dettata dalla preoccupazione d'impedire che la marina da guerra di Parigi cada in mano tedesca; ma il modo con cui viene applicata e il bombardamento in cui perdono la vita molti marinai d'oltralpe contribuiscono ad esasperare i risentimenti di un paese già intento ad una drastica revisione del proprio assetto politico.

Dopo l'armistizio, che riduce il territorio della Francia non occupata dai tedeschi alla parte centro-meridionale del paese, il parlamento della terza repubblica - lo stesso che, quattro anni prima, aveva dato la fiducia a Léon Blum - concede i pieni poteri all'eroe della prima guerra mondiale maresciallo Philippe Pétain ed allo spregiudicato leader radicale Pierre Laval, che diviene il primo ministro del nuovo governo.

Si instaura in questo modo il regime di Vichy con una politica di allineamento con la Germania su basi autoritarie e antisemite. Il nuovo governo può godere di un largo consenso interno con la speranza che una Francia politicamente vicina alla Germania possa vedere alleviate le dure condizioni dell'armistizio, ed anche la convinzione che la disfatta del paese sia stata in buona parte una sconfitta del suo regime democratico-repubblicano, e che solo una "rivoluzione nazionale" ispirata a princìpi autoritari possa consentire un risollevamento del paese. Ad appoggiare Pétain non sono perciò solo esponenti della destra, ma anche leaders sindacali e socialisti; cattolici liberali e antifascisti come Emmanuel Mounier, fondatore della rivista "Esprit", registrano con favore la caduta della terza repubblica, mentre le masse comuniste si astengono, per il patto Ribbentrop-Molotov, dalla milizia antinazista. Soltanto più tardi, quando le sorti della guerra si rovesceranno e i partiti comunisti muteranno strategia, acquisterà sempre maggior peso l'appello alla resistenza contro la straniero lanciato il 23 giugno 1940 da Charles De Gaulle; un generale di brigata che, rifugiatosi in Inghilterra, si è autoproclamato leader di una "Francia libera" in alternativa a quella asservita a Hitler o comunque rassegnata alla sconfitta, rappresentata dal maresciallo Pétain.

 L'Inghilterra continua a combattere, nonostante le offerte di pace tedesche. Hitler, di suo, non è ostile all'impero britannico, che considera una garanzia di ordine internazionale in vaste aree del mondo, né alla stessa Gran Bretagna, vista anche la consanguineità fra discendenti degli antichi angli e degli antichi sassoni esaltata da molti teorici nazionalisti della "razza nordica". Ma la Gran Bretagna ritiene impossibile una pace con Hitler, come un secolo prima l'aveva ritenuta impossibile con Napoleone. A parte l'opposizione fra le sue istituzioni liberali e il totalitarismo nazista, Londra infatti considera inconciliabile con la sicurezza sua e del suo impero l'unificazione dell'Europa continentale sotto il predominio di una sola potenza, quale poteva essere ai primi dell'Ottocento la Francia del Bonaparte, nel 1914, su scala minore, il Reich guglielmino, nel 1940 la Germania di Hitler. I massicci aiuti militari statunitensi la sostengono in questa resistenza.

Sotto la ferma guida del suo primo ministro, il conservatore Wiston Churchill, la Gran Bretagna, si appresta così a sostenere l'urto dell'Asse che, padrone di quasi tutta l'Europa, si prepara all'invasione dell'isola. I generali tedeschi hanno infatti elaborato i piani per uno sbarco in Inghilterra; ma questa "operazione leone marino" (così l'invasione dell'isola viene chiamata in codice) deve essere preceduta da una fase di massicci bombardamenti, volti a devastare non solo in centri industriali e le infrastrutture nemiche, ma lo stesso morale della popolazione. Le trentasettemila tonnellate di bombe sganciate dall'aviazione tedesca sulla Gran Bretagna, tuttavia,  non basteranno a fiaccare la stoica resistenza degli inglesi, che in questa circostanza - sostenuti economicamente e militarmente dai popoli del Commonwealt e dell'impero - rivelano doti di tenacia, autocontrollo e disciplina insospettabili per chi, come certi polemisti italiani, li aveva grossolanamente dipinti come un "popolo dei cinque pasti", incapace di sacrifici. Per di più i piloti della Raf (Royal Air Forces), oltre a disporre di eroismo e di capacità non comuni, hanno dalla loro un'innovazione tecnologica sconosciuta ai colleghi della Luftwaffe. I loro aerei dispongono infatti del radar, che consente ad essi di individuare, senza essere a loro volta individuati, gli apparecchi nemici. Si deve anche a questo se, fra l'agosto e il settembre del 1940, la Germania incontra sulla Manica la sua seconda Marna ed i generali di Hitler si vedono costretti ad abbandonare i disegni di invasione dell'Inghilterra.

 

 

Il nostro paese coglie subito i primi insuccessi dimostrando di essere sempre di più il reale punto debole dell'asse nonostante lo spirito di sacrificio e in certi casi l'eroismo dei soldati. Pur avendo militarizzato la vita civile con l'ausilio delle organizzazioni fiancheggiatrici del regime (dai "balilla" agli "avanguardisti" allo stesso Pnf) il fascismo non è riuscito a dotare l'Italia di forze armate efficienti. Generali desiderosi di fare carriera hanno illuso Mussolini circa le effettive possibilità delle nostre truppe; e Mussolini, poco esperto di cose militari (durante la grande guerra raggiunge solo il grado di sergente) e desideroso di farsi illudere, si è lasciato ingannare. Anche perché, come abbiamo visto, è entrato nel conflitto soprattutto con l'idea di sedersi poco dopo al tavolo delle trattative di pace. Per di più, non tutti i quadri militari sono in realtà entusiasti del fascismo e della guerra cui questo ha portato l'Italia. Se l'aviazione, di recente costituzione, è assai legata al regime, gli ufficiali dell'esercito guardano con ostilità alla più rapida carriera di cui beneficiano i colleghi della milizia fascista e nella marina sono tradizionalmente diffusi i sentimenti filo-britannici. Si deve anche a questo, oltre che al possesso inglese del radar e della chiave per decriptare i nostri codici segreti, se la flotta italiana, di tutto rispetto nonostante la mancanza di porta aerei, accumula rovesci su rovesci in quel mediterraneo che la retorica di regime presenta come un mare nostrum.

Appena dichiarata la guerra, l'Italia rinunzia ad attaccare e a conquistare con l'ausilio di truppe aviotrasportate l'importantissima base inglese di Malta, alla cui perdita la Gran Bretagna è già rassegnata. Le nostre truppe invece attaccano dalla Libia l'Egitto, controllato dagli inglesi, conseguendo qualche parziale successo, vanificato però alla fine del 1940 da una massiccia controffensiva britannica. Solo l'intervento di una forte armata tedesca al comando del geniale stratega Erwin Rommel riuscirà a riportare le forze dell'asse all'offensiva sino alla fine del 41. In Africa orientale, inizialmente, l'Italia arriva a cogliere un successo: la conquista della Somalia britannica. Ma è una vittoria di Pirro e nella primavera del 41 le nostre truppe al comando del viceré Amedeo Umberto di Savoia, duca d'Aosta, devono capitolare, sia pure con l'onore delle armi, dinanzi alle preponderanti forze inglesi. L' "impero di Mussolini", è durato appena un lustro e il negus spodestato Hailé Selassié può tornare sul trono.

Ma il maggiore insuccesso dell'Italia in questa prima fase del conflitto è costituito dalla campagna di Grecia. Nell'ottobre del 1940, desideroso di emulare Hitler e le sue vittorie, oltre che di ampliare il controllo del Mediterraneo, Mussolini decide senza consultare preventivamente l'alleato tedesco, di assalire la Grecia, muovendo dall'Albania. Suo genero Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, gli ha fatto credere che ad Atene stia per scattare un colpo di mano filofascista e i suoi generali che una campagna contro la penisola ellenica possa venire intrapresa anche alle soglie dell'inverno. Ma il golpe sperato non scatta, i greci rivelano una tenacia del tutto imprevista nel difendere il loro territorio trasformando il tutto in una guerra di trincea combattuta con venti anni di ritardo fra i gelidi monti dell'Epiro invece che sul Carso. Per di più le truppe di Atene, sostenute da massicci aiuti britannici riescono a contrattaccare, penetrando nell' Albania italiana, mentre aerei da bombardamento inglesi distruggono metà della nostra flotta ormeggiata a Taranto. Ad appianare la situazione interviene nell'aprile del 41 l'alleato tedesco. Dai confini di Ungheria, Romania e Bulgaria (che nel frattempo hanno aderito all'asse Roma - Berlino) le truppe germaniche irrompono in Iugoslavia e in Grecia. Il governo di Belgrado capitola dopo diciotto giorni e il paese è diviso in un regno di Serbia sotto il controllo tedesco, e in un regno di Croazia su cui dovrebbe regnare Aimone di Savoia, duca di Spoleto, anche se in realtà l'insediamento del sovrano non avrà il tempo di avvenire. Pochi giorni dopo, la stessa resistenza greca è piegata. Re Giorgio II firma un armistizio e fugge a Creta, ponendosi sotto la protezione degli inglesi. Ma poco dopo truppe tedesche aviotrasportate invadono con un'azione a sorpresa l'isola, costringendo i britannici ad evacuarla e assicurando all'asse una posizione chiave nel Mediterraneo orientale.

La campagna di Iugoslavia e di Grecia si rivela così un ulteriore successo della guerra-lampo tedesca. Ma è un successo che costerà alle forze dell'Asse molto caro, perché sottrae uomini, tempo e risorse.

