Palestina, Israele: due popoli.
Sin dalla fine dell’800 molti Ebrei, che condividevano le idee del sionismo, emigrarono verso la Palestina, tanto che, quando la regione venne assegnata come mandato all’Inghilterra (1923), si affacciò il progetto, rimasto allora irrealizzato, di costituire il focolare ebraico previsto dalla Dichiarazione di Balfour . Negli anni Trenta e dopo la seconda guerra mondiale, l’immigrazione degli Ebrei scampati e sopravvissuti alle persecuzioni naziste e al genocidio si fece più intensa, determinando la crescente ostilità dei Palestinesi, che dal 1947 condussero contro i nuovi venuti una vera e propria guerriglia. Nel maggio del 1948 gli Inglesi, impotenti a sedare le tensioni locali, si ritirarono dalla Palestina, e gli Ebrei, in esecuzione di un deliberato dell’ONU (29 novembre 1947), proclamarono la Repubblica d’Israele (14 maggio 1948). |
Arthur James Balfour, ministro degli Esteri inglese, che il 2 Novembre 1917, in una Dichiarazione, nota appunto come dichiarazione di Balfour, affermò il diritto degli Ebrei a costituire una sede nazionale (national home ) in Palestina, salvo il rispetto dovuto alle popolazioni non ebree, già insediate in quel paese |
Immediatamente aggrediti da truppe arabe provenienti dalla Siria, dal Libano, dall’lrak, dalla Transgiordania (detta semplicemente Giordania dopo l’annessione della Cisgiordania), ma soprattutto dall’Egitto, gli Israeliani respinsero il molteplice attacco, anzi passarono alla controffensiva e riportarono sui nemici una schiacciante vittoria, conquistando il controllo anche di regioni non comprese nel territorio loro assegnato dall’ONU, quali la Galilea, a nord, e il Negev, a sud. All’Egitto — secondo gli accordi armistiziali di Rodi (febbraio—luglio 1949) —fu annessa invece la Striscia di Gaza, e alla Giordania toccarono la West Bank (la "riva occidentale" del Giordano, detta Cisgiordania e il settore orientale di Gerusalemme, che comprende sia il Muro del Pianto, unico resto del Secondo Tempio, sacro alla religione ebraica, sia la prospiciente spianata delle moschee, terzo luogo santo dell’islam dopo la Mecca e Medina. |
L’esito del primo conflitto arabo-israeliano ebbe sulla popolazione araba di Palestina un effetto devastante: ben 750000 Palestinesi, dei circa 1 500000 insediati in Israele, fuggirono negli Stati arabi limitrofi, ammassandosi in enormi campi profughi, insediati soprattutto in Giordania, Libano, Siria e nella Striscia di Gaza, mentre ai 690 000 Palestinesi che non emigrarono fu offerta da Tel Aviv la cittadinanza israeliana. Per i dirigenti d’Israele l’esodo di centinaia di migliaia di Palestinesi verso i paesi vicini era in un certo senso vantaggioso, in quanto consentiva di mantenere alla Repubblica il carattere ebraico rafforzato dall’immigrazione di intere comunità ebraiche provenienti da tutto il mondo e soprattutto dai paesi arabi ostili. L’immigrazione, ovviamente, venne favorita, nel corso degli anni, mediante il trasporto organizzato di migliaia di persone: così, per esempio, l’Operazione Tappeto Volante trasportò in Israele l’intera comunità ebraica insediata nello Yemen, e l’Operazione Salomone evacuò dall’Etiopia i Falascià (cioè gli Ebrei etiopi). Mentre Israele era impegnato nello sforzo di accogliere e di integrare le ondate di immigrati ebrei provenienti da tutto il mondo, la vita dei profughi palestinesi nei campi disseminati nei vari paesi arabi era assai difficile e grama, anche perché, nonostante la sempre ribadita fratellanza araba, i paesi costretti ad ospitarli non li trattavano con particolari riguardi, anzi li consideravano un peso assai grave per l’economia, e un pericolo per la sicurezza interna. |
Sul Medio Oriente, che è fra le regioni del pianeta più ricche di petrolio, si sono appuntate da oltre un secolo le aspirazioni concorrenti delle grandi potenze e, in tempi più recenti, le mire di dominio sia delle minori potenze regionali, sia dell’URSS (prima che sì dissolvesse) e degli Stati Uniti. Al groviglio di problemi suscitati dallo scontro degli interessi economici si aggiunse, dopo la seconda guerra mondiale, il fatto che nel Medio Oriente maturò una vera e propria rivoluzione, politica, sociale, economica, destinata a proiettare le proprie conseguenze anche oltre i limiti del XX secolo. |
![]() Campo di rifugiati Palestinesi in Libano (1990) |
Caratteristiche di tale rivoluzione furono la forte crescita demografica, l’abbandono progressivo delle campagne, lo sviluppo caotico delle città, e soprattutto l’avvento al potere di classi nuove, formatesi durante il processo di ammodernamento determinato dall’incontro-scontro del mondo arabo con l’Europa e con l’Occidente. In politica, ai notabili di un tempo — grandi latifondisti o potenti mercanti — succedettero infatti i militari, le giovani élites urbane e gli alti gradi della burocrazia, legati al controllo dell’apparato statale. Lo Stato, che nella sua forma moderna gli Arabi importarono letteralmente dall’Europa, divenne lo strumento attraverso il quale queste nuove classi dominarono la politica, l’economia e la società, indipendentemente dalle ideologie adottate per giustificare tale dominio. |
