I papi dell’Inquisizione

 

   
   

PAOLO III

Fu un conclave di appena due giorni quello che portò all’elezione del successore di Clemente VII, il 12 ottobre 1534 fu eletto il cardinale Alessandro Farnese con il nome di Paolo III. Nato presso Viterbo nel 1468, il suo passato ricalcava l’impronta rinascimentale di tanti colleghi. Aveva fatto la sua parte in una vita spregiudicata, mettendo al mondo numerosi figli ma riconoscendone solo tre, la data 1513 è indicata da tutti i biografi come fondamentale per un cambiamento della sua condotta che comunque godeva di uno spirito mondano non indifferente. Naturalmente si impegnò anche in un nepotismo sfrenato e le sue maggiori preoccupazioni nell’amministrazione del potere furono  quelle di rendere sempre più  grande il  casato  dei Farnese;  chi usufruì maggiormente  dei  favori di papa Paolo III fu  il  probabile primogenito Pier Luigi nominato gonfaloniere della Chiesa e

comandante supremo delle truppe pontificie. Eppure questo papa “a cui l’amore va di sua casa divorando il cuore” secondo un verso di Pasquino appunto perché “rimasto schiavo, nella sua vita personale e nel suo nepotismo, delle consuetudini laiche e profane del Rinascimento” secondo la parole di Seppelt, ebbe “cuore” per la riforma, egli si rese conto della necessità della Chiesa e si impegnò concretamente per porvi riparo. Punti di riferimento precisi della sua opera furono prima di tutto il sostegno dato agli antichi Ordini religiosi e l’approvazione dei nuovi: i Teatini, i Somaschi, i Barnabiti, i Cappuccini e soprattutto i Gesuiti di Ignazio di Loyola, che avrebbero avuto un’importanza determinante nel cattolicesimo dell’epoca moderna e contemporanea, diventando in diversi periodi una sorta di braccio destro della politica ecclesiastica pontificia.

L’altro merito di Paolo III è quello di aver convocato il concilio di Trento, ufficialmente aperto il 15 dicembre 1545, con il compito di eliminare lo scisma della Chiesa d’Occidente e di attuare una lotta comune dei popoli cristiani contro i Turchi, regolando inoltre all’interno il conferimento dei benefici. L’improvviso scoppio della guerra tra Carlo V e la lega di Smalcalda minacciò di compromettere la continuazione del concilio, dunque i legati del Papa ottennero il trasferimento a Bologna, proposta che compromise in maniera determinante una riforma generale a cui aderissero anche i luterani, aumentando al contrario i termini già netti dello scisma. Paolo III, disinteressato della situazione, angosciato dalla morte del figlio, sospese il concilio nel 1548, conclusosi definitivamente nel 1549. Quando sarebbe stato riaperto, avrebbe assunto un altro significato nel senso conservatore della “controriforma”.

Un’iniziativa che preludeva a questo irrigidimento della posizione pontificia fu l’istituzione nel 1542 della Santa Romana e Universale Inquisizione, che aveva proprio lo scopo di mantenere incontaminata da errori la fede cattolica, punendo severamente chi persistesse nell’eresia. Presieduta da una commissione di sei cardinali, che ebbe poi il nome abituale di Sant’Uffizio, questa istituzione trovò i suoi primi ferventi propugnatori in Ignazio di Lodola e Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV. “Da principio questo tribunale era moderato e clemente, in conformità con la natura di Paolo III”, come osservava il cardinale Girolamo Seripando che pure doveva riconoscere già allora con grande obbiettività che “più tardi invece, quando aumentò il numero dei cardinali che lo dirigevano e si rafforzò sempre più la giurisdizione dei giudici, ma soprattutto per la durezza umana di Carafa, questo tribunale acquistò una tale rinomanza, per cui si diceva che in nessun luogo si pronunciavano sulla terra sentenze più terribili e orribili”.