 

Fino al 1941, il secondo conflitto mondiale si è articolato in una maniera che, nella maggior parte dei casi, la vita delle popolazioni e degli stessi combattenti è toccata dagli eventi bellici assai meno che nel primo biennio della grande guerra. Il Blitzkrieg fa molte meno vittime e impone ai soldati sacrifici assai minori rispetto alla guerra di posizione. A parte il caso dell'Inghilterra colpita dai bombardamenti nel corso della battaglia della Manica, i paesi che non sono vittime d'invasioni non vedono diminuire sensibilmente il loro tenore di vita. In Germania nel 1939 le spese dei civili per beni di consumo aumentano addirittura dell'8 per cento rispetto all'anno precedente, e sino al 1941 non si registrerà un netto calo. Razionamento dei generi di prima necessità, oscuramento notturno contro i bombardamenti aerei, richiamo alle armi di nuove classi di leva non bastano a far sentire come una guerra totale un conflitto che rimane ancora una guerra limitata.

Solo con il 1941 il conflitto si allarga all'ambito mondiale e assume le caratteristiche di una vera e propria guerra ideologica e totale. Nell'autunno del 1940, quando Germania, Italia e Giappone (quest'ultimo riconciliatosi con Berlino dopo la rottura seguita al patto Ribbentrop-Molotov) stipulano un patto tripartito per la definizione di un "nuovo ordine" mondiale. I tre paesi, accomunati dai regimi autoritari ma anche dall'insofferenza per l'assetto internazionale uscito dalla pace di Versailles, vi definiscono le rispettive sfere d'influenza. L'Europa centro-orientale spetta al Reich, il Mediterraneo a Roma, l'Asia all'impero del Sol Levante, ancora impegnato ad estendere il suo controllo sull'intera Cina.

Una replica indiretta al patto tripartito è costituita dalla carta atlantica, una dichiarazione di princìpi democratici sottoscritta nell'agosto 1941 dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt e dal primo ministro britannico Winston Churchill. La carta atlantica, cui aderiranno i governi (molti dei quali in esilio) dei paesi in lotta contro l'Asse, costituisce il punto di partenza di un'alleanza in chiave antinazista che prenderà il nome di Organizzazione delle nazioni unite.

Hitler rinunzia nella prima metà del 1941 anche alla speranza di stipulare una pace separata con la Gran Bretagna. Non è una rinunzia da poco. Attivi fautori di una pace con Londra sono infatti molti esponenti di primo piano del nazionalsocialismo, come il luogotenente del Fuhrer, Rudolf Hess, ed il professor Haushofer.

Churchill è fermamente convinto della necessità di proseguire ad oltranza la guerra contro la Germania: nonostante la sua mentalità conservatrice, l'esigenza di eliminare il nazismo gli appare assai più importante della lotta contro il bolscevismo.

Rudolf Hess si reca all'insaputa di Hitler in Scozia in aereo per un ultimo tentativo di avviare delle trattative, che sono destinate al fallimento.

Il 22 giugno 1941 Hitler assale, senza una preventiva dichiarazione di guerra, la Russia sovietica. La rottura del patto Ribbentrop-Molotov stupisce il mondo, ma in realtà l'aggressione all'Urss è nella logica del nazionalsocialismo. Hitler l'ha teorizzata nel Mein Kampf.

La colonizzazione dell'Oriente slavo è, agli occhi dei nazionalsocialisti, lo strumento per assicurare alla Germania lo "spazio vitale" di cui ha bisogno, riprendendo la "spinta verso est" che sin dal medioevo aveva caratterizzato la nazione tedesca. Incapace di avere la meglio sulla resistenza britannica, Hitler cerca di trasformare Berlino nella capitale di un immenso impero euroasiatico forte delle ricchezze agricole e minerarie della Russia. In questo modo la Germania, potenza totalitaria, continentale, agricola e industriale, potrà opporsi validamente in una lotta per il dominio del mondo alla potenza democratica, marittima, commerciale e finanziaria di Londra, sostenuta da un'America sempre meno desiderosa di conservare un atteggiamento di neutralità.

Hitler con l'"operazione Barbarossa" intraprende l'invasione dell'Urss. Berlino sa di non poter contare sulla fedeltà di Mosca più di quanto questa non possa contare sulla sua e teme un attacco di sorpresa nell'area balcanica. Inoltre lo stato maggiore germanico è stato colpito dalla cattiva prova che l'armata rossa - decapitata nei suoi quadri dalle grandi "purghe" di Stalin - ha dato di sé nella guerra contro il piccolo esercito finlandese; né manca presso i nazionalsocialisti la convinzione che il regime sovietico, mal visto all'interno del paese anche per effetto delle sanguinose repressioni di Stalin, si sgretoli in seguito al trauma di un conflitto come poco più di vent'anni prima si è sgretolato il regime zarista. La speranza che la lotta contro la Russia possa risolversi in una gigantesca replica del Blitzkrieg contro la Francia induce così Hitler all'avventata decisione di aprire uno sterminato fronte dal Baltico al Caucaso, che d'ora in poi assorbirà la maggior parte delle energie e delle risorse tedesche.

L'annuncio a sorpresa dell'aggressione all'Urss è colto con favore e in certi casi con entusiasmo dagli altri governi dell'Asse, che si affrettano ad inviare proprie truppe sul fronte dell'est. La lotta contro la Russia è propagandata come una crociata della "civiltà cristiana occidentale" contro la "barbarie comunista", e lo stesso dittatore spagnolo Francisco Franco, che ha assunto sin dall'inizio del conflitto un atteggiamento di prudente neutralità, consente che un contingente di volontari falangisti, la "divisione azzurra", prenda parte al conflitto contro l'Urss. Anche presso molti paesi occupati da nazionalsocialisti la propaganda anticomunista riesce a reclutare giovani volontari per il fronte orientale, che combattono inquadrati nelle Waffen-SS, una formazione militare distinta dalle vere e proprie SS, la terribile polizia del regime hitleriano.

Organizzato con l'intento di sferrare un colpo mortale all'avversario, l'attacco tedesco coglie impreparato l'esercito di Stalin, nonostante che questi sia stato in precedenza messo in guardia dai servizi segreti britannici. Dinanzi al masiccio attacco delle forze dell'Asse le truppe russe, impreparate e spesso poco motivate alla lotta, si sgretolano rapidamente. Molto frequenti sono i casi in cui grandi unità si arrendono in massa. In pochi mesi tedeschi, italiani e alleati catturano un milione e mezzo di prigionieri, occupano vastissime aree di territorio sovietico, dai paesi baltici alla Russia bianca, dall'Ucraina alla Crimea, sinché, nell'estate del 1942, non attraversano il Don e si spingono fino al Caucaso meridionale da un lato e dall'altro al basso Volga. La "crociata antibolscevica" sembra per qualche tempo destinata al successo, anche perché a schierarsi con l'Asse sono anche molti russi insofferenti del regime di Stalin: anticomunisti, cosacchi, ucraini, mongoli che sperano di scrollarsi di dosso il dominio di Mosca. Nella partita si inserisce anche la Finlandia, che ha un vecchio conto da regolare con l'Urss.

 

Se per il fascismo la "marcia su Mosca" è un'evidente conseguenza dell'anticomunismo del regime, quasi una prosecuzione della marcia su Roma di venti anni prima, nella Germania nazionalsocialista prevalgono gli intenti imperialistici e la preoccupazione di assicurare al popolo tedesco uno spazio vitale a spese degli slavi, considerati nel loro complesso una razza inferiore. Non si tratta di semplici divergenze teoriche, ma di diversità di comportamento destinate ad esercitare un'influenza considerevole sugli esiti del conflitto. Mentre infatti nella zona di occupazione italiana i nostri soldati si astengono da massacri e crudeli rappresaglie, facendosi apprezzare e in certi casi amare dalla popolazione per il loro senso di umanità, i nazionalsocialisti - approfittando del fatto che l'Urss, come del resto la Russia degli zar, non ha sottoscritto le convenzioni internazionali a tutela dei prigionieri e dei civili - praticano sul fronte dell'est una politica di sterminio nei confronti non solo, come vedremo, degli ebrei e delle locali autorità politiche comuniste, ma spesso anche della restante popolazione e dei soldati dell'armata rossa che hanno spontaneamente deposto le armi. Il terrore nazista favorisce la rinascita del patriottismo russo; Hitler aiuta Stalin a consolidare il regime, perché dinanzi alla minaccia di annientamento costituita da una vittoria tedesca anche chi è insofferente del comunismo capisce che è giunta l'ora di battersi all'ultimo sangue: non per l'Urss, ma per la "grande madre Russia". Mentre le truppe dell'armata rossa tornano ad indossare le uniformi dell'esercito zarista e le spalline dorate - strappate nel corso della rivoluzione d'ottobre - luccicano di nuovo sulle divise degli ufficiali, il morale dei reparti si consolida e le forze amate sovietiche si apprestano ad arginare l'ultima fiammata del Blitzkrieg tedesco alle soglie della capitale.