Laboratorio e modello di questa rivoluzione fu l’Egitto di Jamal Abd al-Nasir, più noto in Occidente come Nasser (1918-1970): infatti l’esempio egiziano, grazie anche al carisma personale dello stesso Nasser, venne a lungo seguito e imitato da molti Stati arabi. La bruciante sconfitta subita dall’Egitto nella guerra del 1948 contro Israele determinò la crisi irreversibile del regime corrotto, inefficiente e infeudato agli Inglesi che faceva capo a Re Faruk. Il 23 luglio del 1952, pertanto, i cosiddetti Liberi Ufficiali, facendosi interpreti del crescente malcontento nazionale, deposero il sovrano e proclamarono la repubblica (giugno 1953), della quale — dopo la breve presidenza di Mohammed Neghib — divenne capo indiscusso uno dei più prestigiosi leader del golpe rivoluzionario: appunto il colonnello Nasser. |
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Deciso a salvaguardare la piena indipendenza dell’Egitto, questi concluse con l’Inghilterra un accordo, per il quale gli Inglesi si impegnavano a sgombrare il Canale di Suez, a patto che l’Egitto chiedesse il loro aiuto qualora s’affacciasse una minaccia di aggressione militare esterna. In forma molto attenuata, l’Inghilterra mirava in questo modo a conservare una specie di protettorato sull’Egitto. Ma i propositi di Nasser volgevano in tutt’altra direzione. Mediante il colpo di stato, i gradi intermedi dell’esercito, cioè i Liberi Ufficiali avevano voluto, in primo luogo, togliere di mezzo Faruk, considerato massimo responsabile della sconfitta subita nel ‘48; in secondo luogo riscattare l’orgoglio arabo, umiliato dalla dominazione europea e dal sionismo che gli Arabi consideravano creatura e conseguenza di quella dominazione. I Liberi Ufficiali, in altre parole, interpretavano lo spirito di ribellione che già si era più volte manifestato nelle agitazioni del Cairo e nella guerriglia contro le basi militari inglesi insediate lungo il Canale di Suez. Nel giro di tre anni, sotto la guida di Nasser, essi smantellarono quindi tutti i pilastri del vecchio sistema, Professionisti e ufficiali (che oggi chiameremmo i ‘tecnocrati’) sostituirono i notabili al vertice e nell’amministrazione della Repubblica; e nel ‘55 l’esercito egiziano assunse direttamente il compito di difendere il Canale di Suez subentrando alle truppe inglesi. |
Tutto questo fu fatto in nome del nazionalismo arabo e del panarabismo suo corollario: cioè in nome di nuove ideologie, che non si rifacevano al "glorioso passato islamico" ma si proclamavano radicalmente laiche. Il nazionalismo arabo già nel periodo compreso fra le due guerre mondiali aveva ispirato le rivolte contro le potenze mandatarie (Inghilterra e Francia), ma diventò una vera e propria ideologia di stato, sia in Egitto sia in Siria, Irak e Algeria, soltanto dopo il golpe dei Liberi Ufficiali, e ovviamente si propose di emancipare i popoli arabi da tutte le forme di dominazione straniera, di unirli sempre più strettamente fra di loro, come voleva appunto il panarabismo, e di attuare in ogni stato riforme sociali ed economiche ispirate a una maggiore eguaglianza sociale e al progresso. Tanto che si parlò, a questo proposito, di una sorta di socialismo arabo. La rivoluzione di Nasser si manifestò nella politica estera con atti di sfida all’ordine tradizionale, entusiasticamente approvati dalle masse arabe. Nel 1955 il leader egiziano, col presidente indiano Nehru, col ministro degli esteri cinese Chou Enlai e con i rappresentanti di altri paesi asiatici e africani, svolse una parte molto significativa in una prima Conferenza dei Non-Allineati, convocata a Bandung dal presidente indonesiano Sukarno, durante la quale tutti i partecipanti espressero la volontà di lottare contro ogni forma di oppressione politica, militare ed economica esterna, rivendicando il diritto di ogni popolo alla libera scelta del proprio destino. Era poi cosa nota che l’Egitto appoggiava attivamente la guerra di liberazione algerina, iniziata nel 54, e aveva assunto la guida del fronte arabo ostile al Patto di Baghdad firmato nel febbraio del ‘55 da Turchia, Jrak — e in un secondo tempo da Gran Bretagna, Iran e Pakistan — in funzione anti-sovietica (e per conservare il controllo dell’Occidente sui giacimenti petroliferi iraniani e iracheni). Queste posizioni di Nasser, aggiunte ai continui attacchi verbali contro Israele, "il nemico sionista", avevano indotto l’Europa occidentale e gli Stati Uniti a rifiutarsi di vendere armi all’Egitto e a negargli i finanziamenti necessari alla costruzione della progettata diga di Assuan. La risposta clamorosa di Nasser fu la nazionalizzazione della Compagnia dei Canale di Suez, le cui azioni appartenevano a un consorzio europeo egemonizzato da gruppi francesi e britannici. Era l’aperta e intenzionale sfida al vecchio ordine internazionale. I proventi della Compagnia sarebbero serviti a finanziare la faraonica diga di Assuan, che l’URSS s’impegnò a costruire. Quanto alle armi, l’Egitto le avrebbe importate dalla Cecoslovacchia, cioè da un paese del blocco sovietico. |
