Come e più che negli altri paesi europei, la fine del conflitto coincide in Italia con un'attesa di vaste e profonde trasformazioni politiche e sociali. La caduta del fascismo e la perdita di prestigio della dinastia sabauda, la partecipazione alla resistenza di vasti strati del mondo popolare ed operaio, la stessa disgregazione, nella parte settentrionale della penisola, della tradizionale struttura statale e l'insediamento nei principali centri amministrativi del centro-nord (prefetture, questure, municipi) di rappresentanti dei comitati di liberazione nazionale, alimentano la convinzione che con il 25 aprile  sia stato avviato un processo di rinnovamento destinato a spazzar via non solo quanto resta del regime littorio, ma anche il sistema di potere caratteristico dell'“Italietta” liberale e prefascista. 

Interpretando questo diffuso stato d'animo, il leader del partito socialista Pietro Nenni - intransigente antifascista, dopo l'originaria amicizia con Mussolini - parla di un “vento del nord” rivoluzionario o almeno radicalmente riformista. E nei primi mesi del dopoguerra sono in molti a sperare, o a temere, che la sua affermazione sia confermata dai fatti.

Artefice di questo rinnovamento dovrebbe farsi, dopo le dimissioni del governo Bonomi, previste dai patti intercorsi fra i partiti antifascisti, il nuovo ministero varato nel giugno del '45 da uno dei capi della Resistenza: Ferruccio Parri. Uomo di alta dirittura morale e di rigoroso antifascismo, Parri presiede un gabinetto sostenuto da democristiani, comunisti, socialisti, liberali, demolaburisti e membri del partito d'azione, di cui egli stesso è uno dei capi. Il suo programma prevede ampie riforme nel campo agrario, fiscale e monetario (con una sostituzione delle banconote circolanti accompagnata da un'imposta patrimoniale volta a colpire, fra l'altro, i sovraprofitti di guerra). Le drammatiche condizioni economiche e sociali in cui versa il paese all'indomani del conflitto rendono necessario un governo forte in grado di affrontare l'emergenza. Nonostante che l'apparato industriale sia stato quasi del tutto risparmiato dalle forze tedesche in ritirata, le capacità produttive del paese sono ridotte ad appena un terzo rispetto all'anteguerra. La moneta, soprattutto a causa delle “am-lire” diffuse dagli alleati, vale un ventesimo rispetto al 1938, i raccolti agricoli rispetto allo stesso anno sono addirittura dimezzati, mentre il blocco dei licenziamenti, imposto come misura d'emergenza, non ha certo eliminato la disoccupazione.

D'altra parte, per operare una politica di ampio respiro è necessario un solido supporto politico, e invece il partito d'azione è un piccolo partito che gode di molto credito presso gli ambienti intellettuali, ma di scarso seguito fra le masse. Certo, Parri nella sua azione riformatrice può appellarsi, invece che a un singolo schieramento, alle forze della Resistenza nel loro complesso; ma la stessa Resistenza, a guardar bene, è stata tutto sommato un movimento di minoranze privo di un vastissimo appoggio popolare, anzi quasi del tutto privo di radici, al sud della Toscana. Da Firenze in giù, nel suo complesso, la società italiana, profondamente segnata dal fascismo, presenta un aspetto molto diverso, con una forte presenza della chiesa, specie nel mondo rurale, e un ceto medio preoccupato per l'epurazione antifascista che Parri vuol estendere anche ai “pesci piccoli”, con un'intransigenza morale poco gradita in un paese dove la iscrizione al Pnf è stata, negli anni Trenta, un fenomeno di massa. (Più realisticamente il Pci, con Togliatti, reclamerà una vasta amnistia). Portavoce dell'insofferenza di certi strati della piccola borghesia nei confronti di Parri e della sua politica nasce addirittura un nuovo partito, il cosiddetto “Uomo qualunque”, che raccoglierà per qualche tempo i suffragi dell'estrema destra.

A rendere difficile l'opera del nuovo ministro concorre anche la poco rassicurante situazione dell'ordine pubblico. La normalizzazione delle formazioni partigiane e il reinserimento dei loro componenti nella vita civile si rivelano ben presto un problema di soluzione non facile. Lo stesso appello alla riconsegna delle armi non sempre viene ascoltato, mentre molti giovani sbandati, cresciuti nel clima di violenza tipico della guerra civile, danno vita ad organizzazioni, come la milanese “Volante rossa”, a metà strada fra aspirazioni rivoluzionarie e delinquenza comune. In tutto il paese la corruzione e la caduta dei tradizionali valori morali che hanno accompagnato in molti casi il conflitto e l'occupazione alleata - basti pensare al fenomeno della “borsa nera”, ossia dei prodotti alimentari venduti fuori dei prezzi calmierati - hanno provocato un'enorme crescita della criminalità, che le deboli forze di polizia non sempre sono in grado di arginare e cui la diffusa disoccupazione assicura una vasta manovalanza. Persino i confini nazionali sono minacciati dalle ambizioni iugoslave sulla Venezia Giulia, dalle mire francesi sulla Vai d'Aosta, e dal separatismo siciliano. In questo clima, nel quale sull'attesa delle riforme prevale l'esigenza di una normalizzazione, il democristiano Alcide De Gasperi, con il consenso dei comunisti, succede nel dicembre del '45 al leader del partito d'azione.

