La Filosofia

   
   

 

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I suoi interlocutori diretti sono l'aristotelismo scientifico dei grandi commenti, primo fra tutti quello di Averroé, ma anche l'aristotelismo scolastico di Alberto e Tommaso, il neoplatonismo cristiano di Ficino, Plotino e la teologia di Cusano, la tradizione dell'ermetismo astrologico e magico, dal Corpus hermeticum ad Agrippa sino ai "ricettari" magici, il naturalismo anti-aristotelico di Telesio e la medicina di Paracelso, il neopitagorismo sul cui terreno era fiorito il copernicanesimo, la rinascita lucreziana e materialistica, la tradizione dell'arte della memoria e l'ideale pansofico di Raimondo Lullo.

L'aristotelismo segnò, per lui inquadrato in una carriera sacerdotale, il primo passo verso un personale destino filosofico. Nel periodo che va dall’entrata in convento dei domenicani di Napoli al momento in cui ottenne la licenza in teologia (1575) Bruno ha modo di diventare un esperto, piuttosto fuor del comune anche a quei tempi, dell'opera aristotelica, ma è anche il momento in cui sorgono i primi dubbi e le prime perplessità sui dogmi cristiani: non c'era certamente nel suo animo la vocazione sacerdotale, ma, piuttosto la curiosità e l'irrequietezza del ricercatore. Si è supposto che Bruno abbia subìto l'influenza dell'alessandrinismo e dell'averroismo napoletano, soprattutto attraverso l'opera di Simone Porzio. Inoltre nel 1584 il filosofo stesso ci parla di una "svolta" al materialismo, sotto gli auspici del poema lucreziano, ritenuto più adatto a spiegare la natura di quanto non fossero i principi della filosofia di Aristotele.

E' intorno al 1578 che possiamo invece datare la grande e definitiva svolta bruniana al " dio pitagorico " e, in genere, ai temi della filosofia neoplatonica, in seguito all’influenza di Ficino e alla lettura delle sue traduzioni da Platone e Plotino.   Il Dio per Bruno non è affatto scomparso, ma si è trasferito nel mondo: per questo fisica e metafisica sono per lui una cosa sola e l’universo acquista tutti gli attributi finora riservati soltanto ai paradisi. Il risultato è un inno stupendo e continuo al mondo, alla “natura naturante”, alla materia feconda che contiene in sé il seme di tutte le cose, al Logos vivificatore e creatore: l’anima mundi, che sta nelle cose”come il nocchiero alla nave” è infatti per lui l’intelletto universale, la più reale e propria facoltà dell’anima del mondo “ è chiamato dai pitagorici motori et esagitator de l’universo…dà platonici fabro del mondo…dà maghi fecondissimo di semi, o pur seminatore…da noi se chiama arteficice interno, perché forma la materia e la figura da dentro, come da dentro del seme e o radice manda ed esplica il stipe; dal dentro il stipe caccia i rami; da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, gli fiori, gli frutti; e da dentro a certi tempi richiama gli suoi umori da le frondi e frutti alla brance, dalle brance agli rami, dagli rami al stipe, dal stipe alla radice…”

Bruno, a quel tempo, aveva certamente già scontato un processo di globale decristianizzazione del suo pensiero e ciò era avvenuto lungo la strada che l'aveva condotto dall'aristotelismo scientifico al materialismo. La religione cristiana non è questione di filosofia, e la filosofia scientifica, l'aristotelismo non meno del materialismo, ha altri oggetti che non siano i temi della rivelazione cristiana. Questo doveva essere per Bruno, come del resto per molti altri filosofi aristotelici del tempo, lo spartiacque tra i due campi. La filosofia, come sapere dell'oggetto naturale, quindi, subisce con Bruno un completo processo di autonomizzazione dai temi cristiani.