Dal canto loro gli Israeliani, sostenuti da Francia e Gran Bretagna e preoccupati del riarmo egiziano, decisero di sferrare un attacco preventivo contro l’Egitto, anziché attenderne la prevedibilissima aggressione.Il 29 ottobre del ‘56 le colonne corazzate israeliane si spinsero quindi nella Striscia di Gaza e nel Sinai, sbaragliando per la seconda volta l’esercito egiziano, mentre gli Anglo-Francesi bombardavano gli aeroporti egiziani e lanciavano paracadutisti lungo il Canale. L’esito della crisi, comunque, non fu deciso dalle armi, bensì da un braccio di ferro internazionale, seguito da un’intesa tra Stati Uniti e Unione Sovietica (che per difendere l’Egitto aveva persino minacciato di ricorrere alle armi nucleari). In base all’intesa, le truppe israeliane dovettero ritirarsi entro i confini precedenti, l’ONU si assunse il controllo della penisola del Sinai, e lo sconfitto Nasser uscì paradossalmente dalla guerra quasi come vincitore: grazie all’appoggio sovietico non subì infatti alcuna perdita territoriale e, acclamato dalle folle deliranti di entusiasmo, poté presentarsi come l’autentico e autorevole campione del mondo arabo. Fra il '56 e il '58, nel giro ai soli due anni, i nazionalisti arabi tentarono una scalata ai potere in molti paesi del Medio Oriente, e non riuscirono a conseguire i loro scopi solo per l’intervento di truppe occidentali - Nel ‘57 in Giordania re Hussein non accettò il risultato delle urne che aveva assegnato la maggioranza ai filonasseriani, ma per reprimere le violente proteste popolari conseguenti dovette far ricorso a truppe inglesi. Nel 58 i Marines americani intervennero a "ristabilire l’ordine" in Libano. Nessuna intromissione esterna riuscì però ad arginare in Irak la rivolta popolare che nel luglio del ‘58 rovesciò la monarchia hashemita e portò al potere Abd al-Karim Kassem. Il 2 Febbraio dello stesso ‘58, la Siria e l’Egitto decisero di fondersi in un unico Stato, la Repubblica Araba Unita (RAU), e all’iniziativa si associò anche il sovrano dello Yemen, l’imam Ahmad, che per quanto ultrareazionario intendeva tuttavia partecipare all’auspicata confederazione degli Stati Arabi Uniti. L’ideale panarabo sembrava dunque sul punto di trionfare nell’intera regione, ma l’illusione durò solo un biennio. La RAU si dissolse già nel 1960, perché i Siriani mal sopportavano l’egemonia egiziana. La confederazione degli Stati Arabi Uniti naufragò nel peggiore dei modi, cioè nella guerra civile yemenita. Nel ‘62. infatti, quando al vecchio imam Ahmad succedette il figlio Badr, dichiaratamente filo-occidentale, un gruppo di ufficiali di fede nasseriana compì un colpo di Stato e proclamò la repubblica. Il nuovo regime, peraltro, non riuscì ad affermarsi in tutto il paese: da una parte si schierarono infatti i sostenitori della monarchia, insediati nello Yemen del Nord, conservatore; dall’altra, i repubblicani, insediati nello Yemen del Sud, socialista. In aiuto del Sud, Nasser inviò un consistente corpo di spedizione. Che peraltro, data la natura montuosa del paese, rimase ben presto invischiato in quello che fu detto "Vietnam dell’Egitto" per analogia col Vietnam degli Stati Uniti. E un terzo di quel contingente era ancora bloccato nello Yemen quando, nel 1967, divampò la guerra arabo—israeliana nota come Guerra dei Sei Giorni. Lo Yemen del Nord fu a sua volta aiutato dall’Arabia Saudita: un paese che, retto da una monarchia assoluta, aveva acquistato grande importanza nel dopoguerra, quando la compagnia petrolifera Aramco (Arabian American Oil Company) vi aveva scoperto nuovi giacimenti di petrolio e ne aveva iniziato lo sfruttamento. La breve esperienza della RAU e la guerra civile nello Yemen dimostrarono con l’eloquenza dei fatti quanto fosse utopica la vantata "fratellanza araba": gli Stati arabi, infatti, costituivano un fronte comune solo nella lotta contro Israele. Per il resto ogni singolo Stato mirava ad imporre la propria egemonia agli altri paesi fratelli, nonché all’intero Medio Oriente. La miglior prova di questa continua litigiosità interaraba fu fino agli anni Novanta la proclamata disponibilità alla tutela della causa palestinese, o meglio l’uso strumentale che i paesi arabi fecero a turno di tale proclamata volontà di battersi per i Palestinesi. |