Il primo gabinetto De Gasperi si pone fra i suoi primi compiti quello di avviare un processo di normalizzazione anche sotto il profilo istituzionale, organizzando le prime consultazioni amministrative e fissando la data del referendum, e delle contemporanee elezioni, con cui il popolo italiano sarà chiamato a scegliere fra monarchia e repubblica e a darsi una costituzione. Le consultazioni amministrative si svolgono fra il marzo e l'aprile del 1946 e confermano che l'Italia uscita dal fascismo e dalla guerra è assai diversa dall'Italietta prefascista di oltre venti anni prima. I liberali, un tempo maggioranza, sono ridotti a un piccolo partito che può vantare tutt'al più l'autorità morale di alcuni suoi “grandi vecchi”, come il filosofo Benedetto Croce e l'economista Luigi Einaudi. La stessa sorte conosce il partito d'azione, mentre si registra la massiccia affermazione dei grandi partiti di massa: da un lato i socialisti e i comunisti, che sfiorano, alleati, il quaranta per cento dei suffragi; dall'altro la democrazia cristiana, erede del partito popolare, che, con un terzo circa dei voti, si presenta come il partito di maggioranza relativa. Partito composito, con la sua dottrina sociale interclassista, la Dc può contare su un vasto elettorato popolare, soprattutto fra i ceti contadini, nel sud e nelle zone “bianche” del settentrione; ma gode anche delle simpatie del ceto medio impiegatizio e dei suffragi di una media ed alta borghesia spesso agnostica, ma timorosa del comunismo e portata a vedere nel simbolo del partito di De Gasperi, lo scudo crociato, più che la croce, lo scudo contro il “pericolo rosso”.

Se le elezioni per l'assemblea costituente, svoltesi il 2 giugno '46, confermano questa tendenza di fondo, anche i risultati del referendum istituzionale, tenuto contemporaneamente, sono indice di un'avvenuta trasformazione dell'elettorato, pur confermando che nel paese l'attaccamento alle istituzioni tradizionali non è del tutto scomparso. 

Previsto dagli accordi intercorsi fra Vittorio Emanuele III e i partiti, il plebiscito con cui il popolo italiano è chiamato a scegliere fra repubblica e monarchia vede quasi tutti i partiti italiani schierati a favore della prima. Solo i portavoce del Pli e dell'Uomo qualunque assumono una posizione neutrale; a favore della repubblica si schierano tutti gli altri, compresa la democrazia cristiana, che però lascia ai propri iscritti la facoltà di votare secondo coscienza. A sfavore della monarchia giocano la collusione col fascismo, il coinvolgimento nella guerra, il discutibile comportamento tenuto dal re in occasione dell'8 settembre. Né d'altra parte l'erede al trono Umberto, a favore del quale il padre ha abdicato tardivamente il 9 maggio, è in grado di ripristinare un prestigio offuscato dal tempo. Oltre tutto i risultati delle precedenti amministrative, che vedono il successo dei partiti repubblicani, inducono buona parte dell'opinione pubblica moderata a rassegnarsi alla forza delle cose, nella convinzione che una repubblica forte sia preferibile ad una monarchia debole, condizionata da un consenso troppo esiguo. In realtà i risultati del 2 giugno testimoniano di una spaccatura nel paese assai maggiore di quanto le posizioni assunte dai partiti non inducano a credere. La repubblica vince, ma non in maniera schiacciante, con 12.717.923 voti, contro i 10.719.284 suffragi a favore della monarchia, e in presenza di quasi un milione e mezzo di schede nulle. I monarchici contestano i risultati, accusando gli avversari di brogli elettorali e adducendo anche il fatto che esclusi dal voto sono stati, oltre a molti prigionieri di guerra non ancora liberati, gli abitanti dell'Alto Adige e della Venezia Giulia. Per qualche tempo Umberto rifiuta di partire, attendendo che la corte di cassazione proclami in via definitiva i risultati; ma infine prevalgono le pressioni di De Gasperi, preoccupato di risolvere una questione istituzionale che rischia di divenire insidiosa, e il “re di maggio” - cosi ironicamente chiamato per avere regnato meno di un mese - abbandona l'Italia per l'esilio.

Assicurata la normalità istituzionale, mentre procedono i lavori dell'assemblea costituente che dovrà fornire l'Italia di una nuova carta fondamentale, De Gasperi può affrontare i problemi della normalizzazione, sia sul terreno interno sia su quello istituzionale. Una indubbia onestà morale, di cui ha già dato prova accettando l'emarginazione negli anni del fascismo, ed innate doti di rigore e di concretezza aiutano nel suo compito lo statista trentino, deputato al parlamento austriaco sino al 1918, è in seguito rappresentante di spicco del partito popolare. In politica interna, De Gasperi provvede alla sostituzione con personale di carriera dei prefetti e degli altri alti burocrati nominati dai vari comitati di liberazione nazionale. E' la rivincita della burocrazia e del ceto impiegatizio, compromessi spesso con il regime e persino con il fascismo di Salò: una rivincita cui si aggiunge l'amnistia che il ministro della giustizia Togliatti concede agli ex militanti della repubblica sociale ed anche agli ex partigiani coinvolti in reati comuni. Sul terreno economico, il processo di ricostruzione è avviato secondo un disegno di tipo liberistico (ministro Epicarmo Corbino).