Roma con Paolo III comunque non restò legata solo all’Inquisizione, perché è anche merito di questo pontefice aver ridato alla città un volto, dopo le vicende del saccheggio del 1527 da parte dei Lanzichenecchi; va segnalato il lavoro di fortificazione delle mura, se pur realmente limitato alla Città Leonina, affidato ad Antonio da Sangallo, il quale costruì anche la cappella Paolina e la Sala Regia nel palazzo Vaticano. A Michelangelo invece, che completò gli affreschi della cappella Sistina con il suo giudizio universale e restaurò il Campidoglio con la piazza e la sistemazione in essa della statua equestre di Marco Aurelio, fu affidata la direzione della Fabbrica di S. Pietro. Furono così modificati i piani precedenti, compreso quello del Bramante, e venne definendosi la struttura della basilica con la grandiosa cupola.

Paolo III morì il 10 novembre 1549 e fu sepolto in S. Pietro in un mausoleo opera di Guglielmo della Porta, che fu puntualmente colpito da Pasquino:

In questa tomba giace

un avvoltoio cupido e rapace.

                Ei fu  Paolo Farnese,                           

che nulla donò, che tutto prese.

Fate per lui orazione:

                poveretto, morì d’indigestione.

 

      

 

GIULIO III

La sede vacante durò dal 29 novembre 1549 all’8 febbraio 1550 ma non vi fu un vero e proprio “con-clave”, perché le relazioni col mondo esterno furono continue, i chiavistelli saltarono e tutto si svolse perlopiù “a porte aperte”.

Roma risentì del clima libertario in cui si trovava, tanto che i

cittadini si abbandonarono a cortei mascherati che erano un’aperta satira dei porporati riuniti in conclave. Poi improvvisamente arrivò l’annuncio: eletto il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, un romano, e questa volta fu festa grande che durò sino al giorno dell’incoronazione sotto il nome di Giulio III, il quale presenziò con piacere a questi festeggiamenti che non avevano alcunché di religioso, in barba alla riforma e alla “controriforma”, allo spirito di rinnovamento cristiano, nel pieno della crisi di concilio lasciato a metà.

Fu nepotista senza scrupoli, pur non arrivando agli intrighi politici internazionali dei Farnese, i suoi parenti trovarono tutti a Roma uffici convenienti e notevoli fonti di reddito.

Eppure a Giulio III va il merito di aver ripreso e continuato il concilio di Trento in accordo con Carlo V che trovò in lui appoggio su varie questioni motivo di contrasto con Paolo III; era ancora convinto di poter risolvere lo scisma e con il suo utopico desiderio morì, il 23 marzo del 1555.

 

MARCELLO II

Il successore di Giulio III fu eletto per acclamazione, il 9 aprile del 1555 in un conclave piuttosto breve. Questi era il cardinale Marcello Cervini, incoronato con il suo stesso nome “per far comprendere che la nuova dignità non lo aveva fatto per nulla cambiare”- dice Paolo Sarpi- si chiamò pertanto Marcello II.

Grandi cose si attendevano da lui gli autentici riformisti contemporanei, ma la gioia durò poco perché il suo fu uno dei più brevi pontificati della storia; venti giorni d’illusione dietro a un papa antinepotista ante litteram, intenzionato a tenersi fuori dalla politica per affermare esclusivamente il significato tutto spirituale del Vicario di Cristo e conciliare nella pace i popoli come padre comune della cristianità. Morì il 1’ maggio 1555.

 

PAOLO IV

Il conclave per eleggere il successore di Marcello II durò due settimane vissute nel contrasto tra il partito filoimperiale e quello filofrancese; il 23 maggio 1555 fu eletto il cardinale Gian Pietro Carafa in barba a Carlo V. Nato presso Avellino,il nuovo pontefice incoronato con il nome di Paolo IV, era di spirito pseudonazionalista in senso tutto rinascimentale, connesso ad una inflessibile severità e durezza nel temperamento e nella concezione del cristianesimo. Aveva fondato con Gaetano da Thiene l’ordine dei Teatini ed una volta elevato alla porpora cardinalizia era stato l’anima dell’Inquisizione romana, dandole quell’impronta di rigidità che il suo pontificato avrebbe accentuato. Il papa-re emergeva nella figura di chi oltretutto non può sbagliare, col tono di superbia e sicumera di chi si ostentava a “duce”, mentre “vagheggiava un ideale grande e nobile: liberare l’Italia e il papato dalla opprimente preponderanza spagnola”, come scriveva il Castiglioni durante il ventennio fascista , ed egli stesso affermava: -“Qualunque sia il sentimento degli altri, io voglio servire alla mia patria; se la mia voce non è ascoltata, mi consolerà almeno l’idea di averla elevata per una così nobile causa e penserò che un giorno si dirà che un italiano, un vecchio che ha un piede nella tomba, a cui non dovrebbe restare altro che riposarsi e piangere le sue colpe, aveva l’anima piena di questo glorioso disegno”-.