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Primo ad assumersi l’onere di difendere la causa palestinese fu ancora una volta Nasser, che nel 1964 —assieme agli altri membri della Lega araba — diede vita al Cairo all ‘Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’OLP raggruppava una miriade di formazioni politiche, diverse ma tutte ugualmente decise a combattere contro "il nemico sionista". Le sorti di questa lotta erano però affidate in primo luogo agli eserciti arabi, e questi venivano regolarmente vinti, come avevano dimostrato le sconfitte del ‘48 e del ‘56, e come nel 67 dimostrò con evidenza anche maggiore il disastroso scacco subito dagli Arabi nella brevissima Guerra dei Sei Giorni. Tale guerra maturò attraverso un’escalation di provocazioni verbali egiziane e siriane, che sembravano preludere a un attacco imminente contro Israele. Nasser si spinse sino al punto di precludere alle navi israeliane la navigazione nel Golfo di Aqaba. Israele, dal canto suo, anziché aspettare passivamente l’iniziativa araba, decise ancora una volta di scatenare un attacco preventivo, e il 5 giugno del 67 i suoi caccia distrussero al suolo l’intera aeronautica egiziana, mentre i carri armati balzavano all’offensiva su tutti i fronti. In soli sei giorni il Tsahal (cioè l’esercito israeliano) strappò la striscia di Gaza e l’intera penisola del Sinai fino ai Canale di Suez all’Egitto; le alture del Golan alla Siria; l’intera Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, alla Giordania (e la regione fu ribattezzata coi nomi biblici di Giudea e Samaria). L’emozione per la conquista di Gerusalemme, cuore della religione e della storia ebraica, indusse il generale Moshe Dayan, artefice della vittoria, ad esclamare davanti al Muro del Pianto: ‘Questa mattina l’esercito di difesa di Israele ha liberato Gerusalemme’ siamo tornati nel più sacro dei nostri luoghi: siamo tornati per non andarcene mai più’. Il giorno dopo, la Knesset (la Camera) votò l’annessione della parte orientale di Gerusalemme allo Stato Ebraico. |
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Dopo la "Guerra dei Sei Giorni" un accesissimo dibattito si aprì anche in seno all’OLP, soprattutto da quando, nel 1969, ne divenne presidente Yasser Arafat, già leader di Al Fatah (La Vittoria), cioè di una delle formazioni militanti palestinesi più agguerrite. Sotto la sua presidenza, infatti, l’OLP decise di sganciarsi dalla tutela politica egiziana, di non affidare più le sorti della causa palestinese alla sola fortuna degli eserciti arabi e di inaugurare la stagione della guerriglia all’interno dei territori occupati, al fine di distruggere Israele e di creare sul suo territorio uno Stato palestinese. In altre parole, i Palestinesi si resero conto di doversi assumere direttamente la tutela della propria causa per poterla imporre all’attenzione della comunità internazionale. Per conseguire questo risultato, essi scelsero innanzi tutto l’arma del terrorismo. |
Il gruppo che rivendicò l’azione si faceva chiamare Settembre Nero con riferimento al gravissimo episodio accaduto nel 1970, quando Hussein, re di Giordania, aveva duramente represso nel sangue il tentativo di alcuni gruppi armati palestinesi di rovesciare la monarchia. Dalla Giordania i gruppi armati e la leadership deIl’OLP, seguiti da migliaia di profughi, avevano allora spostato il proprio quartier generale in Libano: e questo trasferimento aveva gravemente compromesso la stabilità di quel piccolo paese. Dal canto loro, i paesi arabi non si limitarono a finanziare la causa palestinese con milioni di dollari: nel ’73-‘74 i produttori di petrolio minacciarono di sottoporre a un duro embargo i paesi occidentali; e alcuni Stati arabi furono sospettati di connivenza col terrorismo palestinese. I sospetti più fondati si appuntarono soprattutto su Algeria, Libia, Siria e Irak: sull’Algeria, che ottenuta l’indipendenza nel 1962 s’era fatta strenua sostenitrice delle lotte di liberazione in ogni angolo del mondo; sulla Libia del colonnello Gheddafi, che nel ‘69 aveva abbattuto la monarchia con un colpo di Stato militare; sulla Siria di Hafiz al-Assad, impadronitosi del potere nel 1970; sull’Irak che —come la Siria — era governato dai ferventi nazionalisti arabi del partito Baath, che significa ‘La Rinascita" (nelle cui file si formò come responsabile dei servizi segreti Saddam Hussein). Quanto e come la leadership dell'OLP e lo stesso Arafat sostenessero i metodi terroristici dei gruppi palestinesi estremisti, è tuttora oggetto di acceso dibattito fra gli storici. Certamente dal 1970, dopo la repressione giordana di cui si è detto, l’OI.P e Arafat assunsero atteggiamenti più "moderati" e — nonostante gli attacchi dei feddayin più intransigenti, che non esitarono a scindersi dal movimento — cominciarono a perseguire le proprie finalità anche mediante i normali metodi diplomatici. Anzi modificarono radicalmente l’obiettivo finale della loro lotta, rinunciando alla distruzione di Israele e rassegnandosi a rivendicare la creazione in Palestina di uno Stato binazionale, arabo-ebraico. Adottata questa linea politica, Arafat poté pronunciare nel 1974 uno storico discorso di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e queste nelle loro risoluzioni non parlarono più di ‘rifugiati palestinesi’, bensì di "popolo palestinese", del quale riconoscevano l’OLP come unica, legittima rappresentante. |