A Parigi, la vicinanza alla cultura alla corte di Enrico III che, dopo la tragedia delle guerre di religione, andava elaborando una propria linea contro-riformata autonoma dalla direttive tridentine, familiarizzò Bruno con i temi della religione e della politica.

Fu in questo ambiente che egli maturò una profonda ostilità nei confronti della cultura protestante accusata di settarismo religioso, di fanatismo, di anti-umanesimo, di conservatorismo culturale.

Bruno vedeva l'universalismo religioso del cattolicesimo francese con tutti gli elementi che gli derivavano dall'assorbimento del neoplatonismo fiorentino, la valorizzazione delle buone opere intesa come forma di educazione civile, l'interesse e il favore nei confronti dei nuovi temi astronomici e della tradizione astrologica. La concezione statalistico-monarchica costituisce la maggiore garanzia di felicità sociale, cioè di pace civile e di pace religiosa. All'ombra di un simile potere, libero da condizionamenti ecclesiastici e papali doveva prosperare il ceto intellettuale.

Fin da ragazzo era un esperto dell'arte della memoria, gli era infatti nota l'opera de mnemotecnica di Pietro di Ravenna. Da sussidio tecnico del discorso retorico, però, quest’arte era entrata in simbiosi con la filosofia, l'astrologia e la magia. Se il mondo nella sua molteplicità è l'espressione di un insieme di relazioni, di forze, di corrispondenze, il ricordare diviene il riprodurre nella mente con un sistema simbolico ciò che nella realtà costruisce la trama occulta dell'essere. Ricordare è quindi sapere, e sapere è situarsi nel cuore delle cose, capacità di manipolare il complesso gioco delle forze naturali.

La struttura gnoseologica che è in grado di cogliere i nessi reali ed occulti delle cose è l'immaginazione: sono le imagines  tra loro connesse a riprodurre nella mente il legame simpatetico, la catena che tiene uniti tra loro tutti gli esistenti. E qui è chiarissima la relazione tra questo tipo di gnoseologia e la tradizione astrologica. Se le imagines  (per es. quelle di una costellazione) non sono altro che le immagini che dal cielo presiedono alla vita terrestre e che fanno cadere sugli organismi viventi le loro influenze e quindi potenziano o deprimono le loro naturali virtutes , questo tipo di gnoseologia è già astrologia. La gnoseologia della immaginazione che evidenzia gli elementi che presiedono alle relazioni del molteplice, la ricerca di un'enciclopedia delle immagini astrologiche è un tema costante in Bruno. In questa concezione neoplatonica del mondo, però, la struttura del cielo è ancora quella aristotelica e Bruno, giunto a Parigi entra in contatto con il copernicanesimo che certamente era in discussione da tempo.

Da Parigi Bruno si spostò prima ad Oxford e successivamente a Londra dove platonismo e pitagorismo erano correnti culturali ben note, e quindi astronomia e matematica erano discipline intorno a cui si polarizzava l'attenzione del ceto nobile, ricco e colto. Qui il filosofo nolano godé fama di copernicano e scrisse la “Cena de le ceneri”, opera in cui ritroviamo i temi salienti di Bruno: il naturalismo animistico, secondo cui esistono "doi geni di sostanza", uno che forma e uno che è formato e in cui la natura appare come un organico sistema di corrispondenze e relazioni, la concezione dell'infinità dell'universo, la concezione della religione come strumento educativo per la gente comune.