Si impegnò dunque in una decisa lotta contro gli spagnoli e si servì in questo dei francesi ma con scarsi risultati, infatti Roma arrivò a temere un nuovo saccheggio scongiurato grazie alla mediazione di Venezia e al trattato di Cave nel 1557. Amareggiato dagli ultimi avvenimenti e soprattutto dalla condotta immorale dei suoi parenti, che si era sempre curato di anteporre a tutti proseguendo la tradizione nepotista, Paolo IV tornò ai suoi antichi propositi di riforma dello Stato e della Chiesa, con la stessa passione con cui finora aveva promosso le ostilità e la guerra. E la riforma doveva venire direttamente da Roma, cominciando con l’estirpare “l’eresia simoniaca” in seno alla Curia e affidando più ampi poteri all’Inquisizione, ormai di una severità spietata secondo le direttive del pontefice che spesso presenziava alle sedute.

La crescente diffidenza del papa diventava patologica, e lo dimostrano gli ultimi provvedimenti, che sarebbero stati infatti abrogati dal successore; e con questa animosa preoccupazione di conservare la purezza della fede si spiegano, ma non si giustificano, anche le dure misure prese da lui contro gli ebrei. Questi a Roma e in altre città dello Stato pontificio, furono rinchiusi in ghetti e come segno distintivo dovevano portare un cappello giallo.

Si illuse inoltre di rimettere le cose a posto nei confronti dei conclavi, da qualche tempo in verità “aperti”, con la bolla Cum secundum Apostolorum che non sarebbe valsa a niente.

Gli ultimi mesi di vita furono concepiti come un espiazione per riparare alle proprie colpe, si racconta che mantenne il severissimo digiuno di penitenza anche nei giorni precedenti la sua morte, ma i Romani non ci credevano e, convinti dalle malelingue che il papa più che mangiare bevesse vino, lo prendevano in giro con battute del tipo:

 

-Accidenti, che vino forte c’è in questa carafa!

-Ti sbagli, è aceto

 

Morì il 18 agosto 1559 e Roma piombò nel caos; l’odio accumulato contro il duro governo del papa si scatenò in un furore di distruzione. L’edificio dell’Inquisizione fu dato alle fiamme, la statua di marmo di Paolo IV in Campidoglio venne demolita e la testa spezzata e trascinata per le strade finì nel Tevere. Il cadavere fu sepolto di nascosto nei sotterranei del Vaticano per essere sottratto alle ire del popolo, finché Pio V non gli dette degna sepoltura in S. Maria sopra Minerva.

Numerosi i sonetti come il seguente di Pasquino:

 

Carafa in odio al diavolo e al cielo è qui sepolto

col putrido cadavere; lo spirto Erebo ha accolto.

Odiò la pace in terra, la prece ci contese,

ruinò la Chiesa e il popolo, uomini e cielo offese;

infido amico, supplice ver l’oste a lui nefasta.

Di più vuoi tu saperne? Fu papa e tanto basta.

 

 

PIO IV

I disordini verificatesi a Roma dopo la morte di Paolo IV ritardarono l’apertura del conclave che si concluse con l’elezione per acclamazione del cardinale Giovan Angelo de’ Medici. L’entusiasmo dei Romani in gran parte avrebbe trovato rispondenza nell’animo mite del nuovo pontefice che, tra i primi decreti emanati, accordò il perdono per gli eccessi sacrileghi a cui i cittadini si erano abbandonati dopo la morte di Paolo IV. Nello stesso tempo egli restrinse al campo originale la competenza dell’Inquisizione, biasimandone con franchezza la durezza delle sentenze. Non avrebbe quasi mai presenziato alle sedute di quel tribunale, era convinto che la vera riforma doveva venire fuori dal concilio di Trento, che era intenzionato a riaprire nel consenso di tutti gli Stati cristiani.