I Palestinesi, sia pure con mezzi esecrabili, erano dunque riusciti a imporre all’attenzione del mondo il loro diritto ad esistere; ma ancora all'inizio degli anni 70 rimaneva come onta non riscattata la serie di sconfitte militari subìte dagli eserciti arabi. Il 6 ottobre del 1973, quando l’Egitto e la Siria attaccarono simultaneamente di sorpresa Israele approfittando della festa ebraica dello Yom Kippur (Grande Perdono), giunse però l’ora della rivincita: gli eserciti arabi, intatti, almeno per alcuni giorni, riuscirono ad avere la meglio sulle difese israeliane, che peraltro presto reagirono neutralizzando l’attacco. In termini territoriali Il Cairo e Damasco guadagnarono ben poco: ben più importanti furono le conseguenze morali e diplomatiche della cosiddetta Guerra del Kippur. Mentre l’Egitto e la Siria, presentandosi come i paesi che avevano finalmente vendicato l’onore arabo, acquistavano maggior prestigio sia nella regione sia nel contesto internazionale, Israele vedeva incrinato il mito della propria invincibilità. Conseguentemente, entrò in crisi, ad una col governo, il Partito laburista, che aveva guidato Israele dal 1948: e i territori occupati nel 67 assunsero maggiore importanza in quanto, una volta dimostrata la vuinerabilità di Israele, la scelta fra annessione e restituzione diventava determinante ai fini della sicurezza israeliana. E infatti dopo la Guerra del Kippur il movimento di colonizzazione ebraica di quei territori si fece alquanto più -massiccio. I primi insediamenti, attuati da Israeliani laici soprattutto lungo i confini e sulle alture del Golan prospicienti la Siria, furono favoriti dal governo appunto per motivi di sicurezza: ma l’incremento della colonizzazione stessa fu opera soprattutto di movimenti religiosi, come il Gush Emunim ("Blocco della Fede"), che installandosi a Gaza e in Cisgiordania volle rendere irreversibile l’annessione e il destino "biblico"di quelle terre. La guerra dello Yom Kippur, infine, determinò un vero salto di qualità nei rapporti Israele-Stati Uniti. Fino al 1973 Washington aveva bensì preso spesso le difese dello Stato ebraico sia nel contesto internazionale sia in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma solo dopo lo smacco della "Guerra del Kippur" — quando cominciò davvero a temere per le sorti di uno dei suoi più preziosi alleati in Medio Oriente — intensificò gli aiuti economici e militari. Artefice di questa rinsaldata alleanza fu il segretario di Stato americano Henry Kissinger, che volle così ristabilire l’equilibrio fra Israele e i più importanti paesi arabi (Egitto. Siria, Irak), allora gravitanti. come la stessa OLP, nella sfera d’influenza sovietica. Questo assetto dello schieramento Est-Ovest nella regione mediorientale fu però bruscamente sconvolto nel 1977, quando l’Egitto, operando una svolta storica, cambiò di campo e si alleò con gli Stati Uniti, mentre il suo presidente Anwar al-Sadat — succeduto a Nasser nel ‘1970 — volava a Gerusalemme, e in un discorso sconcertante al parlamento israeliano offriva la pace allo stesso tradizionale "nemico sionista". Per i! mondo arabo il trauma fu sconvolgente. Da quel momento l’Egitto venne condannato dai paesi "fratelli" per aver rotto il fronte comune antisionista. E la condanna comportò l’isolamento e l’espulsione dalla Lega Araba nel marzo del 1979, allorché Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin - alla presenza del presidente americano Jimmy Carter che se ne fece garante - firmarono a Washington il trattato di pace di Camp David. |
Nel groviglio dei problemi mediorientali il trattato faceva emergere due principi, destinati a consolidarsi nel corso degli anni: in primo luogo, il principio della possibilità di una "pace separata" tra Israele e un paese arabo, contro la tesi dell’URSS, dei paesi arabi suoi alleati e dell’OLP, che volevano una soluzione globale del conflitto, ossia una conferenza internazionale per la pace con la partecipazione di tutti i paesi interessati; in secondo luogo, il principio riassumibile nella formula "terra in cambio della pace", in base al quale Israele si rese disponibile a restituire porzioni dei territori conquistati nel ‘67 in cambio appunto di una pace duratura. In ottemperanza al trattato, infatti, Israele restituì all’Egitto l’intera penisola del Sinai. |
Il 1979 fu importante anche per altri due eventi: l'invasione sovietica dell'Afghanistan e, in Iran, la rivoluzione Khomeinista, che diede inizio alla sfida islamica contro i regimi laici affermatisi nei paesi arabi dopo la seconda guerra mondiale. L'Iran non è un paese arabo: la sua lingua e la sua popolazione sono di origine indoeuropea (lo stesso termine "ariano", sinonimo di "indoeuropeo", è della stessa radice di "Iran"). E' tuttavia un paese islamico, benchè di fede sciita anziché sunnita, come la maggior parte dei paesi musulmani, e come paese islamico ha potuto esercitare un'enorme influenza su quella parte del mondo che si riconosce nel Corano.Il timore che l’integralismo khomeinista dilagasse in tutto il Medio Oriente (e si estendesse fino al Maghreb) era fondato: il messaggio di Khomeini risvegliava ed eccitava quella volontà di rivincita contro l’Occidente e contro il sionismo che del resto mai si era del tutto spenta dopo la prima guerra mondiale, ma soprattutto esaltava la religione islamica come forza capace di rigenerare la società