Assai più arduo e penoso è il compito che si trova ad affrontare nella sua politica estera lo statista trentino, chiamato ad accettare il trattato di pace imposto dalle potenze vincitrici al nostro paese. Esclusa dalle trattative, considerata a pieno titolo una nazione vinta, nonostante la cobelligeranza e la lotta di resistenza antitedesca, l'Italia è chiamata ad accettare una pace punitiva, anche se meno onerosa di quella toccata ad altre nazioni coinvolte nel conflitto. Oltre a dover accettare alcune modeste rettifiche del confine con la Francia, la rinunzia di fatto all'Istria e alla Dalmazia, a beneficio della Iugoslavia, la trasformazione della città di Trieste in un “territorio libero” sotto l'amministrazione angloamericana, l'Italia perde (anche per successive scelte dell'Onu) tutte le sue colonie, comprese la Libia e la Somalia, rimasta per qualche tempo in amministrazione fiduciaria, l'Albania, divenuta una nazione indipendente a regime comunista. Deve inoltre cedere alla Grecia le isole di Rodi e del Dodecaneso, che nel 1912 aveva sottratto all'impero ottomano.Contro il trattato di pace si schiera per ovvi motivi la destra nazionalista e nostalgica; ma contrari all'accettazione sono anche molti esponenti della classe dirigente prefascista come Vittorio Emanuele Orlando, Benedetto Croce, don Luigi Sturzo. Essi contestano soprattutto l'atteggiamento punitivo nei confronti di una nazione che dopo l'8 settembre, non senza pagarne pesantemente le conseguenze, si è schierata contro la Germania nazista. Alla fine però prevalgono la logica della normalizzazione e il desiderio di far cessare l'occupazione militare alleata, e De Gasperi, che ha difeso con dignità esemplare le ragioni dell'Italia alla conferenza di Parigi, dove gli è stato concesso di parlare, riesce a far votare il trattato di pace da una riluttante assemblea costituente, nel luglio del 1947. A rendere più sopportabile il trattato di pace concorre anche l'atteggiamento tollerante di Francia, Inghilterra e Usa nei confronti del problema dei danni di guerra. Non solo infatti le potenze occidentali, evidentemente preoccupate di favorire la stabilizzazione del nostro paese in piena guerra fredda, vi rinunciano completamente, ma sovvenzioni e prestiti statunitensi ci consentono di pagare le onerose riparazioni richieste dagli altri paesi belligeranti, ed in particolare dalla Iugoslavia e dall'Urss, che reclamano rispettivamente 125 e 100 milioni di dollari.

Già da tempo De Gasperi si è reso conto che uno stretto rapporto con gli Stati Uniti non solo è utile per superare l'isolamento diplomatico del paese, ma è necessario a superare le pesantissime condizioni economiche in cui l'Italia versa dopo la disfatta. 

Con questi intenti lo statista trentino compie nel gennaio del '47 il suo primo viaggio negli Usa durante il quale, insieme alla promessa, puntualmente mantenuta, di nuovi aiuti economici, riceve esplicite pressioni affinché la normalizzazione della situazione politica nella penisola avvenga attraverso l'estromissione dei comunisti dal governo. La scissione dal partito socialista, favorevole a una stretta alleanza con il Pci, della minoranza riformista, che forma sotto la guida di Giuseppe Saragat il futuro partito socialdemocratico, pone nel frattempo le premesse politiche per un'operazione di questo genere. Per il momento, però, prevale la logica della collaborazione, anche in vista dell'elaborazione della carta costituzionale. Questa, infatti, avviene in un clima di cooperazione, e spesso di compromesso, fra le principali forze antifasciste: una cooperazione che si traduce fra l'altro nell'approvazione da parte dei comunisti dell'articolo 7, in cui trovano conferma i patti lateranensi stipulati fra governo fascista e Santa Sede e i relativi privilegi accordati alla chiesa cattolica. Per il resto la nuova costituzione nasce dalla confluenza fra tradizione liberale, istanze di solidarismo cristiano e suggestioni socialiste. Ne deriva un testo che si presta ad una lettura molto elastica e, facendo dell'Italia una repubblica parlamentare in cui il governo è strettamente sottoposto al controllo delle camere e il capo dello stato ha funzioni essenzialmente rappresentative, riflette, a pochi anni dalla caduta della dittatura fascista, la preoccupazione di un costante equilibrio dei poteri e le diffuse diffidenze verso un esecutivo troppo forte. La nuova costituzione entra in vigore il 1 gennaio del 1948.