I lavori procedettero attraverso numerosi ostacoli e difficoltà, soprattutto per la presentazione da parte di Ferdinando I di un libello che avrebbe accentuato le tensioni e innescato il pericolo di un ulteriore scisma se non fossero stati decisivi degli interventi dei legati del papa. Infine fu riconosciuta la superiorità del papa all’assemblea conciliare, null’altro fu discusso per un “apertura” ai protestanti: o dentro o fuori della Chiesa di Roma. Il 4 dicembre 1563 veniva chiuso il concilio  ma la potenza del romano pontefice ne risultò rafforzata, si rinunciò a riportare l’unità della fede, dividendo il cristianesimo in una serie di Chiese separate da Roma. Amara la conclusione che se ne doveva trarre, come sentenziava Pasquino:

 

- Dopo tanto scalpore

che s’è levato a Trento,

Pasquin, che s’è concluso?

- Come piacque al Signore,

restammo al Mille e cento:

tutto secondo l’uso.

- Ma, dunque, la Riforma?

- Zitto, pare che dorma

 

I Romani, dopo i primi entusiasmi, non trovarono poi grandi soddisfazioni dalla sua gestione amministrativa; la mitezza e la magnanimità di Pio IV non concesse loro un granché anzi dovette ricorrere a nuovi tributi che aumentarono i malumori.

Non lesinò comunque le spese per rinnovare la tradizione che vedeva nel papa un promotore delle arti: da questo punto di vista Roma ottenne numerosi benefici con la costruzione di molte opere pubbliche, ad esempio Michelangelo trasformò le terme di Diocleziano nella basilica di S. Maria degli Angeli e aprì tra mura la nuova porta che prese il nome di porta Pia; sorsero anche Borgo Pio, il quartiere tra il Vaticano e Castel S. Angelo, e villa Pia nei giardini del Vaticano.

Morì il 9 dicembre 1565 sepolto in S. Maria degli Angeli.

 S. PIO V

 Michele Ghislieri, comunemente detto il cardinale Alessandrino eletto con il nome di Pio V era stato un prete duro, nominato inquisitore non appena era stata istituita l’Inquisizione, prima per Pavia poi per Como, zone che “scottano” ai confini con la Svizzera protestante e nelle quali detta legge con ostinazione e zelo. Nel 1557 Paolo IV lo nomina grande inquisitore a Roma, ed egli pur non assumendo l’incarico con superbia, condanna con fermezza e poi prega e fa digiuni, “il popolo era affascinato quando lo vedeva nelle processioni, a piedi scalzi ed a capo scoperto, con in volto la pura espressione di una pietà non finta” – annota il Ranke riportando notizie di cronisti dell’epoca – “si pensava non ci fosse mai stato un papa così devoto; si raccontava che il solo sguardo aveva convertito dei protestanti”. Ma il suo rigorismo religioso lo portò a “ripulire” la Curia e la città di Roma senza guardare in faccia a nessuno, da vero uomo della controriforma, annullato lo sfarzo della corte pontificia, eliminati i buffoni, cardinali e vescovi avevano l’obbligo di residenza, per clero e fedeli laici vi erano severe punizioni per la trasgressione della domenica e dei giorni festivi, nonché per la bestemmie e il concubinato, niente accattonaggio, ma grandi largizioni ai poveri autentici, e niente Carnevale, tutela del sacro vincolo del matrimonio con pubbliche fustigazioni per gli adulteri. Roma sembrava dovesse diventare un convento, ma era logico che si procedesse così se restaurazione doveva essere. L’Inquisizione riebbe il suo palazzo, visto che il popolo ne aveva distrutto la sede provvisoria dopo la morte di Paolo IV, con gli uffici, gli archivi e naturalmente le prigioni. La prima pietra fu gettata il 2 settembre 1566 e tre anni dopo i lavori erano conclusi: Pio V poteva con orgoglio far incidere sul grande portone in ferro l’iscrizione programmatica di quell’edificio e cioè affinché “haereticae pravitatis sectatores cautius coercerentur a fundamentis in augmentum catholicae religionis” .    