in tutto il mondo musulmano. Khomeini condannava apertamente tutti i regimi laici che si erano impadroniti del potere e che — a suo giudizio — "corrompevano" il popolo con ideologie come il liberalismo, il liberismo capitalistico e il marxismo-leninismo, radicalmente estranee all’Islam e incompatibili con la religione del Profeta. D’altra parte — dato il completo fallimento delle ideologie laiche nazionalismo arabo e panarabismo compresi — vasti settori delle società mediorientali erano pronti a recepire il tonante messaggio. Così dal 1979 cominciarono a rifiorire le associazioni e i movimenti islamisti, che in molti paesi avevano subìto drastiche persecuzioni nel corso dei decenni precedenti. Questo era accaduto, per esempio, alla Fralellanza musulmana egiziana, i cui seguaci erano stati incarcerati o giustiziati prima da Nasser, poi da Sadat. Questo era accaduto in Siria, dove la rivolta organizzata ad Aleppo e Hama dai Fratelli musulmani era stata repressa con pugno di ferro dal presidente Assad, ed era costata la vita a decine di migliaia di persone. In tempi più recenti nacquero poi la Jihad islamica e Hamas: organizzazioni fondamentaliste palestinesi, derivate dalla Fratellanza musulmana giordana, che si imposero con atti terroristici soprattutto negli anni ‘90. E altre organizzazioni analoghe furono la jihad islamica libanese e lo Hezbollah: quel "Partito di Dio" degli sciiti libanesi, che dall’82 — l’anno in cui l’esercito israeliano invase il paese — animò la resistenza contro gli invasori nella cosiddetta fascia di sicurezza. |
Il terrorismo arabo-palestinese non rimase senza risposta, anzi provocò l’operazione israeliana Pace in Galilea. Con questa Operazione, tacitamente approvata dagli Stati Uniti, Israele intendeva inizialmente allontanare di almeno 40 km dal confine i guerriglieri palestinesi insediati nella regione meridionale del Libano, dalla quale bombardavano in continuazione i villaggi della Galilea.
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Il terrorismo islamico, per ritorsione, si scagliò in Libano contro la Forza multinazionale, simbolo ai suoi occhi delle connivenze occidentali con Israele. Il 18 aprile 1983 un’autobomba distrusse letteralmente il quartier generale americano a Beirut, provocando oltre una sessantina di morti; altri attentati colpirono i contingenti francese e inglese. Anche dopo la partenza della Forza di pace, avvenuta nell’84, gli Occidentali rimasero esposti ai colpi della Jihad islamica libanese, che cominciò a sequestrare diplomatici e giornalisti americani ed europei. L’esercito israeliano, dal canto suo, completò il ritiro dal Libano nel giugno dell’85, mantenendo il controllo di una "fascia di sicurezza", profonda circa 40 km, nella quale continuò a scontrarsi coi guerriglieri Hezbollah — sostenuti dall’Iran e agevolati dalla complicità siriana — e ad essere oggetto dei loro agguati terroristici. Lontana da Israele e relegata in Tunisia, l’OLP si ritrovò sconfitta e impotente: al suo interno la leadership di Arafat fu violentemente contestata dai gruppi più radicali, che guardavano alla Siria come all’unico paese in grado di sostenere ancora con efficacia la causa palestinese. Eminenti personalità dell’organizzazione furono assassinate dai servizi segreti israeliani, e lo stesso quartier generale dell’OLP venne bombardato dall’aviazione d’Israele il 1° ottobre dell’85. |
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Le speranze dei Palestinesi si ravvivarono solo dal 9 dicembre dell’87, quando nei famosi territori occupati ebbe inizio l’Intifada: la cosiddetta "rivolta delle pietre". Impoveriti ed esasperati da vent’anni di occupazione militare israeliana i Palestinesi di Cisgiordania. Gaza e Gerusalemme Est si ribellarono, infatti, non già imbracciando il fucile, ma lanciando sassi per le strade contro l’esercito israeliano, scioperando. erigendo barricate coi copertoni delle automobili, assaltando e incendiando con mezzi rudimentali le caserme e le jeep dei militari israeliani. |
Protagonisti dell’Intifada erano ragazzini alle soglie dell’adolescenza, e le autorità israeliane — prese in contropiede da un tipo di "guerriglia" così inconsueto e imprevisto — ordinarono di usare i più duri metodi di repressione contro i giovanissimi combattenti, nel tentativo di dissuadere i loro coetanei dall’imitarli, Fecero inoltre eseguire migliaia di arresti, ma nulla riuscì a domare la rivolta, le cui immagini, come le immagini della durissimna repressione israeliana, entrarono nelle case di tutti) il mondo attraverso la televisione, L’intifada esplose agli inizi spontaneamente e fu coordinata da un gruppo di politici palestinesi formatisi non già tra le file dell’OLP, in esilio, ma negli stessi territori occupati. L’OLP si affrettò peraltro ad assumere il controllo della situazione. Le conseguenze politiche dell’Intifada si fecero sentire ben presto. Il 31 Luglio del 1988 re Hussein di Giordania rinunciò definitivamente alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, che gli erano state strappate nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni e cedette all’OLP il diritto di rivendicarli quali territori di un futuro Stato palestinese. Nel novembre successivo il Consiglio nazionale paleslinese (cioè il parlamento in esilio dell’OLP), riunito ad Algeri, riconobbe la risoluzione n°242 dell’ONU, ammettendo così implicitamente il diritto di Israele all’esistenza, e proclamò inoltre l’indipendenza, per il momento del tutto virtuale, dello Stato palestinese. Una svolta epocale come questa fu indubbiamente favorita dalla distensione del clima internazionale e dall’attenuarsi dello scontro Est-Ovest in seguito all'ascesa al potere in Unione Sovietica di Michail Gorbaciov nel 1985, e alla volontà da lui manifestata di risolvere al più presto le crisi regionali: proprio nell’88, infatti, e precisamente 18 febbraio, Mosca annunciò l’inizio del ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan. Per gli Stati filo-sovietici del Medio Oriente questo significava che non potevano più contare su un appoggio concreto dell’i URSS, destinata del resto a dissolversi nel giro di pochi anni, e che dovevano quindi tentare le vie della politica anziché della lotta annata. La distensione fra URSS e USA. dunque, favoriva la pace anche in Medio Oriente. Circa il processo che avrebbe condotto alla pace, l’unica vera incognita rimaneva dunque Israele L’ Intifàda aveva messo lo Stato ebraico di fronte a una guerra di tipo inconsueto e inatteso: una "guerra" condotta da civili, per di più adolescenti e disarmati. E sulle misure da prendere in una situazione così anomala, l’opinione pubblica era profondamente divisa. Soprattutto gli ambienti politici più avveduti s’erano resi conto che le armi e la repressione non erano più sufficienti per garantire la sicurezza di Israele: occorreva riconoscere i diritti dei Palestinesi, e stabilire la pace sia con loro sia con i paesi arabi vicini. Contatti segreti tra il leader laburista Shimon Peres ed esponenti dell’OLP si ebbero dunque già dalla fine degli anni ‘80, mentre la diplomazia palestinese tentava, sempre segretamente di ottenere un concreto appoggio americani) alla propria causa. |
In questo clima, la cosiddetta Guerra del Golfò intervenne a modificare l’assetto e gli equilibri del Medio Oriente. Il 2 Agosto le truppe irachene di Saddam Hussein invasero e occuparono il Kuwait. Il 29 Novembre l'ONU, fortemente sollecitata dagli Stati Uniti, approvò la risoluzione n°678, che autorizzava l'uso della forza contro l'Irak, qualora il Kuwait non venisse sgombrato entro il 15 Gennaio '91. Dopo i bombardamenti che indiscriminatamente colpirono la popolazione civile, la Guerra non lasciò visibili mutazioni sullo scacchiere regionale: Saddam rimase al suo posto, l'Iraq (che aveva messo paura come possibile conquistatore di tutta l'area che riforniva di petrolio tutto l'Occidente) fu sottoposto ad un embargo (ancora la popolazione civile ne fece e ne fa ancora le spese) ma non smembrato, per non far prender quota alla ben più pericolosa autorità di Teheran, dietro a tutti i movimenti terroristici islamici. Dalla "Guerra del Golfo", in un certo senso, uscì sconfitto non tanto o non soltanto Saddam Hussein ma anche Arafat: i paesi arabi, e innanzitutto i ricchi Stati del Golfo. sospesero unanimi gli aiuti all’OLP; in Kuwait i Palestinesi furono in un primo tempo perseguitati, poi privati del diritto di lavorare nel piccolo emirato (come facevano in grati numero prima della guerra); l’OLP infine si screditò di fronte all’opinione pubblica internazionale e si trovò in una situazione di estrema debolezza nei confronti di Israele e degli Stati Uniti. |
Ma appunto nel clima creato dalla "Guerra del Golfo" poté essere avviato il processo di pace israelo-palestinese, grazie anche al contributo determinante del nuovo presidente americano Bill Clinton. Già alla fine di settembre del ‘91 iniziarono a Madrid i colloqui esplorativi tra Israeliani, Giordani, Siriani, Libanesi e infine Palestinesi. Questi ultimi — per aggirare il veto d’Israele, che non intendeva riconoscere ufficialmente l’OLP prima dell’inizio delle trattative — dovettero "mimetizzare" i propri rappresentanti all’interno della delegazione giordana. La Conferenza si proponeva di preparare il terreno per la soluzione del problema palestinese nonché per la stipulazione di trattati di pace bilaterali tra Israele e i paesi confinanti. Un passo avanti d’importanza fondamentale fu compiuto dopo il giugno del ‘92, quando, grazie alla vittoria dei laburisti nelle elezioni politiche israeliane, divenne primo ministro Yitzhak Rabin, che scelse come ministro degli esteri Shimon Peres, notoriamente favorevole alle trattative. Il 30 agosto del 1993 il parlamento israeliano. accettando in via definitiva che la pace fosse basata sulla restituzione dei territori occupati nel ‘67, approvò il primo priogettio di accordo, detto "Gaza e Gerico subito", in base al quale si prevedeva che appunto in quelle dite città fosse creata una cosiddetta Autonomia palestinese. |