La politica di normalizzazione è tutt'altro che indolore. Il primo ministero De Gasperi è costretto a muoversi in un clima di tensioni sociali spesso violente, mentre la disoccupazione non migliora e l'inflazione non è ancora tenuta a freno. Nel Mezzogiorno sono frequenti le occupazioni di terre da parte di braccianti disoccupati; al nord, mentre il vertice del Pci manifesta la sua adesione alle regole del gioco democratico, presso la base comunista e molti ex partigiani è diffusa la speranza di una soluzione insurrezionale e continua comunque la pratica di metodi illegalistici. La polizia di De Gasperi è senza dubbio più adatta di quella di Parri a contrastare queste spinte rivoluzionarie. Sotto la guida del ministro dell'interno Scelba è stata irrobustita negli organici e soprattutto epurata degli elementi di sinistra, in prevalenza ex partigiani, che vi erano stati immessi nell'immediato dopoguerra. Quando, nella primavera del '47, la situazione economica subisce un ulteriore deterioramento provocando un riacutizzarsi delle tensioni sociali, le forze dell'ordine hanno la mano particolarmente pesante nel reprimere le manifestazioni operaie. In numerosi casi il ricorso abituale alle armi da fuoco provoca morti e feriti fra i manifestanti. In questo clima di accesi contrasti interni e di diffusa violenza, cui viene ad aggiungersi l'eco delle vicende dell'Europa orientale, De Gasperi ritiene giunto il momento di procedere a quello “strappo” con il Pci che gli Stati Uniti da tempo sollecitano e che è auspicato anche dal Vaticano, orientato in senso sempre più drasticamente anticomunista anche dagli attacchi che il clero cattolico subisce nei paesi dell'est. Nel maggio del '47 lo statista trentino rompe l'alleanza con i comunisti, dando vita a un governo “monocolore” democristiano, che si avvale di qualificati tecnici di orientamento liberale, come Luigi Emaudi e Cesare Merzagora, e si regge col sostegno delle destre. De Gasperi, ancora una volta, riesce ad evitare (anche per l'atteggiamento paziente tollerante e fiducioso di Togliatti) le contrapposizioni troppo nette e, per sottrarsi ai condizionamenti delle destre, vara già nel dicembre, il primo di una serie di ministeri centristi, con la collaborazione dei liberali, dei socialdemocratici e dei repubblicani, nei quali sono confluiti molti appartenenti al partito d'azione, nel frattempo discioltosi. Su queste basi De Gasperi può riprendere la politica di ricostruzione e normalizzazione avviata giˆ in precedenza. Mentre Einaudi compie il “salvataggio della lira”, attraverso una linea rigidamente deflazionistica, che penalizza la speculazione ma al tempo stesso, almeno in un primo tempo, aggrava la disoccupazione, la Confindustria ottiene lo sblocco dei licenziamenti: la ricostruzione, sovvenzionata con il denaro del piano Marshall, si accompagna a un progressivo allargamento dei poteri imprenditoriali.