Il popolo era più affascinato da quel Papa “pio”; ne aveva terrore, perché chi non crede è perduto, chi non obbedisce o discute è già morto.

Il poeta latino Antonio Paleario, sospettato di aver scritto i seguenti versi contro l’Inquisizione, finirà al rogo;

 

Quasi che fosse inverno,

                         brucia cristiani Pio siccome legna,

 per avvezzarsi al fuoco dell’inferno.

 

L’esempio del pontefice stimola vescovi e cardinali d’Italia a seguirlo su questa scia di sangue nelle diverse diocesi; i sovrani danno una mano alla carneficina.

Ma Pio V non si ferma all’Italia, rivolge appelli oltre le Alpi per crociate e inquisizioni contro l’eresia e così a Filippo II scrive raccomandando, nei confronti degli eretici, di non”riconciliarsi mai: non mai pietà; sterminate chi si sottomette, e sterminate chi resiste; perseguitate a oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco e a sangue purchè sia vendicato il Signore; molto più che nemici suoi, sono nemici vostri”.

Questo papa, santo per la Chiesa cattolica, visse con coscienza il suo dispotismo religioso e non resta altro che meravigliarsi con il Ranke: “Quale contraddizione nel fatto che la religione dell’innocenza e dell’umiltà, che la vera pietà, si facciano persecutrici!”. Da questa contraddizione la morte liberò Pio V il 1° maggio 1572; sepolto in un primo tempo in S. Pietro, fu poi trasferito da Sisto V in un mausoleo in S. Maria Maggiore.     

 

GREGORIO XIII

1572 eletto il cardinale Ugo Boncompagni con il nome di Gregorio XIII. Era stato segretario a Roma ed era entrato nelle fila dei riformisti cattolici facendosi le ossa a Trento, ideatore di leggi severe non in grado di farle applicare, indulgente era poi preso dai rimorsi e tornava con durezza sulle sue decisioni. Sotto certi aspetti i Romani respirarono un po’ durante il suo pontificato, egli sostanzialmente disapprovò l’eccessivo rigorismo, pur seguendo il cammino del suo predecessore, non se la prese tanto con i sudditi quanto con gli ecclesiastici, nominò una commissione cardinalizia che vigilasse sull’osservanza delle norme conciliari. Tutto faceva capo alla curia con un crescente centralismo. Roma allora si fece più ardita e audace e, come nota il Montagne, “vita e beni non furono forse mai tanto malsicuri come al tempo di Gregorio XIII”. Egli avrebbe voluto rendere i Romani coscienti di una sorta di ecumenismo cattolico e con questo spirito aveva bandito il giubileo del 1575, invitando numerosi ambasciatori provenienti da varie parti del mondo, frutto dell’opera missionaria dei Gesuiti. Un’espressione della riforma da parte di Gregorio XIII fu la riorganizzazione del calendario adottato nel 1700 anche dai paesi protestanti come la Gran Bretagna. Morì il 10 aprile 1585, sepolto nella cappella di S. Pietro, da allora appunto detta Gregoriana.

SISTO V

Il cardinale Felice Peretti fu eletto all'umanità il 24 aprile 1585; assunse il nome di Sisto V.