 

 La decisione statunitense di porre l'embargo sui rifornimenti di petrolio e di rottami di ferro al Giappone convince i circoli militaristi di Tokyo che un conflitto con l'America è ormai inevitabile. Il 7 dicembre 1941, mentre l'ambasciatore di Tokyo a Washington consegna la dichiarazione di guerra, forze aeree giapponesi attaccano la base navale americana di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, distruggendo in poche ore la flotta statunitense ivi ancorata e 188 velivoli. L'obiettivo è quello di scoraggiare gli Stati Uniti da ogni forma di ingerenza nelle coste asiatiche, annettersi le basi americane nel Pacifico e sostituirsi agli inglesi, ai francesi e agli olandesi nella guida dei grandi imperi coloniali asiatici, facendo leva anche sui risentimenti antieuropei delle popolazioni locali. Mentre gli Stati Uniti si trovano in condizione di momentanea inferiorità aereonavale per il trauma di Pearl Harbor e la perdita di cinque corazzate, tre incrociatori e più di tremila uomini, le armate nipponiche dilagano nell'Asia meridionale, in Indocina - controllata dai giapponesi, ma lasciata formalmente sotto la sovranità della Francia di Vichy -, nella Malesia, strappata ai britannici dopo l'ingloriosa caduta di Singapore, in Birmania, in Indonesia e in Nuova Guinea. Nel giugno del 1942 le forze di Tokyo hanno strappato agli Stati Uniti tutti gli arcipelaghi del Pacifico sino alle isole Midway e minacciano direttamente l'India britannica e l'Australia.

Il Giappone persegue obiettivi evidentemente e spesso brutalmente imperialistici, ma con la sua propaganda si preoccupa di presentarsi come un "liberatore" della dominazione coloniale europea. Adottando lo slogan "l'Asia agli asiatici", tutte le risorse agricole e minerarie dei territori occupati vengono dirottate per sostenere l'economia di guerra nipponica, impegnata in uno sforzo poderoso contro il colosso statunitense.

Straordinario successo tattico e militare, Pearl Harbor si è rivelata infatti un clamoroso errore strategico e politico. Feriti nel loro orgoglio e desiderosi di vendicare il "giorno della vergogna", gli Stati Uniti trovano nell'aggressione subìta la volontà di combattere sino all'ultimo non solo contro il governo di Tokyo, ma anche contro i suoi alleati del patto tripartito. Non a caso il presidente americano Roosevelt, informato dai suoi servizi segreti che i giapponesi preparavano un attacco a sorpresa contro le Hawaii, si è guardato bene dall'intervenire.

Dopo il proditorio assalto di Pearl Harbor ogni resistenza è invece superata e Roosevelt, che già da tempo ha posto in opera un programma di coscrizione obbligatoria e di riarmo, e con la legge affitti e prestiti (marzo 1941) ha trasformato gli Usa nell'"arsenale delle democrazie", impegna il suo paese nella lotta contro le potenze dell'Asse. Con gli Usa si schierano - per lo più simbolicamente - le principali nazioni dell'America latina, ad eccezione dell'Argentina.

 

Il peso determinante dell'intervento statunitense non è avvertito all'inizio dai governi dell'Asse: si spera che la minaccia giapponese riesca a monopolizzarne gli sforzi sul fronte del Pacifico.

Mentre i sottomarini tedeschi impegnano, riportando considerevoli successi, la "battaglia dell'Atlantico" per impedire ai rifornimenti americani di raggiungere sovietici e britannici, le forze dell'Asse raggiungono il culmine della loro espansione. All'inizio dell'estate del 1942 il Giappone domina in Asia su un impero di 450 milioni di uomini; le truppe italo-tedesche in Africa settentrionale, comandate dal leggendario condottiero tedesco Erwin Rommel, si sono spinte nel cuore dell'Egitto, a pochi chilometri da Alessandria, mentre in Russia le forze dell'Asse sono giunte alle soglie di Mosca e Stalingrado, dove si accingono a sferrare una offensiva decisiva per le sorti del conflitto. Con la Germania e l'Italia padrone della quasi totalità dell'Europa continentale, dal Caucaso alla Bretagna, dai Balcani alla Norvegia, la profezia, carezzata negli ambienti nazionalsocialisti, secondo cui Berlino si accingerà a divenire la capitale di un Reich millenario, destinato a dominare sul mondo, appare a molti tutt'altro che infondata.

La prospettiva di avere a che fare con "Hitler per mille anni" con rassegnata e spesso opportunistica ammirazione, favoriscono in quasi tutti i paesi occupati la nascita di governi e movimenti collaborazionistici, così chiamati perché non si limitano ad accettare il fatto compiuto dell'occupazione nazista, ma - facendo proprie le parole d'ordine hitleriane - invitano le popolazioni locali a collaborare con l'Asse, ventilando la speranza che, terminata la guerra, i loro paesi possano trovare una collocazione autonoma nel "nuovo ordine europeo" fondato dalle truppe italo-tedesche.

In Francia sono diversi i movimenti dichiaratamente collaborazionisti. Nei Paesi Bassi e nell'area scandinava i movimenti e governi filotedeschi nascono numerosi. In Cecosclovacchia e in Iugoslavia i collaborazionisti sono reclutati soprattutto presso minoranze nazionali. Tipico il caso dei croati in Iugoslavia, i cui partigiani Ustascia si battono in bande a sostegno delle truppe dell'Asse.

Nell'universo collaborazionista prevalgono, naturalmente, gli elementi di estrema destra. Ma, anche a causa delle ambiguità ideologiche dei fascismi, che fanno leva su parole d'ordine rivoluzionarie e "sociali", non mancano in molti casi al loro interno i transfughi della sinistra: ex socialisti divenuti per l'occasione socialisti nazionali e poi nazionalsocialisti, leaders sindacali di un certo prestigio, statisti di estrazione democratico-radicale, ex intellettuali d'avanguardia sedotti dalla mitologia di un "romanticismo fascista". In Francia e soprattutto nei paesi dell'est, anche l'antisemitismo concorre ad assicurare, almeno nei primi tempi, un certo consenso ai movimenti collaborazionisti. I nazionalsocialisti e i loro simpatizzanti locali, infatti, fanno leva sull'ostilità e sull'invidia popolare da sempre vive nei confronti degli ebrei. Dopo l'aggressione all'Urss, comunque, l'anticomunismo assume un peso predominante nella propaganda dei movimenti collaborazionisti, facendo presa su molti giovani sedotti dalla propaganda nazionalsocialista, che promette la nascita di un'Europa unita nella lotta contro il comunismo sovietico e il capitalismo anglo-americano. Queste illusioni europeistiche ricevono però dai fatti una brusca e crudele smentita. Per tutta la durata del conflitto Hitler e i suoi generali trattano i territori conquistati con brutale realismo, convogliandone tutte le ricchezze in Germania per il sostegno dell'economia bellica e imponendo in vari casi a larghe fasce della popolazione il lavoro obbligatorio o la sottoalimentazione.

 

 

 

A partire dall'estate del 1942, la situazione inizia a mutare a tutto svantaggio delle truppe dell'Asse, impegnate ormai su un fronte troppo vasto e, specie dopo la dichiarazione di guerra agli Usa, logorate da uno sforzo spropositato rispetto alle loro potenzialità demografiche e soprattutto economiche. L'efficientissima riorganizzazione dell'industria bellica tedesca operata dall'architetto Albert Speer non basta a compensare la superiorità acquisita nel campo degli armamenti delle Nazioni Unite, grazie soprattutto alle forniture americane.

Le prime conseguenze del mutato equilibrio di forze si registrano nell'Africa settentrionale. Qui nell'ottobre del 1942 la controffensiva anglosassone parte da El Alamein, la località dell'Egitto a 112 chilometri da Alessandria dove è stata faticosamente arrestata, pochi mesi prima, la grande offensiva di Rommel. Al comando di un combattivo e geniale soldato, Sir Bernard Montgomery, le divisioni britanniche sferrano una vigorosa controffensiva che respinge il contingente di spedizione italo-tedesco in Libia, nonostante la resistenza opposta, con sfortunato eroismo, dai nostri soldati. Ad aggravare la situazione per le forze dell'Asse concorre nel novembre l'invasione del Nord Africa francese. Con uno spiegamento di forze senza precedenti per analoghe operazioni (nell'impresa sono impegnate ottocentocinquanta imbarcazioni), gli anglo-americani sbarcano in Marocco e in Algeria. L'ammiraglio Darlan, che rappresenta nella zona il governo di Vichy, aiuta le forze delle Nazioni Unite a prendere possesso dei territori ed è mantenuto da queste alla guida del Nord Africa francese; il che non gli impedirà di essere giustiziato da elementi gollisti che non gli hanno perdonato l'iniziale adesione al governo di Pétain. Per rappresaglia, intanto, i tedeschi occupano anche la parte di territorio d'oltralpe che le clausole dell'armistizio avavano lasciato sotto il controllo di Vichy. Strette in un morsa fra l'Egitto britannico e l'Algeria in mano agli anglo-americani, le truppe italo-tedesche asseragliate in Tunisia e in Libia finiscono per trovarsi in una posizione sempre più precaria. Alla caduta di Tripoli, nel gennaio del '43, fa seguito, nel maggio dello stesso anno, la definitiva capitolazione delle forse dell'Asse nell'Africa settentrionale.

Altrettanto gravi sono i rovesci che la Germania e i suoi alleati subiscono sul fronte orientale. Il Blitzkrieg scatenato nel giugno '41 sin dall'inverno dello stesso anno si è rilevato una serie di folgoranti vittorie di Pirro. I tedeschi sono riusciti a spingersi in territorio russo sino ad intravedere le rotaie dei tram di Mosca, ma non sono riusciti ad infliggere all'Urss un colpo analogo a quello che ha costretto la Francia alla resa. Già nel dicembre del 1941, superato il trauma iniziale, l'armata rossa inizia a contrattaccare. Glielo consentono i massicci rifornimenti di armi, aerei, derrate alimentari che l'Inghilterra e soprattutto l'America assicurano all'Unione Sovietica. Ciò non impedisce tuttavia alle truppe dell'Asse di tornare all'offensiva e di sferrare nell'agosto del 1942 un violento attacco contro Stalingrado, importante centro di comunicazione sul Volga. La città è conquistata in settembre, ma il successo non dà gli esiti sperati. Imprigionate nel terribile inverno russo, incalzate da continui attacchi a tenaglia ed infine definitivamente accerchiate, le ventidue divisioni tedesche asserragliate a Stalingrado, ridotte a soli ottantamila uomini dai combattimenti, dal gelo e dalla fame, si arrendono il 2 febbraio del 1943.