Ma il tema centrale è naturalmente il copernicanesimo. Il sistema del cosmo va rovesciato: è il sole ad essere al centro del sistema e non la Terra. Le ragioni delle antiche cosmologie che consideravano il sole padre - del resto anche Aristotele - dispensatore di vita a tutti gli esseri, garante dell'armonia dell'universo erano senz'altro uno degli elementi attraverso cui l'eliocentrismo si mostrava come qualcosa di plausibile. Era tradizionale argomento del geocentrismo quello della pietra che, lasciata cadere a terra, cade perpendicolarmente al punto da cui è partita. Cosa che dovrebbe provare l'immobilità della terra. Tuttavia, replica Bruno, l'esperimento è vero, ma prova proprio il contrario, dato che il movimento della terra comprende anche il punto da cui viene lasciata cadere la pietra. Per l'osservatore terrestre, con i piedi ben piantati al suolo e con lo sguardo al cielo, non c'è dubbio che il sole cambia posizione e che anche le stelle mutano posizione pur mantenendo la medesima distanza tra loro. Se il copernicanesimo è la descrizione di come stanno le cose, il problema filosofico è quello di superare quest'ingannevole evidenza sensibile. Dal punto di vista gnoseologico non solo l'astrazione aristotelica è in crisi, ma anche l'evidenza  sensibile.

Copernico, però, pur rovesciando lo schema dell'universo, ne manteneva i limiti e il suo essere finito. La sfera delle stelle fisse nella cosmologia aristotelico-tolemaica ha l'ovvio significato di garantire il movimento comune delle stelle. Il fatto è che la finitezza dell'universo non era per nulla un puro fatto teorico. Un conto è pensare alla infinità dell'universo come ipotesi matematica o come nozione che le antiche cosmologie avevano elaborato, e una cosa profondamente diversa è pensarla come l'elemento corporeo nel quale viviamo e che vive in noi. La pensabilità dell'infinito come oggetto reale, onnicomprensivo, come condizione della vita, quadro d'assieme che riproporziona natura ed idee, eventi e finalità, pensare insomma l'infinito come un "accaduto vivente", richiede che siano forniti quadri mentali tali in cui l'insieme dei problemi che sono connessi alla considerazione di quest'oggetto sub specie realitatis , trovi un nuovo significato.

L'eliocentrismo copernicano rovesciava l'astronomia tradizionale ma non apriva incognite angosciose sulla certezza psicologica e culturale di appartenere ad un mondo in cui i mezzi di controllo umani sono pur sempre una misura applicabile all'universo nel suo insieme.

L’opera di Bruno, invece, è quella di disporre un modello teorico il quale mettesse in atto la possibilità intrinseca al sistema copernicano di abolire la sfera delle stelle fisse e quindi trasformare questa pura possibilità teorica in una necessità metafisica. Arriva, in questo modo, a fondere l’idea cusaniana dell’infinità dell’universo come una possibilità intrinseca a Dio e la tradizione emanatista del neoplatonismo. In questo caso dall'Uno-Dio emana l'infinità dell'universo. L'unità fonda l'infinità vivente, costituisce la trama della natura. Ovviamente perché questo modello funzioni occorre che l'emanazione dell'universo dall'Uno non sia un processo che avvenga per livelli gerarchicamente distinti gli uni dagli altri, perché ciò significherebbe reintrodurre il principio della differenza qualitativa e quindi spezzare l'unità qualitativa dell'essere. La riforma bruniana della teologia cusaniana ottiene così, l'uno di seguito all'altro, due risultati: la fondazione dell'infinità dell'universo e la presenza in tutto l'universo di mondi innumerevoli.

Dato che, sostiene Bruno, non è bene che lo spazio del nostro sistema planetario non sia riempito da corpi viventi, la stessa regola deve valere per tutta la dimensione dell'infinito.

Mondi senza numero nella infinità dello spazio. Tuttavia all’ esplicazione dell'Uno infinito non è soltanto correlata la dimensione spaziale e la infinità numerica, ma anche il fatto che in ogni vivente, nella sua finitudine, è presente l'infinito. L'infinito non è dunque soltanto il luogo della vita, ma il modo della vita. E in ogni organismo è interiore la struttura della Mens che trasforma la corporeità inerte in corporeità vivente. La natura, nella sua infinità, presenta quindi una sua omogeneità qualitativa: è lo stesso spiritus  che circola nella mole infinita. Lo spazio ora è spazio vivente e non puro vuoto e lo stesso principium plenitudinis  che consente di fondare la pluralità immunerabile dei mondi, fa sì che lo spazio non possa essere nulla. Esso è il luogo nel quale trascorre l'etere e lo spiritus e nel quale si diffonde la luce "specierum vehiculum" come dirà in una più tarda opera latina.