a causa di un matrimonio infausto celebrato durante il suo conclave, iniziarono "tempi scuri" come dice il Sarazani: a Roma si instaura un regime di polizia, basta un sospetto per finire sulla forca, quelli che si costituiscono vengono ammazzati lo stesso: "se non si fossero presentati alla giustizia li avrei presi", è il freddo  commento di Sisto V. la condanna a morte venne anche per i "magnaccia" e le madri che prostituiscono le figlie. Pulizia tra laici, pulizia tra gli ecclesiastici. Nella bolla del 3 dicembre del 1586 paragonerà i cardinali che sono intorno agli apostoli che fanno corona a Cristo, e gli impone dietro giuramento che daranno la vita per difendere la religione cattolica; si afferma una "Chiesa fatta in casa" per dirla alla Sarazani,un "nazionalismo papale romano " nella cui organizzazione Sisto V tiene i piedi in terra per "un governo che preceda la Fede" perchè in fondo "il Regno dei cieli è lontano". E qui si innesta la concezione nuova, geniale di Sisto V, con il quale il papato dei tempi moderni trova la sua ragion d'essere nell' ordine, nella restaurazione politica, nel rifiuto deciso di una chiesa esclusivamente evangelica, tutto questo grazie a Lutero, vera causa del mutamento.

Nel sonetto del Belli è definito….

Fra tutti quelli c’hanno avuto er posto

De vicari de dio, nun z’è mai visto

Un papa rugantino, un papa tosto,

un papa matto, uguale a Ppapa Sisto.

E nun zolo è da dì che dessi er pisto

A chiunqu’omo che j’ annava accosto,

ma nu la perdonò neppur’a Cristo,

e nemmanco le roppe d’ anniscosto.

Aringraziam’Iddio c’adesso er guasto

Nun po’ succede ppiù che vienghi un fusto

D’arimette la Chiesa in quel’incrasto.

 

Perché nun ce po’ èsse tanto presto

un antro papa  che je piji er gusto

de méttese pe nome Sisto Sesto.

 

La riorganizzazione degli uffici della Curia romana all’insegna della rigida severità fu una delle misure più importanti prese da Sisto V, riuscendo a dare al collegio cardinalizio quella struttura che ha sostanzialmente conservato fino al nostro secolo. Istituì quindici congregazioni di porporati che avevano il compito di svolgere gran parte del lavoro riservato in passato al concistoro, così che il peso del governo amministrativo della Chiesa fu ripartito in senso più razionale.

URBANO VII

Gian Battista Castagna fu eletto il 15 settembre 1590, con il nome di Urbano VII.

A quanto pare, era di spirito molto caritatevole, se appena eletto fece distribuire gran parte del suo patrimonio ai poveri della città; a parte il governo della Chiesa, il suo scopo principale sarebbe stato quello di dare assistenza ai bisognosi.

La malaria se lo portò via dopo solo 13 giorni di pontificato, il più breve della storia. Morì il 27 settembre 1590 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.

 

GREGORIO XIV

Le pressioni degli ambasciatori di Filippo II si fecero sentire e il 5 dicembre 1580 fu eletto il cardinale Niccolò Sfondrati. Non era uomo preparato al grave compito, si trattava di un asceta dai costumi angelici, cosciente della sua insufficienza e della sua ingenuità negli affari di Stato, si fidò ciecamente del nipote Paolo Emilio Sfondrati che nominò cardinale e segretario di Stato: fu la rovina della politica istaurata da Sisto V.

Morì il 16 ottobre del 1591 e fu sepolto nella cappella Gregoriana in S. Pietro.

 

INNOCENZO IX

30 gennaio 1591: altro papa gradito a Filippo II, il cardinale Giovanni Antonio Facchinetti. Ancora un pontificato di transizione, che non fece altro che seguitare a lanciare incitamenti alla guerra contro Enrico IV. Morì il 30 dicembre 1591 e fu sepolto in un semplice sarcofago nelle Grotte Vaticane.

 

CLEMENTE VIII

Su una solo cosa erano d’accordo i 52 cardinali riuniti in conclave: bisognava eleggere una persona che desse affidamento per un lungo pontificato. Incontri tra le parti e discussioni andarono avanti per quasi un mese fino ad arrivare al nome di Ippolito Aldobrandini, eletto il 30 gennaio 1592.

Nato a Fano da una famiglia fiorentina contraria ai Medici, era ritenuto persona “di grande merito, per la illibatezza dei costumi, elevato ingegno, rara letteratura e pratica degli affari mondani”.