La disfatta di Stalingrado non basta per il momento a spezzare la determinazione italiana e soprattutto germanica. Sino all'estate del '43 le forze dell'Asse continuano a contrattaccare, conseguendo in alcuni casi discreti successi. Ma ormai i rapporti di forza sono decisamente cambiati ed i sovietici, sempre più massicciamente aiutati dagli Stati Uniti (nel solo '43 ne ricevono tra l'altro quasi undicimila velivoli: una cifra pari all'intera produzione aereonautica italiana dal '39 al '43), possono vantare una schiacciante superiorità sia numerica che di armamento. Mentre sul fronte del Pacifico i giapponesi, sia pure a prezzo di pesanti perdite, sono sconfitti in terribili scontri aereonavali alle isole Midway (giugno 1942) e alle isole Salomone (novembre 1942), la situazione dell'Asse appare sempre più critica. Sepolto sotto le nevi di Stalingrado il mito dell'invincibilità germanica, molti di coloro che in un primo tempo si erano rassegnati all'egemonia tedesca ritengono giunto il momento di organizzarsi nella resistenza contro il nazionalsocialismo e i suoi alleati.

 

Per Wiston Churchill, in caso di invasione tedesca, l'Inghilterra non avrebbe tenuto conto della convenzione internazionale dell'Aia, relativa ai rapporti fra occupanti e occupati, e che anche i civili, donne, vecchi e bambini compresi, avrebbero combattuto armati contro l'invasore. La guerra in corso tende a coinvolgere sempre di più la popolazione civile dei paesi belligeranti, sottoposta anche sotto i regimi democratici sia a una massiccia campagna di indottrinamento ideologico (negli Usa per attuare un'efficace propaganda fra le masse si farà ricorso persino ai protagonisti dei fumetti di Walt Disney), sia a pesanti restrizioni nelle libertà personali.

Requisizioni dei beni e internamento in campi di concentramento dei cittadini o dei residenti originari di nazioni nemiche, razionamento dei generi di prima necessità, istituzione di forme di lavoro obbligatorio per sopperire alle forze lavorative richiamate, sono fenomeni comuni a quasi tutti i paesi belligeranti; anzi, in certi casi, la mobilitazione totale è svolta con maggior rigore nei paesi democratici. In Inghilterra, per esempio, il lavoro obbligatorio delle donne sposate è imposto su scala assai maggiore che alle massaie tedesche. Quanto all'impegno della popolazione civile dei paesi occupati nella lotta contro l'invasione, cui faceva appello Churchill, esso rimane per ovvi motivi senza séguito nella Gran Bretagna risparmiata dall'invasione; ma si sviluppa in maniera crescente nell'Europa occupata dalle forze dell'Asse, sino a dar vita a un movimento di vastissime dimensioni.

In questo movimento di resistenza destinato ad esercitare una non trascurabile influenza morale sulle sorti del conflitto confluiscono le più diverse componenti e motivazioni. Alle origini di esso, in buona parte dei casi, è - oltre, come ovvio, all'antifascismo - un sentimento nazionale ferito dalla sconfitta e umiliato dalla brutale occupazione tedesca. Ad esso si aggiunge - anche in paesi come la Germania e l'Italia - un diffuso desiderio di libertà dall'autoritarismo fascista o dal totalitarismo nazionalsocialista, che presso vasti strati popolari è anche speranza di larghe trasformazioni sociali, da realizzarsi nella lotta contro i gruppi e le forze conservatrici appoggiatesi in certi casi all'Asse per sostenere le loro posizioni di privilegio. Ma in vari casi fra le motivazioni che spingono molti uomini ad aderire ai movimenti di resistenza o "partigiani", dandosi alla macchia, è anche l'esigenza di sottrarsi ai reclutamenti, al lavoro forzato e alle persecuzioni nazionalsocialiste.

Per tutti questi motivi alla Resistenza partecipano forze ideologiche e politiche fra le più diverse, anche a seconda delle varie aree e delle differenti fasi del conflitto. In un primo tempo, la lotta partigiana è un fenomeno minoritario, quasi di élite. Vi prendono parte liberaldemocratici, cattolici ostili al neopaganesimo nazista, persino elementi nazionalisti e conservatori che prima della guerra avevano simpatizzato col fascismo, socialisti e comunisti dissidenti dalla linea politica staliniana. Le masse operaie, cui i vari partiti hanno presentato, dopo il patto Ribbentrop-Molotov, la guerra dichiarata a Hitler dalla Francia e dall'Inghilterra come un conflitto imperialista, rimangono per il momento in prevalenza estranee a una lotta che sembra perduta in partenza.

 

L'aggressione tedesca all'Urss, induce i dirigenti sovietici a dar via libera all'alleanza dei partiti comunisti locali con le altre forze antifasciste. Questi infatti finiscono per assumere un ruolo di primo piano nella lotta di resistenza. La loro base di massa, le loro tradizioni di disciplina interna, spesso militare, lo spirito insurrezionale proprio della prassi leninistica e la disponibilità al sacrificio dei quadri direttivi e della base assicurano ad essi un peso politico crescente all'interno dei vari gruppi impegnati nella lotta contro gli occupanti. Quest'ultima, per ovvi motivi, non può essere un conflitto di tipo tradizionale, ma nella maggior parte dei casi i partigiani, organizzati in nuclei clandestini, si dedicano più che alla guerra alla guerriglia: piccoli scontri, attentati, sabotaggi, agguati a militari isolati, a militanti di gruppi collaborazionisti, a locali pubblici frequentati dalle truppe di occupazione.

 Il peso militare della lotta partigiana è tutt'altro che indifferente, se non altro perché snerva le truppe di occupazione in una logorante attività di polizia e di presidio, sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico italo-tedesco. Tali obiettivi vengono realizzati a prezzo di costi umani elevatissimi, non solo per i partigiani combattenti, ma per la stessa popolazione civile. Il diritto di guerra tradizionale, che disciplina le relazioni fra combattenti di eserciti regolari, identificabili attraverso una precisa uniforme, e protegge gli inermi, vale a dire le persone estranee alla lotta armata, si rivela ben presto inadeguato a disciplinare i rapporti fra gli eserciti di occupazione, fatti oggetto di una incisiva guerriglia, e la popolazione civile, presso la quale si nascondono (o è presumibile si nascondano) i potenziali nemici. Se le truppe italiane forniscono in genere prova di spirito di moderazione, le forze armate nazionalsocialiste ed in particolare le SS cominciano ben presto ad usare e ad abusare del crudele diritto di rappresaglia, passando senza pietà per le armi non solo i partigiani catturati, ma anche ostaggi scelti fra avversari politici, delinquenti comuni o addirittura inermi cittadini incappati per caso nei rastrellamenti seguiti ad un attentato.

Ne derivano atroci sofferenze per la popolazione civile, ma anche un considerevole successo politico per le forze partigiane. Le rappresaglie indiscriminate, i massacri, la stessa continua atmosfera di sospetto e di terrore scavano fra i nazionalsocialisti e le popolazioni civili un solco di sangue e di odio incolmabile, anche in quelle nazioni, come la Francia, in cui gli occupanti avevano nei primi tempi tenuto un comportamento rispettoso del diritto internazionale e i movimenti collaborazionisti avevano ottenuto un certo consenso di massa.

Categorie di persone che non hanno bisogno di attendere i contraccolpi della guerriglia partigiana poiché già a conoscenza dell'"universo concentrazionario", dei campi di concentramento. Un imbarbarimento delle relazioni internazionali e della stessa vita civile all'interno delle singole nazioni, che costituisce la più completa negazione di un patrimonio di valori e di tradizioni umanitarie su cui l'Europa aveva in buona parte fondato il suo presunto primato morale.

Nel corso dei secoli si affermò la tendenza a proteggere nel corso dei conflitti combattenti e non combattenti, imponendo limitazioni all'impiego della forza e assicurando adeguate garanzie sia ai prigionieri che alla popolazione civile. L'Ottocento ed i primi anni del secolo successivo furono l'età d'oro delle varie convenzioni internazionali. Una sorta di codice cavalleresco si instaurò spesso fra i vari combattenti delle varie nazioni: anche in conflitti particolarmente aspri come la guerra franco-prussiana e la guerra di secessione americana invalse l'uso di rilasciare i prigionieri sulla parola, a condizione cioé che s'impegnassero sul loro onore a non riprendere le armi una volta ottenuta la libertà.

Queste condizioni non poterono tuttavia proseguire nell'era della "guerra totale" inauguratasi con il primo e proseguita poi col secondo conflitto mondiale. Già nella grande guerra, come abbiamo avuto occasione di osservare, l'esigenza di raggiungere ad ogni prezzo la vittoria aveva spinto le potenze belligeranti a violare - per esempio in materia di diritto marittimo - i protocolli internazionali. La propaganda di guerra necessaria a mobilitare nello sforzo bellico vaste masse di soldati di leva sostituì agli antichi sentimenti cavallereschi nei confronti dei commilitoni di parte avversa l'odio nei riguardi del nemico. L'antica distinzione fra i combattenti e non combattenti, fra militari e civili, andò sfumando, mentre il protrarsi per anni di conflitti che in precedenza si risolvevano in pochi mesi rese lunga e pesante la detenzione dei prigionieri, che nessuno si sognava più di liberare sulla parola.