In tutti i corpi celesti, sostiene Bruno, vi è terra, aria, acqua e fuoco. In misura differente ogni corpo celeste è costituito dagli stessi elementi. Ciò significa che in tutto l'universo vi è anche uniformità di moti. Ciò significa che non vi è più sotto e sopra, e non vi è più un luogo migliore rispetto ad un altro. Occorre vivere nella uguaglianza metafisica. Era proprio questo il punto che costruiva l'elemento radicalmente nuovo rispetto al limite della rivoluzione copernicana e non c'è più un rapporto gerarchico. Ora queste conseguenze così drammatiche che gettano l'uomo perentoriamente in una nuova dimensione sono possibili proprio perché l'infinito bruniano non è un oggetto intellettuale, una finzione dell'intelligenza, ma è una corporeità vivente, un "animale" nel quale noi umani siamo e dal quale siamo costituiti. Così che l'accettazione del finito non ha consolazioni che consentono di evadere dalla situazione, se non, per il dotto, la consapevolezza che la morte del finito non è altro che il modo attraverso cui l'infinito vive il suo eterno processo. La morte è quindi un evento che accade in una proporzione finita, in un angolo antropomorfico e in una misura temporale.

Nell'occhio dell'eternitade  non c'è morte, ma solo un continuo mutare di forme sul dorso della natura.

 

La condizione indispensabile perché il problema dell'unità infinita dell'essere possa divenire oggetto della mente umana è che venga abbandonato l'orizzonte conchiuso e circoscritto dell'esperienza sensibile. Il senso non "sbaglia", ma dà "informazioni" che sono proporzionate al suo livello. L'illusione dei sensi non è un inganno percettivo, un traviamento psicologico, ma il contatto immediato con il mondo che non può presentarsi in un modo differente. Così l'illusione sensibile nella sua radicale realtà è l'organo fondamentale della vita quotidiana, è la certezza indistruttibile cui fa appello il comportamento comune. La verità, dice Bruno, è eterna e indistruttibile: essa è la stessa cosa dell'essere medesimo. Solo che il suo svelarsi avviene attraverso il suo riflettersi nella mente dell'uomo. Aprire dunque il problema gnoseologico delle modalità di accesso alla verità, significa esaminare quale sia il modo in cui nella mente umana possa riflettersi la verità dell'essere come uno infinito. Porre questo problema equivale a chiedersi com'è possibile abbandonare il condizionamento quotidiano del sensibile per giungere alla sfera dell'intelletto. Se il limite del senso è quello proprio della vita comune, abbandonare il limite del senso significa abbandonare l'esistenza comune. La metodologia della verità metafisica, della riproduzione nella mente dell'infigurabile Uno, è quindi una metamorfosi dell'esistenza o per lo meno una sua qualità estrema. E' necessario mostrare come fondamentale sia in Bruno il problema dell'accesso al punto di vista dell'intelletto e quale problematica porti con sé, perché senza questo riferimento la lettura degli Eroici furori risulta non appropriata. Spesso a portare fuori strada è la rigida contrapposizione  che si trova negli Eroici furori tra amore sensibile e amore intellegibile: il primo volto alla dimensione del finito, quindi effimero e transitorio, prigioniero della casualità e dei ritmi esteriori del tempo; il secondo definitivo e implacabile, la cui gloriosa esperienza libera l'uomo dal molteplice e dal transitorio per fissarne l'itinerario là dov'è la sua più elevata destinazione. L'amore sensibile è dunque la relazione, il vincolo, che si stabilisce con gli oggetti finiti la cui bellezza non è solo il rilucere della bellezza universale, ma è il modo in cui l'oggetto appare a chi vi ha gettato sopra lo sguardo. E quindi, di contro a questo amore che è esperienza di tutti, si oppone l'amore intellegibile che non mira ad impossessarsi di oggetti finiti, ma che s'impone il compito supremo di specchiare nella mente l'unità infinita del cosmo. I due amori si contrappongono in quanto hanno oggetti diversi, così come senso ed intelletto hanno orizzonti diversi. Gli Eroici furori sono quindi un'opera che esamina le condizioni che rendono possibile il processo della conoscenza: in questo senso essi sono certamente nella tradizione del più autentico platonismo. Così, solo quando l'uomo sia giunto alla condizione intellegibile, comincia la sua avventura conoscitiva. L'amore conduce sulla strada dell'intelletto conoscitivo, ma i risultati conseguiti accendono di nuovo amore. Così si compie il destino eccezionale del filosofo.