Ogni anno per quindici volte faceva il pellegrinaggio delle principali chiese di Roma che completava in una giornata; L’apice si ebbe con il giubileo del 1600, con funzioni di penitenza e pietà, in un’organizzazione impegnativa e stressante, alla quale deputò dei commissari per gli alloggi e il vettovagliamento in modo che Roma si vestisse di serietà.

Quell’anno Santo doveva anche, nelle intenzioni del papa, rimettere un po’ di pace tra lui e i Romani che avevano assistito ai due famosi processi dei Cenci, e di Giordano Bruno ambedue conclusi con condanne a morte, che il popolo appunto, partecipando perlopiù per i condannati, aveva considerato l’espressione tipica di un regime dittatoriale.

Com’è noto, nella decapitazione della bella Beatrice Cenci si è voluto vedere spesso un errore giudiziario e, tra leggenda e realtà, la nobile romana è assunta al grado di martire ed eroina in numerose opere letterarie, dalla cronaca di Stendhal al romanzo di Guerrazzi, dal dramma di Moravia al testo recentissimo della Drudi.

E poi la condanna di Giordano Bruno, malgrado la sua dichiarazione che, in un processo a Venezia aveva dato in risposta agli inquisitori: “Ricuso, detesto tutti gli errori, come ogni dubbio sulla dottrina della Chiesa”.

Il processo di sette anni “tra interrogatori minuziosi e sfibranti, e minacce di ogni sorta, e torture atroci dovette fiaccare lo spirito di quell’uomo”, come nota il Molinari. Forse frate Jordano finì per riconoscersi  eretico, ormai incapace di reagire e difendersi, perché l’Avviso relativo alla condanna al rogo lo riconosce “eretico, pieno di ordinazione”. Ma è quasi certo, come ricorda il Seppelt, che quando “i giudici del Sant’Uffizio emisero nel 1599 la sentenza di condanna a morte di Giordano Bruno non erano del tutto convinti della sua colpa”.

L’Anno Santo, che “avrebbe dovuto essere l’anno del perdono”, secondo le parole dell’anticlericale Domenico Berti, lo vide sul rogo il 17 febbraio a Campo de’ fiori, là dove nel 1889 i Romani gli avrebbero eretto un monumento, vedendo in lui un simbolo della libertà umana e del dissenso.

In effetti, digiuni e preghiere a parte, Clemente VIII indiscutibilmente vide in persone come Giordano Bruno elementi che potevano nuocergli perché critici verso il suo modo di gestire il potere; e il domenicano non fu infatti l’unica vittima dell’Inquisizione romana di allora.

A questo papa, pur così asceta, piaceva lo sfarzo e il lusso tant’è vero che cominciò ad abitare nella residenza “estiva” del Quirinale, non ancora ultimato.

Tra gli avvenimenti più importanti del pontificato di Clemente VIII fu senz’altro la riconciliazione con Enrico IV.

Vista la situazione precaria in cui aveva ridotto le casse della Curia, anche a causa dei suoi numerosi viaggi, ricorse a nuove tasse e tutto il sistema di fiscalizzazione dello Stato della Chiesa fu riorganizzato. Insistette inoltre nell’applicazione dei decreti del concilio di Trento e pubblicò ad esempio un nuovo “Indice dei libri proibiti”, affidando per altro alla stampa un gran numero di pubblicazioni religiose, che diffondeva il più possibile la nuova dottrina cattolica. Clemente si era illuso di poter instaurare in Francia, come in Spagna, un’ennesima Inquisizione che sterminasse ogni opposizione al cattolicesimo.

Morì il 3 marzo 1605 e fu sepolto in S. Pietro, ma Paolo V provvide poi ad erigergli un mausoleo nella cappella Borghese di S. Maria Maggiore, anche se i lavori durarono a lungo e la salma vi poté essere trasferita solo nel 1646. E’ significativo quanto su di lui scrisse il Muratori, che vide nella sua morte e nell’estinzione della famiglia Aldobrandini una sorta di castigo divino: c’è chi in tutto questo poteva anche vedere compiersi un atto di giustizia nei confronti di Giordano Bruno.

   
         
         
   

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