Si giunge così alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, da cui dovrà uscire il primo parlamento dell'Italia repubblicana. Comunisti e socialisti, coalizzati in un fronte unitario, che ha come simbolo il volto di Garibaldi, sperano di raggiungere la maggioranza assoluta. Glielo fanno credere l'entusiasmo di molti intellettuali, le folle osannanti che nel sud si inginocchiano dinanzi al mitico sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio, il successo delle grandi manifestazioni di massa. Sembra quasi che tutta l'Italia che conta - l'Italia del cinema neorealista che in questi anni raggiunge i suoi maggiori successi e quella delle folle operaie e contadine -, sia schierata senza esitazioni a favore del “fronte di Garibaldi”. I risultati elettorali smentiscono ben presto questa apparenza: il 18 aprile si risolve in un massiccio successo della Dc, che sfiora la maggioranza assoluta dei suffragi, con il 48,5 per cento dei voti, e raggiunge la maggioranza assoluta dei seggi, mentre le sinistre non ottengono neppure un terzo dei consensi. Sulla vittoria democristiana influiscono numerosi fattori. Giovano alla Dc il peso e il prestigio della chiesa in un popolo composto ancora da una maggioranza di credenti e praticanti; l'eco delle vicende dell'Europa orientale, e in particolare del colpo di stato in Cecoslovacchia; il filoamericanismo diffuso in un paese nel quale in molte famiglie è proverbiale la figura dello “zio d'America”, emigrato e spesso arricchito negli Usa, e nel quale - come ricordava esplicitamente un celebre manifesto elettorale disegnato da Giovanni Guareschi, direttore del settimanale “Candido” - metà di ogni pagnotta presente nelle dispense è stata confezionata con grano regalato dagli Stati Uniti. Per le sinistre, che hanno accettato l'estromissione con la speranza di una rapida rivincita, è una sconfitta inattesa. Poco dopo, però, il gesto omicida di un esaltato sembra fornire loro l'occasione di una rivincita altrettanto inattesa. Nel luglio del '48 uno studente di estrema destra attenta alla vita del segretario comunista Togliatti, ferendolo gravemente. La Cigl risponde con uno sciopero generale, mentre in numerose zone del paese scoppiano focolai d'insurrezione armata, contro cui interviene lo stesso esercito. L'Italia per un momento sembra sull'orlo della guerra civile e ad evitare il peggio è solo l'intervento responsabilmente moderatore dello stesso Togliatti, consapevole forse che uno scontro frontale contro il governo legittimo, in un paese al di qua della cortina di ferro, si concluderebbe come in Grecia. Unico strascico di queste giornate di fuoco rimane così la scissione sindacale: per ritorsione contro la maggioranza socialcomunista del sindacato, che ha proclamato lo sciopero le componenti laica e cattolica della Cigl fanno secessione fondando rispettivamente la Uil e la Cisl. Quanto a De Gasperi egli è consapevole della sua forza, ma anche dei condizionamenti che ne limitano l'azione. Poco organizzata come partito, la Dc deve infatti il suo successo all'appoggio di un clero generalmente conservatore e al sostegno di fortissime organizzazioni collaterali, come l'associazione dei coltivatori diretti. Le parrocchie e i nuclei di Azione cattolica controllano, attraverso i vari “comitati civici”, l'elezione dei parlamentari, privilegiando spesso i candidati più rigidamente anticomunisti. Anche per ovviare a questi condizionamenti, il leader democristiano prosegue, pur detenendo la maggioranza assoluta, l'alleanza con i partiti laici e persegue, come vedremo, una politica di sia pur cauto riformismo, destinato a porlo in contrasto con molti sostenitori del suo partito. I risultati di questa politica non tardano a manifestarsi. Se la convinta adesione di De Gasperi alla Nato e ai primi passi della comunità europea contribuisce a sottrarre il paese all'isolamento diplomatico successivo alla sconfitta, la politica liberista dei governi centristi consegue notevoli risultati sul terreno economico: basti pensare che fra il '48 ed il '54 la produzione industriale cresce dell'81 per cento rispetto all'anteguerra, con un vistoso aumento della produttività media. Rimangono sul tappeto per˜ numerosi problemi, risultato in parte di un processo storico che ha profondamente segnato lo sviluppo delle varie aree della penisola. Esiste per esempio un diffuso analfabetismo, che riguarda il 12 per cento della popolazione, secondo il censimento. del '51; e c'è soprattutto l'enorme divario fra nord e sud: un divario che la crescita economica, invece di ridimensionare, accresce a tutto svantaggio di quest'ultimo. Nel 1953, cosi, il reddito pro capite di un milanese sfiora le 349.000 lire, mentre quello di un abitante di Agrigento non raggiunge le 67.000 lire. Una netta differenza solo in parte compensata dal minore costo della vita nel Mezzogiorno. Per la risoluzione di questi problemi la classe dirigente democristiana, ed in particolare le correnti di sinistra, propongono essenzialmente due strade. Da un lato c'è l'utilizzazione per nuovi scopi degli enti pubblici economici creati dal fascismo; dall'altro la strada delle riforme. Nel primo campo si assiste al potenziamento non solo dell'Imi e dell'Iri, ma soprattutto dell'Ente nazionale idrocarburi. L'ex partigiano cattolico Enrico Mattei, trasformatosi in imprenditore pubblico, potenzia notevolmente questo piccolo organismo nato all'epoca dell'autarchia. Per farlo non si limita a ricercare fonti energetiche alternative (il metano della pianura padana), ma si pone in concorrenza sui mercati internazionali con le grandi compagnie petrolifere. Per raggiungere con maggiore efficacia tali scopi, Mattei giunge a realizzare un piccolo impero personale, che con l'andare del tempo comprenderà persino giornali quotidiani incaricati di sostenere i governi che ne appoggiano la linea politica. La strada delle riforme comprende invece la fondazione, nel 1950, della Cassa per il Mezzogiorno, e, nello stesso anno, il varo della riforma agraria . La prima si propone la creazione di infrastrutture per il Mezzogiorno e per altre aree depresse della penisola; con uno sforzo finanziario massiccio ma spesso vanificato dalla carenza di una seria programmazione o, peggio, dal peso di preoccupazioni clientelari. Quanto alla riforma agraria, essa conduce all'esproprio di 750.000 ettari nelle aree depresse dell'Italia centrale e meridionale, dalla Maremma alla Basilicata, dal Fucino alla Sicilia, e alla loro distribuzione a centomila famiglie di braccianti sprovvisti di terra. Obiettivo politico della riforma è la creazione di un ceto di coltivatori diretti difficilmente permeabili all'influenza delle ideologie collettiviste; ma in buona parte questi intenti sono vanificati dalla scarsa assistenza tecnica fornita ai nuovi proprietari e soprattutto dall'eccessivo frazionamento dei fondi, che li rende poco remunerativi.

Il cauto riformismo degasperiano, se non assicura alla Democrazia cristiana nuovi rilevanti consensi all'interno dei ceti popolari, suscita invece ostilità e diffidenze nelle destre, sia interne che esterne alla Dc. All'esterno, dopo la disgregazione dell'Uomo qualunque, si registra la nascita del movimento sociale italiano, costituito da nostalgici del fascismo e da reduci di Salò, e soprattutto lo sviluppo di un vasto partito monarchico che, specie in certe regioni del sud, come la Campania, presenta le caratteristiche di un vero e proprio partito di massa. Soprattutto a beneficio di questi due partiti la Democrazia cristiana perde quasi quattro milioni di voti alle elezioni amministrative del '51 e del '52.