Già nel corso della grande guerra tutte le potenze belligeranti approntarono campi di concentramento (in tedesco Lager) nei quali, appunto, venivano concentrate le vaste masse umane che nell'era della guerra di massa ogni stato belligerante faceva prigioniere. Con la seconda guerra mondiale il mondo dei campi di concentramento - l'"universo concentrazionario", come è stato definito - si dilata a dismisura, e le condizioni dei prigionieri sono generalmente inasprite. Fra le forze dell'Asse e quelli dei paesi occidentali (Francia, Stati Uniti, Inghilterra) le convenzioni internazionali sono in genere rispettate. Gli stessi tedeschi si comportano nel complesso correttamente con i prigionieri di guerra alleati, compresi quelli israeliti (non altrettanto può dirsi in molti casi per il trattamento ricevuto dai prigionieri italiani, specie se ufficiali, da parte degli anglosassoni e soprattutto dei francesi).

Ben diverse sono però le condizioni sugli altri fronti del conflitto, ed in particolare nel Pacifico e in Europa orientale. Sul fronte del Pacifico - che vede in lizza i giapponesi e gli statunitensi, alleati di neozelandesi e australiani - le convenzioni internazionali sono sistematicamente trascurate e in certi casi prigionieri di guerra non se ne fanno neppure: si combatte all'ultimo sangue, in una guerra animata dall'odio di razza oltre che da rivalità imperialistiche. I nazionalsocialisti conducono nei riguardi dell'Urss, come abbiamo già visto, una guerra di sterminio. A fare le spese della reazione sovietica saranno non solo i tedeschi catturati e, quando le sorti del conflitto si capovolgeranno, la popolazione civile germanica, ma gli stessi prigionieri di guerra italiani. Anche se, dopo la caduta del fascismo, un decreto di Stalin migliora le loro condizioni, la maggior parte di essi non farà ritorno in patria.

 

Ben più dure, però, sono nel corso della seconda guerra mondiale le condizioni di vita nei campi di concentramento destinati non ai nemici catturati in combattimenti, ma alla popolazione civile. L'uso di recludere gli avversari politici era stato praticato nel periodo fra le due guerre da stati totalitari come la Germania nazista e la Russia sovietica, che se ne era servita per elimnare i dissidenti interni o quanti, come i kulaki, si opponevano all'instaurazione di una società comunista. Hitler però estende su vasta scala in quasi tutte le zone controllate dalle sue truppe l'uso dei Lager, cui sono destinati quanti in Germania e nei paesi vinti si oppongono all'instaurazione del "nuovo ordine", gli zingari, gli omosessuali e soprattutto i membri della minoranza ebraica.

Questi in un primo tempo hanno dovuto subire sotto il terzo Reich la privazione dei diritti civili e una serie di umilianti discriminazioni, come l'obbligo di portare come segno distintivo una stella gialla. Molti di essi sono emigrati dalla Germania dopo l'avvento al potere di Hitler, ma parecchi di loro hanno dovuto rinunziarvi perché molte nazioni occidentali non erano disposte ad accettare l'immigrazione di stranieri in gruppi troppo numerosi.

Quando scoppia la guerra - di cui la propaganda nazionalsocialista attribuisce la responsabilità all'influenza dell'"Internazionale ebraica" sui governi di Londra e di Parigi - la situazione degli israeliti sotto il terzo Reich precipita. Gli ebrei che risiedono in Germania e quelli che abitano nei territori occupati vengono rastrellati - spesso su iniziativa o delazione dei gruppi antisemiti locali - e avviati ai Lager, in cui sin dall'inizio la mortalità è altissima sia per lo sfibrante lavoro richiesto, sia per il freddo, si per lo scarso nutrimento, sia per i maltrattamenti inflitti ai reclusi non solo dalle guardie dei campi, ma anche da altri prigionieri - i famigerati kapò - che in cambio di un miglior trattamento fanno da aguzzini ai compagni di sventura. E' però intorno al '42 che la situazione degli ebrei sotto Hitler conosce una svolta tragica. Caduto il disegno iniziale di deportare tutti gli israeliti fuori i confini del Reich (secondo alcuni progetti in Madagascar), si fa sempre più strada presso i leaders nazionasocialisti il proposito di risolvere il "problema ebraico" attraverso una progressiva limitazione della razza. In un primo tempo l'"Istituto per lo studio dei problemi ebraici" progetta la sterilizzazione di tutti i maschi, ma presto il precipitare degli eventi bellici induce Hitler e i suoi diretti collaboratori ad una scelta più aberrante e tragica, compiuta all'insaputa della stragrande maggioranza del popolo tedesco. I campi di concentramento si trasformano così in campi di sterminio e la soluzione finale del problema ebraico si identifica con un immane olocausto.

 

 

All'inizio del 1943 le sorti della guerra sembrano ormai decise; anzi lo sono. La mancata sconfitta della Russia ha impedito a Hitler di fondare un immenso impero euroasiatico in grado di fronteggiare la schiacciante superiorità economico-militare britannica e statunitense. Il Giappone, nel frattempo, non è riuscito, come nelle speranze dei suoi alleati, a tenere a bada le forze americane impedendo che queste appoggino massicciamente gli inglesi. Grazie al predominio aereonavale - presto ristabilito con un massiccio programma di produzione bellica e con l'uso su vasta scala di navi portaerei - gli Usa non hanno infatti disperso le loro forze nella riconquista, atollo per atollo, delle isole occupate dalle forze nipponiche, ma si sono limitati ad avanzare nel Pacifico occupando le basi più importanti, quelle il cui controllo è indispensabile per interrompere le linee di comunicazione nemiche.

Per impedire l'afflusso dei rifornimenti statunitensi, le forze navali dell'Asse, ed in particolare i sottomarini tedeschi, hanno combattuto una vera e propria "battaglia dell'Atlantico"; ma anche in questa lotta dopo il 1942 il terzo Reich risulta perdente. Se prima di quest'anno i sottomarini tedeschi sono riusciti a infliggere al nemico la perdita di oltre 16 milioni e mezzo di tonnellate di naviglio, dal '43 alla fine della guerra solo quattro milioni e mezzo di tonnellate vengono colate a picco, mentre i cantieri delle Nazioni Unite riescono a varare nello stesso periodo imbarcazioni per 31 milioni e mezzo di tonnellate. Se si considera che nel 1943 la produzione bellica in Usa, Inghilterra ed Urss è di tre volte e mezzo superiore a quella dei paesi dell'Asse, e che gli Stati Uniti, le colonie francesi del Nord Africa e i paesi del Commonwealth costituiscono un serbatoio umano pressoché inesauribile, non è difficile capire che la caduta della "fortezza Europa", ovvero dei territori europei posti sotto il dominio di Hitler e dei suoi alleati, è solo una questione di tempo. Ed infatti, sin dal gennaio del 1943, alla conferenza di Casablanca, i leaders delle Nazioni Unite discutono sul modo con cui ottenere nella maniera più rapida e vantaggiosa la resa incondizionata dell'Asse.

Sulla strategia da adottare per raggiungere questo risultato, politici e militari non sono tuttavia concordi. Se per i sovietici non si pongono grossi problemi, vista la necessità di sfondare su un unico fronte terrestre, americani e inglesi si trovano a lungo divisi. I primi, che hanno rinunziato a impegnare il grosso delle proprie forze contro il Giappone per rivolgerle contro la Germania prima che questa vinca l'Urss, vorrebbero regolare subito i conti con Hitler con uno sbarco in Europa, possibilmente in Francia. Ma a questa opinione si oppongono i britannici, convinti che un'operazione di questo tipo, visto l'efficienza e la combattività delle truppe tedesche, potrà essere condotta a termine con successo solo dopo aver fiaccato il morale e la resistenza dei nemici con una lunga serie di bombardamenti strategici.

Delle due, è la tesi di Londra, sostanzialmente, a prevalere. Già nel 1942 la Germania e i territori soggetti al suo dominio sono oggetto di massicci bombardamenti angloamericani. Siccome lo scarso addestramento dei piloti e l'efficacia della contraerea impediscono di colpire con precisione obiettivi militari o industriali (per vario tempo è considerato un successo far cadere gli ordigni ad un raggio di otto chilometri dal bersaglio), prevale la pratica del bombardamento a tappeto contro intere città.

La distruzione delle maggiori città tedesche, le terribili stragi seguìte ai bombardamenti al fosforo di città come Colonia o come Brema (centotrentamila morti, in prevalenza bruciati vivi) fanno il gioco della propaganda hitleriana, così come lo fa la divulgazione del piano Morgenthau, elaborato dagli americani per il futuro della Germania, che prevede per essa un destino di nazione agricolo-pastorale, del tutto priva di grandi industrie. Mentre la politica dei bombardamenti a tappeto contro la "fortezza Europa" non dà i risultati sperati, quando non ne ottiene di opposti, i vertici strategici anglo-americani decidono di passare all'offensiva nel continente attaccando quello che essi considerano, non a torto, il contraente più debole del patto tripartito, vale a dire l'Italia. L'obiettivo non è, ovviamente, arrivare a Berlino passando per la Sicilia; ma provocare il collasso del regime fascista e comunque obbligare la Germania a disperdere forze nella difesa dell'alleato, costringendola a sguarnire le sue posizioni in Francia e nell'Europa del nord. Stalin d'altro canto chiedeva insistentemente e con impazienza la creazione di quel secondo fronte che avrebbe alleggerito il peso di una guerra che gravava principalmente sull'Armata rossa. Gli inglesi, in particolare, erano infatti favorevoli alla strategia delle "azioni indirette", cioé ad attacchi periferici attraverso la Norvegia e soprattutto i Balcani per colpire la Germania nel "ventre molle" dell'Europa meridionale, in modo da assicurarsi il controllo della penisola balcanica prima dell'arrivo dei sovietici. Invece Roosevelt e gli americani, che volevano concludere al più presto possibile la guerra in occidente per poi liquidare il Giappone, intendevano portare l'attacco al cuore stesso dell'Asse, con una operazione diversiva in Italia e l'apertura del vero secondo fronte attraverso uno sbarco in forze sulle coste atlantiche della Francia.