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E il 13 settembre ‘93, a Washington, la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat di fronte a Clinton solennizzò la firma della Dichiarazione di Princìpi (detti anche Accordi Oslo perché negoziati segretamente a Oslo, in Norvegia), in base alla quale si sarebbe arrivati nel 1999 alla pace definitiva e alla creazione in Cisgiordania e a Gaza di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. |
Nell’arco di sei anni l’esercito israeliano si sarebbe dunque progressivamente ritirato dalla Cisgiordania stessa, mantenendo il controllo solo su alcune località, ritenute vitali per la sicurezza di Israele. |
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Parallelamente sarebbero proseguiti i negoziati per giungere alla discussione dei temi più scottanti: la sorte degli oltre 100 000 coloni ebrei insediatisi nei famosi territori occupati che dovevano passare prima all’Autonomia, poi allo Stato palestinese; la sorte dei milioni di profughi palestinesi disseminati in tutto il Medio Oriente e altrove; il controllo delle risorse idriche del Giordano, preziose e scarse; il futuro status di Gerusalemme, reclamata come capitale da entrambi i popoli (ma Israele già nel ‘67 aveva annesso "in via definitiva" anche i quartieri orientali della città). |
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Nel clima tendenzialmente pacifico che così si venne creando, si normalizzarono presto anche i rapporti tra Israele e il Vaticano (30 dicembre 1993), mentre tra Israele e la Giordania venne firmato il 26 ottobre del 1994 un vero e proprio trattato di pace: il secondo. dopo Camp David, tra Israele e un paese arabo. Si poté anche attuare una prima parte degli Accordi Oslo, mediante la creazione, nella Striscia di Gaza e a Gerico, dell’Autonomia palestinese, subito riconosciuta dai paesi arabi o comunque islamici, eccettuati però lrak, Libia, Siria e Iran. Il 20 gennaio del ‘96, nelle prime elezioni indette per dotare l’Autonomia di un parlamento e di un presidente, Al Fatah e il suo leader Arafat conseguirono una schiacciante vittoria. Ma il fatto stesso che si procedesse sulla via della pace rese anche più virulenti i nemici della pace stessa: sul fronte palestinese, gli estremisti islamici della Jihad e di Hamas sul fronte israeliano, i fondamentalisti ebraici sempre più numerosi tra le file dei coloni, che in caso di cessione dei territori occupati sarebbero finiti sotto la sovranità palestinese. E fu appunto uno di questi fanatici che il 4 novembre 1995 assassinò il primo ministro Yitzhak Rabin suscitando lo sgomento all’interno del paese e nell’intera comunità internazionale. Il governo passò allora nelle mani di Shimon Peres, che, contando sulla potente ondata emotiva sollevata in Israele dall’assassinio, decise di anticipare la data delle elezioni politiche al maggio del ‘96, nella speranza di rafforzare in parlamento la maggioranza favorevole alla pace. Senonchè le previsioni di Peres furono smentite dagli elettori, e dalle urne uscì vincitore il candidato della destra Benjamin Netanyahu, di opposta ispirazione. Netanyahu riuscì infatti a sfruttare a proprio vantaggio la paura e il disorientamento creati in Israele da una serie di sanguinosi attentati terroristici islamici, compiuti nel pieno della campagna elettorale, mentre gli Hezbollah libanesi intensificavano a loro volta i bombardamenti sui villaggi della Galilea. "La sicurezza prima di tutto era stato lo slogan di Netanyahu" e nel nome appunto della sicurezza, una volta diventato primo ministro, egli rallentò il processo di pace fino a bloccarlo (all’Autonomia dopo il ‘96 fu restituita solo l’area di Hebron). Dal canto suo Arafat, già indebolito dagli scarsi progressi verso la pace, fu accusato dal governo israeliano di non aver saputo reprimere con la dovuta durezza il terrorismo islamico. Al governo di Netanyahu, successe, nel 1999, un governo laburista capeggiato da Yehudi Barak, sotto la cui guida (e con la assidua collaborazione di Shimon Peres) si continuò sulla strada dei colloqui di pace. Ma, nonostante la costante iniziativa di Clinton, e nonostante la buona disposizione degli interlocutori Barak e Arafat, la pace non riuscì ad essere concretamente attuata. Gli Accordi di Oslo avevano nemici sia presso la destra della Knesset, capeggiata dal vecchio ministro della Difesa al tempo di Sabra e Chatila, sia nella variegata galassia dei gruppuscoli terroristici gravitanti intorno all'integralismo di Hamas. Cavalcando la tigre della sicurezza interna, e la risolutezza tutta preelettorale sull'argomento della divisione della città cara a tre religioni, vinse le elezioni del 2001 Ariel Sharon, che fece precedere la sua campagna elettorale da una massimamente provocatoria passeggiata sulla spianata delle Moschee in Gerusalemme: e da allora è partita nelle strade di Palestina la Seconda Intifada. E poi ancora tanto terrorismo e tanti Kamikaze, e poi la rappresaglia con tutto l'esercito ad invadere e ad assediare i Territori: ma questa è cronaca (sanguinosa) dei nostri giorni. |