All'interno De Gasperi deve invece fare i conti con un episcopato conservatore e un mondo cattolico diffidente contro chi, come lui, ha avuto il coraggio di definire la Democrazia cristiana “un partito di centro che guarda verso sinistra”. Particolarmente forte fra i suoi oppositori, è la figura di Luigi Gedda, il presidente dell'Azione cattolica. Questi, con l'avallo di Pio XII e dello stesso don Sturzo, si fa promotore nelle elezioni locali a Roma di un'alleanza con le destre per impedire l'elezione di una giunta socialcomunista. In questo clima non facile lo statista trentino matura un disegno politico volto sia a rafforzare il governo contro le opposizioni, sia a consolidare la sua posizione nel partito ancorandolo alla formula centrista. Vengono così varate da un lato la legge Scelba, che punisce ogni tentativo di ricostituzione del disciolto partito nazionale fascista o anche di apologia del fascismo, e la legge maggioritaria, che prevede un consistente premio di maggioranza alla coalizione di partiti che abbia raggiunto il cinquanta per cento dei voti. Se la prima è soprattutto uno strumento di pressione verso il Msi, contro il quale però non verrà mai applicata, la seconda raccoglie le unanimi opposizioni della destra e della sinistra che, ribattezzandola “legge truffa” e tracciando poco lusinghieri paragoni con la legge Acerbo del '24, ingaggiano contro di essa un'aspra battaglia, condivisa anche da certi settori dei partiti laici. Nelle elezioni del 1953, così, per poche migliaia di voti la coalizione di centro non ottiene la maggioranza e la Dc scende dal 48,5 al 40 per cento dei suffragi, cedendo seggi alla sinistra ma soprattutto alla destra monarchica e missina, gradita al 13 per cento degli elettori. De Gasperi non sopravvive a questo fallimento, che segna anche la sua fine politica: morrà appena un anno dopo le elezioni, emarginato dai suoi stessi compagni di partito. Gli sopravvive invece il centrismo, ma con coalizioni deboli ed esposte ai ricatti e alle pressioni delle opposizioni, soprattutto di destra: le meno adatte, forse, a governare l'Italia negli anni ricchi di speranze ma anche di pericoli del cosiddetto miracolo economico.

La transizione a un nuovo schieramento politico fu resa possibile dai cambiamenti che si erano avuti sulla scena politica mondiale in seguito alla distensione e al mutamento dell'atteggiamento della Chiesa, che con Giovanni XXIII aveva abbandonato l'ostilità a un allargamento della maggioranza governativa a sinistra. Fu resa inoltre indispensabile dal forte sviluppo dell'economia italiana che si ebbe dal 1958 al 1963 e che fu definito miracolo economico , per la rapidità dei progressi compiuti. Nel 1953 l'Italia era ancora una società povera, in cui poco più del 31% degli abitanti lavorava nel settore industriale, mentre i lavoratori del settore agricolo superavano il 42%. Il reddito individuale degli Italiani era un tredicesimo di quello degli Statunitensi e un quinto di quello dei Tedeschi, che pure avevano perso la guerra. Un quarto delle case italiane erano senza acqua e tre quarti senza bagno.

Nel 1954 la Fiat cominciò a produrre la Seicento , il cui acquisto fu reso possibile a molte famiglie, sia a causa del suo costo non elevato (accorrevano diciassette mensilità di salario medio) sia grazie alle possibilità di pagamento rateale: nel 1956 fu superato il milione di autoveicoli circolanti in Italia e anche successivamente l'incremento fu sostenuto e continuo. Nel 1954 ebbero inizio anche le trasmissioni televisive. Nel 1956 il numero degli apparecchi televisivi era già superiore ai 360.000, che costituirono la base di partenza per la diffusione di massa e che comunque erano già utilizzati da un numero molto più elevato di utenti: interi caseggiati si riunivano la sera intorno all'apparecchio posseduto dalla famiglia che aveva già potuto acquistarla. Se la motorizzazione di massa diede agli Italiani una possibilità di movimento prima sconosciuta, facendoli uscire dal territorio ristretto (il quartiere, la città) in cui erano vissuti fino a quel momento, la televisione unificò gusti e forme di svago. Anche la reale unificazione linguistica degli Italiani compì molti passi avanti.

L'adesione dell'Italia alla CEE nel 1957 coincise con l'avvio del vero e proprio miracolo economico (1958). Gli effetti del boom economico furono evidenti anche nella modernizzazione delle rete viaria italiana: nel 1957 esistevano sala 479 chilometri di autostrade; nel 1964 l'autostrada del Sole unì Napoli alle città del Nord. 

Ma il miracolo economico ebbe anche costi sociali elevati. La sviluppo industriale si verificò soprattutto a Torino e a Milano e provocò una grande migrazione: in un prima momento interessò lo stesso Nord, dove centinaia di migliaia di persone si spostarono dal Veneto al Piemonte e

alla Lombardia in cerca di lavoro; in seguito riguardò soprattutto spostamenti dal Sud del paese verso il Nord. alla Lombardia in cerca di lavoro; in seguito riguardò soprattutto spostamenti dal Sud del paese verso il Nord. 