 

L'Italia è facilmente raggiungibile dopo la conquista dell'intera Africa settentrionale da parte delle Nazioni Unite. Ma è soprattutto sotto il profilo del consenso interno che il regime fascista è vulnerabile. La perdita dell'Africa orientale e della Libia, l'esito disastroso della campagna di Grecia, i clamorosi scacchi subìti dalla marina nella lotta contro gli inglesi, le frequenti umiliazioni dei nostri soldati rispetto ai meglio armati e più efficienti reparti tedeschi, persino i primi seri bombardamenti, che rivelano l'inefficienza dei sistemi di difesa contraerea, hanno diffuso nel paese un clima di insofferenza o comunque di scetticismo nei confronti del regime fascista e con esso di Mussolini, primo responsabile dell'entrata in guerra. Questo clima non coinvolge solo i ceti popolari e proletari, tradizionalmente meno permeabili alla propaganda di regime, ma si estende anche a vaste fasce del ceto medio.

Questo, penalizzato economicamente dal conflitto e in prevalenza ostile, anche per la sua cultura classicistica imbevuta da ricordi risorgimentali, all'alleanza con la Germania, è in molti casi infastidito dagli atteggiamenti populistici della propaganda di regime, che nel corso del conflitto ha accentuato i suoi toni demagogicamente antiborghesi. Mentre l'incapacità delle gerarchie fasciste ad imporre una rigorosa disciplina di guerra, evitando speculazioni e stroncando il mercato nero dei generi alimentari, accresce l'insofferenza popolare e le mormorazioni contro il regime, anche le forze che tradizionalmente l'hanno appoggiato incominciano a prendere le distanze da Mussolini. E mentre il Vaticano, sia pur con le necessarie cautele, punta ormai su una vittoria delle Nazioni Unite, la monarchia appare più persuasa della necessità di "riprendere la propria libertà d'azione", a spese del fascismo e del suo "duce".

Lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, il 10 luglio del 1943, conduce la crisi del regime all'esasperazione. La rapida invasione dell'isola e la caduta di Palermo, insieme ad una serie di massicci bombardamenti su Napoli e sulla capitale, inducono la maggioranza dei gerarchi fascisti a prendere atto della crescente sfiducia del paese.

Immediato fu il contraccolpo della riuscita operazione sul regime di Mussolini. La condotta della guerra aveva infatti dimostrato la tragica impotenza del fascismo, che aveva portato il paese alla sconfitta, ai lutti provocati dai bombardamenti aerei alleati, alla fame (nell'autunno del 1941 nel quadro del razionamento era stata introdotta la tessera del pane, che ne garantiva solo 200 grammi al giorno, ridotti poi a 150).

Le basi di massa del regime si andarono così disgregando, con una inarrestabile crisi di fiducia e una perdita di consensi sia nelle campagne, ostili agli ammassi e alle requisizioni dei prodotti agricoli, che nelle città. Nei centri industriali del nord, e soprattutto a Torino, si ebbero così nel marzo 1943 massicci scioperi in cui, per iniziativa dei pochi ma attivissimi militanti comunisti, accanto alla richiesta di aumenti salariali si fece sentire anche quella di por fine alla guerra.

In una situazione sempre più grave, la monarchia, che aveva cominciato a prendere le distanze dal fascismo, nel tentativo di separare le sue responsabilità da quelle del regime, preparò, con l'appoggio dei più influenti circoli militari e finanziari, una manovra di sganciamento da Mussolini, nella prospettiva di torgliergli il potere e di chiedere una pace separata. Si organizzò in tal modo una congiura di Corte , il cui successo fu favorito dalla fronda antimussoliniana che si era formata all'interno delle alte gerarchie del fascismo per trovare una via d'uscita.

Nella seduta del Gran Consiglio tenutasi nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 gli oppositori di Mussolini - tra i quali Giuseppe Bottai e Ciano, che nel 1943 aveva lasciato il Ministero degli esteri per divenire ambasciatore presso la Santa Sede - riuscirono così a far approvare a maggioranza un ordine del giorno presentato da Dino Grandi (ex ambasciatore a Londra) : un documento che invitava il re ad "assumere il comando delle forze armate e la pienezza dei suoi poteri costituzionali" e che suonava come una mozione di sfiducia nei confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio il "cavalier Benito Mussolini", convocato da Vittorio Emanuele III per un colloquio, venne arrestato dai carabinieri e portato nell'isola di Ponza e poi al Gran Sasso. La sera di quello stesso giorno gli italiani apprendevano dalla radio che il fascismo era caduto e che avevano un nuovo ministero presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, il quale nei suoi proclami si presentava come un governo di militari e di tecnici, con pieni poteri, e affermava di voler continuare la guerra a fianco della Germania. Un gioco col quale i gerarchi credevano di salvare il fascismo sacrificando Mussolini, il re sperava di salvare la monarchia sacrificando il fascismo ed ora il popolo italiano sperava di salvare se stesso sacrificando l'alleanza con la Germania.

Il regime era però caduto ingloriosamente non per una sollevazione di popolo ma per la sua intima debolezza e per l'iniziativa regia; e quindi la corona e i militari conservarono il controllo della situazione e repressero con la forza le manifestazioni contro il proseguimento della guerra (nei cosiddetti "quarantacinque giorni", il periodo tra il 25 luglio e l'armistizio, furono uccisi quasi cento manifestanti).

Il governo Badoglio sciolse il Partito fascista, ma mantenne la censura della stampa, non rese legali i partiti antifascisti e tardò a liberare le migliaia di detenuti politici, di cui 80 % era composto da comunisti. La ripresa delle forze politiche democratiche diede vita alla formazione di comitati unitari che chiedevano la liquidazione completa del fascismo, la costituzione di un governo formato dai rappresentanti di tutti i partiti animati da "volontà d'azione nazionale", e la conclusione di una pace onorevole.

Nell'agosto il governo Badoglio aprì sia pure tardivamente le trattative con gli Alleati per porre fine alle ostilità, mentre i tedeschi, che avevano compreso le intenzioni italiane, facevano affluire otto nuove divisioni nella penisola assumendone di fatto il controllo. Il 3 settembre a Cassibile (Sicilia) fu così firmato un armistizio, il quale prevedeva la resa incondizionata delle forze armate italiane e l'introduzione della giurisdizione di un'amministrazione alleata su tutto il paese

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L'annuncio dell'armistizio, dato per radio da Pietro Badoglio l'8 settembre, mentre le truppe alleate, già sbarcate in Calabria, prendevano terra anche a Salerno, provocò lo sbandamento di quasi tutte le unità italiane nella penisola, in Francia e nei Balcani. Il re e Badoglio, sui quali ricadevano pesanti responsabilità perché avevano pensato più alla propria sicurezza personale che alla preparazione di una difesa contro la prevedibile reazione tedesca, si misero in salvo per mare riparando in Puglia dietro le linee alleate, mentre la flotta riusciva a raggiungere Malta.

I soldati delle forze di terra, privi di direttive, cercarono dove era possibile di non finire nelle mani degli ex alleati e di far ritorno nelle loro case; ma la maggior parte di essi, circa 600.000, furono catturati e deportati in Germania, mentre i tedeschi assumevano il controllo di tutti i territori non liberati dagli anglo-americani. Tuttavia in Iugoslavia e in Grecia migliaia di soldati si unirono ai locali movimenti partigiani; e nell'isola greca di Cefalonia gli 11OOO della divisione "Acqui" rifiutarono di lasciarsi disarmare e vennero in parte passati per le armi dai tedeschi dopo un'eroica difesa.

Accanto alla guerra sostenuta dagli eserciti regolari dei due campi si svolse un'altra guerra combattuta nell'ombra, quella dei popoli dei paesi vinti che insorgevano, nonostante la enorme disparità di forze, contro gli occupanti. Fu questa la "Resistenza", 

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uno dei fenomeni più significativi degli anni di guerra che, al di là delle varietà delle forme assunte a seconda delle specifiche situazioni nazionali, ebbe l'obiettivo comune di contribuire a sconfiggere il "nuovo ordine" nazifascista e i governi o i movimenti collaborazionisti, assumendo quindi talora il carattere di guerra civile.

Ribellione morale e guerriglia partigiana - Nata dapprima come ribellione morale personale , la Resistenza conobbe poi un processo di aggregazione, grazie anche all'azione delle forze politiche clandestine e alle speranze suscitate dall'andamento generale del conflitto, che riducevano gli spazi dell'attendismo. Gli individui e i piccoli gruppi decisi a resistere presero così a strutturarsi in organizzazioni via via più articolate, che coordinarono gli attentati e i sabotaggi, gli scioperi, le manifestazioni, la diffusione della stampa clandestina, coinvolgendo ampi strati delle popolazioni urbane e rurali.