Se questo è l'apparato concettuale che rende pensabile l'esperienza gnoseologica dell'infinito, è ovvio concludere che l'apparecchio conoscitivo - il metodo - passa per l'esistenza stessa del filosofo, cioè per il suo modo di essere. E questa coincidenza è tanto esemplare negli Eroici furori che, nell'opera, i motivi della gnoseologia platonica dell'amore si intrecciano con quelli più propriamente autobiografici. Bruno racconta il suo avvicinamento alla verità: così che la storia della sua vita, gli episodi e le vicende, assumono il valore esemplare di un "itineriarum mentis in veritatem".

 

Quando abbiamo parlato delle condizioni teoriche che consentivano a Bruno di "fondare" l'infinito abbiamo fatto cenno alla riforma del neoplatonismo. Attraverso questa riforma Bruno può abbandonare la concezione gerarchica dell'essere e giungere alla sua concezione dell'Uno. Il De la causa, principio e uno  è l'opera in cui il Nolano persegue e consegue questo risultato. Bruno determina sostanzialmente tre principi dell'essere naturale: l'anima, l'intelletto, la materia. L'anima principio intellegibile che forma, la materia, principio corporeo, che è formata, l'intelletto come potenza dell'anima. In questo quadro viene avanzata l'ipotesi che la "grande unione" tra la forma e la materia di cui Bruno stesso aveva parlato, si trasformi nell'unificazione nella materia di ogni principio dell'essere. Ma Bruno aveva già conosciuto il materialismo e aveva concluso che esso non è idoneo a spiegare la vita della natura. Per giungere alla unificazione di materia e forma non c'era dunque che una strada: quella di modificare il concetto stesso di materia. Non bastava dunque mettere da parte la concezione aristotelica della materia come pura potenzialità, e non era sufficiente scartare la concezione della materia del neoplatonismo come prope nihil, e, quindi, trovarsi di fronte al concetto di materia della tradizione materialistica. Essa non avrebbe spiegato la "vita" della natura. E ormai da tempo che per Bruno l'unico modo per spiegare la vita, il movimento, l'istinto, la direzione degli organismi era quello di fare ricorso alla concezione dell'anima universale. Questo era certamente per Bruno il sedimento irrinunciabile dell’esperienza neoplatonica. La materia viene considerata sostrato sia delle cose corporee che delle cose incorporee. In questo modo la materia non è il negativo dell'anima universale, ma materia e anima formano una medesima unità. La "novità" che Bruno affidava al proprio pensiero era quest'immagine di un'unità organica dell'uno infinito, concepito come un animale infinito che, immobile nell'istante dell'eternità, nell'istante del tempo è movimento, generazione e morte, unità temporale di materia e di forma. Questa concezione dell'infinità naturale assume un carattere accentuatamente anti-umanistico. Rispetto a questa unità infinita, eterna, immobile, ogni altra cosa, ci dice Bruno, è "vanità". Ma questa non è la sola valenza che è tipica della concezione dell'infinità della natura.

   
         
         
   

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