Gli italiani che in passato avevano cercato lavoro all'estero poterono così trovarlo in Italia, ma l'afflusso di immigrati dalle campagne del Mezzogiorno alle grandi città industriali del Nord creò seri problemi sia nelle terre d'origine (spopolamento) sia a Torino e a Milano, dove la questione degli alloggi diventò di difficile soluzione. Anche l'integrazione tra gli immigrati e la popolazione locale non fu facile, per la diversità delle abitudini e delle tradizioni. La situazione politica si adeguò solo lentamente alle trasformazioni economiche.

l centrismo poteva essere considerato in crisi già nel 1954, alla morte di De Gasperi, ma il primo governo organico di centrosinistra, formata cioè dalla DC, dal PSI, dal PSDI e dal PRI, potè essere formato solo nel dicembre del 1963. La destalinizzazione non aveva provocata una riduzione significativa della base elettorale comunista, ma aveva dato nuova forza al Partito socialista che alle elezioni del 1958 registrò alcuni progressi che sembrarono testimoniare l'appoggio degli elettori a una linea di autonomia dal PCI. Nel comitato centrale che si svolse nel gennaio del 1959 gli autonomisti, guidati da Nenni, conquistarono la maggioranza: da parte dei socialisti la via al centrosinistra era aperta. Ma nella DC restavano forti resistenze. Nella stesso 1959 all'interno di quel partito nacque una nuova corrente (chiamata dorotea perchè tenne la sua prima riunione nel convento di Santa Dorotea, a Roma), che si propose di mantenere alla Dc un'impronta moderata, in grado di assorbire i processi di trasformazione senza farsene travolgere: i dorotei temevano che la realizzazione del centrosinistra potesse far perdere alla DC una parte dell'elettorato moderato e volevano perciò che l'avvicinamento al Partito socialista avvenisse molto lentamente. Al congresso che si tenne nell'ottobre fu eletto segretario del partito Aldo Moro, che cercava di mantenere una posizione intermedia tra i dorotei e la sinistra di Fanfani, per evitare fratture. Ma il rischio di una frattura della DC diventò egualmente reale nel febbraio del 1960, quando il presidente della repubblica Giovanni Gronchi affidò l'incarico di formare un nuova governo a Fernando Tambroni, che ottenne i voti del MSI, caratterizzandosi così come un governo di destra. L'antifascismo rappresentava ancora un'ideologia profondamente radicata e fu in nome dell'antifascismo che si sviluppò una dura lotta politica al governo Tambroni. Quando, a giugno, il MSI tentò di tenere il suo congresso a Genova, una città che aveva dato un grande contributo alla Resistenza, si ebbe una decisa protesta popolare che si espresse in imponenti manifestazioni. Tambroni reagì con la forza. Negli scontri con la polizia morirono alcuni dimostranti e la protesta si allargò a tutta l'Italia, provocando una spaccatura all'interna del gruppo dirigente della DC. La crisi fu risolta da Moro, con l'invito a Tambroni ad abbandonare il governo e con la formula delle “convergenze parallele”, che avrebbe dovuto consentire al PSI di rendere possibile, con l'astensione, la formazione di un nuovo governo guidata da Fanfani. Fu solo nel gennaio del 1962 che Moro potè avanzare una proposta organica di centrosinistra. La situazione internazionale era cambiata, dopo l'elezione di Kennedy a presidente degli Stati Uniti e, con il pontificato di Giovanni XXIII, era caduta anche l'opposizione della Chiesa. La sinistra democristiana vedeva nel centrosinistra la possibilità di realizzare i postulati della dottrina sociale della Chiesa nella più avanzata formulazione che avevano ricevuto con Giovanni XXIII. La destra vi vedeva invece un pericoloso spostamento a sinistra. Moro da un lato sosteneva, con la sinistra, che la DC doveva essere un partito radicato negli strati popolari e aperto alle loro esigenze; dall'altra offrì alla destra una garanzia, facendo eleggere alla presidenza della Repubblica, nel maggio del 1962, un democristiano moderato nella persona di Antonio Segni. Nel novembre 1962 si procedette alla nazionalizzazione delle industrie elettriche e fu creato l'Ente Nazionale Energia Elettrica (ENEL); in dicembre fu istituita la Scuola Media Unica che pose termine alla separazione classista fra i vari tipi di scuola secondaria inferiore esistiti fino ad allora, e soddisfece almeno in parte la massiccia richiesta di scolarizzazione legata allo sviluppo generale della società italiana.(Prima dell'istituzione della Scuola Media Unica, i ragazzi, frequentata la “scuola primaria” - cioè le elementari -, si iscrivevano o alla Scuola Media o alle Scuole professionali d'avviamento al lavoro : la prima era, di fatto, riservata a coloro che poi avrebbero continuato gli studi, cioè ai figli delle classi medie o alte; alle Scuole d'avviamento al lavoro affluivano invece i figli delle classi meno abbienti, quando non abbandonavano gli studi al termine delle elementari o anche prima (come pure accadeva). Il vecchio ordinamento scolastico, pertanto, anzichè cercar di attenuare almeno sul piano educativo le differenze di classe, contribuiva a ribadirle.(Prima dell'istituzione della Scuola Media Unica, i ragazzi, frequentata la “scuola primaria” - cioè le elementari -, si iscrivevano o alla Scuola Media o alle Scuole professionali d'avviamento al lavoro : la prima era, di fatto, riservata a coloro che poi avrebbero continuato gli studi, cioè ai figli delle classi medie o alte; alle Scuole d'avviamento al lavoro affluivano invece i figli delle classi meno abbienti, quando non abbandonavano gli studi al termine delle elementari o anche prima (come pure accadeva). Il vecchio ordinamento scolastico, pertanto, anzichè cercar di attenuare almeno sul piano educativo le differenze di classe, contribuiva a ribadirle.