La Resistenza sboccò infine nella lotta armata , condotta con i metodi della guerriglia, della guerra partigiana "per bande" in montagna e nelle campagne e alimentata da ex militari, giovani volontari, renitenti alla leva o al servizio del lavoro e prigionieri evasi: una guerra che non impegnava l'avversario in decisive battaglie frontali ma lo logorava evitando lo scontro quando la minaccia era troppo forte, accendendo focolai sempre nuovi.

Alla Resistenza gli occupanti risposero con il terrore, ricorrendo ad esecuzioni sommarie, torture, distruzioni: come avvenne nel villaggio cecoslovacco di Lidice, raso al suolo nel giugno 1943 dalle SS come rappresaglia per l'attentato in cui era rimasto ucciso un alto funzionario nazista (192 fucilazioni), e in quello di Marzabotto, un centro del bolognese dove nel settembre-ottobre 1944 i tedeschi trucidarono 1836 civili.

Un clima di proficua collaborazione tra i comunisti e gli altri movimenti antifascisti , facilitata dallo scioglimento della Terza Internazionale , (15 maggio 1943), fu una decisione presa da Stalin per ridurre il sospetto di una troppo stretta dipendenza da Mosca dei partiti comunisti e per agevolare così l'unità della lotta.

 

Dopo l'armistizio l'Italia, sconvolta dalla guerra e provata dalle privazioni, restò divisa in due dalla linea del fronte. Gli Alleati, che il 9 settembre 1943 erano sbarcati a Salerno, il 1° ottobre entrarono a Napoli, già liberata da una generosa e spontanea insurrezione popolare ( le "quattro giornate di Napoli", 25-28 settembre). Ma gli anglo-americani, impegnati nella preparazione dello sbarco in Francia, consideravano quello italiano un settore secondario, e vi impegnarono quindi forze limitate. Per questo la loro risalita nella penisola, contrastata validamente dalle divisioni tedesche e del generale Albert Kesselring, fu assai lenta e si arrestò a lungo dapprima davanti alla "linea Gustav" e poi, dopo la liberazione di Roma (5 giugno 1944), davanti alla "linea gotica".

Nell'Italia meridionale, la disgregazione del tessuto sociale rendeva particolarmente dure le condizioni di esistenza dei ceti più umili, animati solo dalla speranza di tempi migliori: "Ha da passa' a' nuttata", così il grande drammaturgo Eduardo De Filippo sintetizzava la psicologia di massa nella chiusa di un suo lavoro teatrale dedicato alla Napoli di quegli anni. In questo "Regno del sud", condizionato dalla occupazione alleata, il governo Badoglio il 13 ottobre 1943 dichiarò guerra alla Germania , nella speranza di conseguire migliori condizioni di pace, e ottenne per l'Italia lo status di "cobelligerante"; mentre invece le forze antifasciste, riunite in congresso a Bari (gennaio 1944), rifiutavano di collaborare con il governo e chiedevano l'allontanamento dal potere dei Savoia, compromessi con il fascismo.

Gli inglesi erano però intenzionati a conservare la monarchia; e la vita politica si isterilì quindi in un contrasto sulla questione istituzionale senza apparenti prospettive.

La situazione si sbloccò con l'arrivo dall'URSS di Palmiro Togliatti, il segretario del Partito comunista italiano, sbarcato a Napoli alla fine del marzo 1944 dopo un lungo esilio. Questi riuscì infatti a fare accettare dalle altre forze antifasciste la sua proposta di accantonare i dissensi sino alla fine della guerra e di concentrare tutte le energie nella lotta di liberazione, rimandando ai tempi di pace la soluzione della questione istituzionale e consentendo la formazione a Salerno di un nuovo governo Badoglio di cui entrarono a far parte esponenti dei partiti antifascisti (22 aprile 1944).

Il governo di coalizione Bonomi - Dopo la costituzione del ministero del governo Badoglio, i poteri reali al momento della liberazione di Roma furono trasferiti da Vittorio Emanuele III al figlio, il principe ereditario Umberto. Subito dopo il re si ritirò a vita privata e venne costituita una Luogotenenza del regno affidata a Umberto, mentre si formava un nuovo governo di coalizione dei partiti antifascisti presieduto da Ivanoe Bonomi (già presidente del Consiglio nel 1921-22), che ebbe però una limitata capacità d'azione per la virtuale tutela cui era sottoposto dagli Alleati.

In questi stessi mesi avevano intanto rafforzato la loro attività e la loro presenza organizzata i partiti che si riallacciavano alle forze e ai gruppi antifascisti rimasti in vita durante il ventennio (sotterraneamente nell'interno e in forma palese nell'emigrazione) e che operavano legalmente nel Regno del sud e clandestinamente nell'Italia occupata dai tedeschi. Tra di essi si andava guadagnando un largo seguito la Democrazia Cristiana - fondata nel settembre 1942 a Milano per iniziativa di alcuni dirigenti del vecchio Partito popolare e di esponenti delle più giovani leve cattoliche - guidata da un uomo di notevole statura politica, Alcide De Gasperi, l'ultimo segretario del Partito popolare di Sturzo, alle cui tradizioni la nuova organizzazione intendeva rifarsi.

Altri partiti di largo seguito, specie tra la classe operaia, erano il Partito socialista, erede di una lunga e spesso gloriosa tradizione di lotte, e il Partito comunista, l'unico che avesse a lungo conservato una sua struttura all'interno del paese e che si giovava indirettamente del prestigio acquistatosi dall'Unione Sovietica con le sue vittorie nella guerra.

Il quadro era completato dal Partito liberale e dalla Democrazia del lavoro, che si rifacevano al liberismo costituzionale prefascista, e dal Partito repubblicano. Una novità nel panorama politico italiano era il Partito d'azione, sorto nel 1942 per iniziativa di ex militanti di Giustizia e libertà e di repubblicani di sinistra, erede della tradizione del socialismo liberale di Carlo Rosselli e del programma di "rivoluzione liberale" di Piero Gobetti.

I partiti di cui si é detto - a esclusione dei repubblicani - avevano dato vita a Roma, già il 9 settembre 1943, al Comitato di liberazione nazionale (CLN), che chiamò subito gli italiani alla lotta contro i tedeschi e al quale si affiancarono presto nel paese organismi analoghi su base regionale, provinciale e locale, che nell'Italia occupata guidarono la Resistenza.

La Repubblica sociale italiana - La Resistenza dovette non soltanto impegnarsi contro i tedeschi ma fu costretta anche a combattere una vera e propria guerra civile contro la Repubblica sociale italiana (RSI), lo Stato sorto nei territori occupati dalla Germania dopo l'8 settembre 1943 e del quale fu posto a capo Mussolini, liberato da paracadutisti germanici il 12 settembre e portato nel nord. Grazie all'appoggio della Germania hitleriana Mussolini poté così costituire un nuovo Partito fascista repubblicano e stabilire un suo governo a Salò, sul lago di Garda.

La RSI si richiamò alla demagogia socialistoide del fascismo delle origini , e varò un programma che prevedeva un'avanzata legislazione del lavoro e la socializzazione delle imprese di interesse pubblico. Ma queste misure rimasero sulla carta, e il fascismo repubblicano non riuscì a crearsi né un consenso né una base di massa, anche se esso fu in grado di attirare a sé gruppi di giovani che in buona fede sentivano il peso di un supposto tradimento verso l'alleato tedesco e vivevano l'armistizio come una lesione dell'onore nazionale.

Così pure scarso successo ebbero i tentativi della RSI di convincere i prigionieri italiani in Germania a entrare nell'esercito messo in piedi dal maresciallo Graziani, i cui reparti furono utilizzati quasi esclusivamente contro i partigiani. Una particolare determinazione il fascismo di Salò dimostrò poi contro gli ebrei e contro i "traditori" del 25 luglio, con l'episodio del clamoroso processo di Verona (gennaio 1944), che mandò a morte Ciano, De Bono e altri gerarchi che avevano sostenuto l'ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio.

 

Sul piano militare la Resistenza italiana, superata la prima fase dello spontaneo raggruppamento di sbandati dell'esercito regio dopo l'8 settembre, si strutturò in formazioni partigiane agili e snelle , bande, brigate, e poi divisioni, motivate da un profondo sentimento antifascista e spesso omogenee dal punto di vista politico, come quelle Garibaldi, di orientamento comunista (le più numerose e attive), quelle di Giustizia e libertà, legate al Partito d'azione, le Matteotti, di ispirazione socialista, e le Fiamme verdi, democratiche cristiane. Per rafforzare il movimento alla metà del 1944 venne costituito un comando generale del Corpo volontari della libertà (CVL), designato dal Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia (CLNAI) e diretto dal generale Raffaele Cadorna, affiancato da due esponenti delle formazioni più forti, il comunista Luigi Longhi e l'azionista Ferruccio Parri.

I partigiani italiani erano al momento della liberazione finale circa 250000, e quindi la "partigiania" fu un movimento di minoranze, che ebbe però la simpatia della maggior parte delle popolazioni. Le formazioni partigiane, composte soprattutto di operai e lavoratori, operarono prevalentemente nelle montagne e nelle campagne, dove ebbero assai spesso l'appoggio dei contadini, che non rimasero sordi o estranei al "secondo Risorgimento" - così é stata chiamata la Resistenza - come lo erano invece stati al primo. La guerriglia partigiana, fatta di mobilità, di rapidità nell'attacco e di prontezza nello sganciamento, saldò inoltre la sua azione alla lotta condotta nelle città dai Gruppi di azione partigiana (GAP) e dalle Squadre d'azione patriottica (SAP) con sabotaggi e attentati, che venne appoggiata anche da grandi scioperi dei lavoratori dell'industria, come quelli del marzo 1944 e della primavera del 1945, testimonianza del crescente isolamento della RSI. E l'azione della Resistenza acquistò una ampiezza tale da rendere possibile la costituzione in alcune zone dell'Italia del nord (Val d'Ossola, Langhe) di vere e proprie repubbliche partigiane, che si sostennero più o meno a lungo sulla base dell'autogoverno popolare.

La Resistenza subì perdite dolorose (circa 36000 furono i partigiani caduti e giustiziati, e 10000 i civili uccisi per rappresaglia), e attraverso momenti assai gravi, come quello dell'inverno 1944-45, quando lo stesso comandante in capo alleato, generale Harold R. Alexander, invitò i partigiani a una sostanziale smobilitazione, che la grande maggioranza delle formazioni si rifiutò di eseguire.

In un primo tempo le azioni dei partigiani presentano un valore, più che militare, dimostrativo e politico, rompendo il clima di acquiescenza nei confronti dell'occupante tedesco e del risorto stato fascista che caratterizza in molti casi le popolazioni civili. Al nord si registra, sin dal '43, una serie di attentati ad esponenti fascisti di primo e di secondo piano, cui segue una serie di rappresaglie destinate a segnare l'inizio della guerra civile. A Roma, dichiarata dai comandi militari tedeschi e alleati "città aperta" - cioé esclusa dai combattimenti -, un " Gruppo di azione patriottica" provoca in Via Rasella con un ordigno esplosivo la morte di 32 soldati altoatesini, incorporati dopo l'8 settembre nella Wehrmacht, e di sette passanti. La reazione tedesca è spietata, superiore nella sua furia alle già crudeli leggi della rappresaglia. All'alba del 24 marzo 1944 nelle Fosse Ardeatine vengono fucilati 335 ostaggi, scelti in molti casi alla rinfusa fra i partigiani di "Giustizia e libertà", militari antifascisti, delinquenti comuni e israeliti. L'atto finale della Resistenza fu l'insurrezione generale dell'Italia settentrionale iniziata il 25 aprile 1945, che liberò le città del nord prima dell'arrivo delle forze alleate e impedì la distruzione degli impianti industriali.

Quando ormai, nell'aprile del '45, i russi si sono aperti un varco nella capitale germanica ed ogni speranza di pace separata si è rivelata illusoria, le truppe tedesche in Italia abbandonano la linea gotica e le forze anglo-statunitensi dilagano nella pianura padana. Le formazioni partigiane liberano le principali città, mentre i tedeschi ripiegano disordinatamente verso le Alpi e quel che resta dell'esercito e delle milizie di Salò, abbandonano l'ultimo disegno di un'estrema difesa in Valtellina, cerca scampo nella resa o nella fuga. Cerca scampo nella fuga anche Mussolini, che però viene sorpreso da un gruppo di partigiani presso Dongo, confuso in un gruppo di soldati tedeschi. Trasferito a Milano, il dittatore fascista viene fucilato il 28 aprile, insieme alla sua amante Claretta Petacci e ad un gruppo di gerarchi; i loro cadaveri sono trasferiti a Milano, a piazzale Loreto, per essere esposti al ludibrio della folla.

 

 

 

Iniziata nel luglio del '43, la campagna d'Italia si protrae per quasi due anni. Questa esasperante lentezza non è dovuta solo all'accanita resistenza tedesca, alle caratteristiche geografiche della penisola, poco adatta ad una guerra di movimento, ed alle scelte strategiche dei comandi anglo-americani, che prima di mettere a repentaglio la vita dei propri uomini in un'avanzata, preferiscono martellare le posizioni e le infrastrutture nemiche con massicci bombardamenti terrestri e aerei. Il motivo principale è che l'Italia viene considerata un fronte secondario e che distoglie solo le forze tedesche.

Nel 1944, infatti gli alleati ritengono i tempi maturi per effettuare un nuovo sbarco sul continente, che consenta di porre termine in tempi brevi alla resistenza tedesca. Anche in questo caso, i contrasti fra gli inglesi e gli statunitensi non mancano. Il leader britannico Churchill sarebbe favorevole ad un'operazione nei Balcani. A dettare tale scelta è soprattutto la preoccupazione di impedire che le truppe dell'armata rossa, dilagando uniche vincitrici in tutta l'Europa centro-orientale, approfittino della loro presenza armata per imporre o per favorire l'instaurazione di regimi di tipo comunista. Il leader statunitense Roosevelt, persuaso della possibilità di intrattenere leali e corretti rapporti con Stalin, esige invece che lo sbarco si faccia in Francia ed infatti il 6 giugno 1944 scatta l'"operazione Overlod". Le truppe anglo-americane sbarcano sulle spiagge della Normandia e risalgono la Francia sino a Parigi, che, insorta nel frattempo, vede entrare il 25 agosto 1944 le truppe del generale De Gaulle, leader incontestato della resistenza. Superata, dopo molte difficoltà, una massiccia controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati si spingono sempre di più nel territorio del Reich, in una faticosa avanzata che è anche una gara di velocità per raggiungere le capitale tedesca prima dell'armata rossa.

 

Anche la Germania nazionalsocialista, stretta in una morsa di acciaio ad est e ad ovest, soggetta ormai agli incontrastati bombardamenti anglo-americani, abbandonata dai suoi alleati rumeni, finlandesi, bulgari e ungheresi, ha i giorni contati. Mentre si stava facendo sempre più massiccia la pressione sovietica ai confini orientali, un nucleo di alti ufficiali e aristocratici ha tentato l'ultima carta possibile: eliminare Hitler e stipulare una pace separata con gli inglesi e gli americani, diffidenti, almeno i primi, dell'espansionismo russo nell'Europa dell'est. Ma l'attentato al Fuhrer (20 luglio 1944) fallisce: miracolosamente scampato, Hitler fa impiccare con ganci da macellaio i responsabili e i sospetti della congiura, impone il saluto nazista alla Wehrmacht e la mobilitazione totale all'intero paese, uomini e donne, dai quindici ai sessant'anni di età. Ma per cambiare le sorti del conflitto ci vorrebbe un miracolo, e neppure le temibili V2 - i razzi esplosivi a lunga gittata usciti dai cantieri tedeschi - sono sufficienti a salvare la Germania hitleriana dal suo destino.

Dopo la perdita di Varsavia - insorta senza ottenere l'aiuto dell'armata rossa - e dell'intera Polonia, i tedeschi abbandonano la linea di difesa sulla Vistola lasciando il campo all'avanzata dei sovietici, che il 20 febbraio 1945 giungono ad appena cinquanta chilometri da Berlino. Enormi masse di profughi dalle regioni cadute sotto il controllo russo si precipitano in quel che resta del Reich, mentre nella conferenza di Yalta, in Crimea, Roosevelt, Churchill e Stalin si incontrano per accordarsi sul futuro assetto del continente europeo, e le prime avanguardie americane varcano il Reno avanzando, divise in due colonne, verso Amburgo e Monaco.

Una fine più dignitosa spetta al dittatore nazionalsocialista, rimasto ad attendere la sorte nella capitale tedesca assediata dai sovietici e difesa sino all'ultimo da reparti di SS, in prevalenza stranieri, e da una milizia popolare composta da anziani e da adolescenti. Pochi minuti prima che i russi penetrino nel suo Bunker, Hitler si uccide insieme all'amante Eva Braun, lasciando ai fedeli l'ingrata necessità di firmare - il 7 maggio 1945 - la resa incondizionata. Ventiquattr'ore dopo, l'8 maggio, gli anglo-americani possono celebrare il giorno della vittoria. Ma l'entusiasmo per la caduta del fascismo è temperato sia dagli incipienti contrasti con la Russia sovietica circa gli equilibri politici nell'Europa orientale, sia dal perdurare del conflitto col Giappone. Sconfitto a più riprese, privato dalle Filippine e dell'isola di Okinawa, sottoposto a spaventosi bombardamenti aerei, l'impero del Sol Levante continua infatti a resistere, forte anche del fanatismo dei suoi soldati, fra cui non mancano i kamikaze: aviatori volontari disposti a lanciarsi alla guida di aerei carichi di esplosivo sulle imbarcazioni nemiche. In caso di invasione delle isole nipponiche, tutto lascia prevedere una resistenza ad oltranza che potrebbe costare agli statunitensi la perdita di mezzo milione di vite umane.

Indotto anche da queste considerazioni, Harry Truman, il nuovo presidente degli Usa dopo l'improvvisa morte di Roosevelt, prende la decisione di utilizzare contro il Giappone un'arma senza precedenti nella storia: la bomba atomica, approntata negli Stati Uniti da un équipe di scienziati diretta dal fisico Robert J. Oppenheimer e di cui fa parte anche l'italiano Enrico Fermi, espatriato negli Usa, insieme alla moglie ebrea, dopo la promulgazione delle leggi razziali. Il 6 ed il 9 agosto del 1945 due di questi ordigni vengono sganciati da bombardieri americani sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. I morti accertati sono oltre 170.000; non più di quelli provocati dai precedenti bombardamenti di Tokyo, con terribili bombe incendiarie al napalm, ma assai meno di quanto potrebbe provocarne un'applicazione dell'atomica su vasta scala. Mentre l'imperatore Hirohito ed i suoi generali sono costretti ad accettare la pace, il mondo intero si interroga sulle caratteristiche della nuova arma, sull'opportunità e sulla legittimità stessa del suo impiego. Pare a molti un sinistro presagio che la seconda guerra mondiale si sia conclusa mostrando al mondo con quali micidiali e mostruosi strumenti di morte potrebbe essere combattuta la terza.

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