Il programma del centro-sinistra, cioè di un'alleanza di governo tra democratici cristiani e socialisti, con l'esclusione dei comunisti, si andò precisando nel corso del 1963: nella sua formulazione più avanzata prevedeva la nazionalizzazione dell'industria produttrice di energia elettrica e una legge urbanistica che consentisse ai comuni, attraverso la proprietà dei suoli, d'impastare piani regolatori ispirati alla razionalità. Nel dicembre del 1963 nacque il primo governo organico di centrosinistra, ma, per le resistenze che incontrava anche al suo interno, la sua azione riformatrice fu incerta e nel giugno del 1964 fu costretto a dimettersi. Si aprirono allora giorni molto difficili per la democrazia italiana, perchè si diffusero voci su un possibile colpo di stato, che spinsero il leader socialista Pietro Nenni a rinunciare alle richieste di riforme più avanzate pur di rendere possibile la formazione di un nuovo governo in cui entrassero anche i socialisti. Come fu rivelato più tardi, effettivamente era stato progettato un piano chiamato Solo, elaborato dal comandante dell'arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, che prevedeva un intervento dei soli carabinieri (da ciò derivava il suo nome), nel caso che si profilasse un pericolo insurrezionale da parte della sinistra. Ma a sinistra non esisteva nessun pericolo del genere, sicchè il Piano Solo assumeva un carattere minaccioso, offensiva e non difensivo: sembrava diretta alla realizzazione di un colpo di stato autoritario piuttosto che a prevenire una insurrezione. Nonostante le indagini della magistratura, non si è mai potuto accertare quale effettiva consistenza abbia avuto il Piano Solo e da chi sia stata appoggiato: il timore di un possibile colpo di Stato fu comunque sufficiente a fare abbandonare ai socialisti le posizioni più avanzate. 

Il centro-sinistra nacque così sotto l'influenza di Aldo Moro più che sotto l'influenza di Pietro Nenni, sebbene fosse diventato presidente della repubblica il socialdemocratico Giuseppe Saragat, succeduto nel dicembre 1964 ad Antonio Segni, costretto a dare le dimissioni per motivi di salute.

Intanto l'economia italiana continuava a svilupparsi e il benessere cresceva: la società consumistica corrispondeva a riforme anche nella legislazione sociale. Nel luglio del 1966 fu approvata la legge sulla “giusta causa”, che impediva il licenziamento per motivi politici o sindacali nelle aziende con più di 35 dipendenti. Ma, anche perchè gli operai si sentivano più protetti sul piano sindacale, la conflittualità andava crescendo, soprattutto nelle fabbriche del Nord, in cui lavoravano ormai moltissimi meridionali immigrati.

Alle elezioni che si tennero nel maggio del 1968, il nuovo partito socialista, PSU (Partito socialista unificato) formato dalla fusione tra socialdemocratici e socialisti, fu sconfitto e nel luglio del 1969 si divise nuovamente in PSI e PSU (Partita socialista unitario). Era il PSI a pagare il prezzo più elevato per le mancate riforme e per la delusione che ne era derivata. Questa delusione non portò ad un rafforzamento del PCI, accusato di condurre un opposizione tradizionale, ma sfociò in un movimento di contestazione che nacque nelle università e si diffuse nelle fabbriche.

Attraverso ripetuti rimpasti la formula sopravvisse sino al termine della legislatura, cioè fino al '68, ma il deteriorarsi della situazione economica e le resistenze interne alla DC attenuarono alquanto la carica innovatrice che il centro-sinistra aveva espresso agli inizi. L'unica novità di rilievo fu la concreta attuazione dell'ordinamento regionale (febbraio 1968), che peraltro nei decenni seguenti non diede affatto gli attesi risultati positivi: al reclutamento e all'istituzione degli apparati burocratici regionali non corrispose infatti un alleggerimento della burocrazia statale, cosicchè, in sostanza. al modesto vantaggio del decentramento amministrativo s'accompagnò il rilevante svantaggio di spese più onerose.

Le prime quattro legislature durarono tutte un intero quinquennio, come previsto dalla Costituzione; dal 1968 la vita politica italiana divenne invece alquanto instabile: fu sempre più difficile formare governi sostenuti da solide maggioranze, e pertanto le Camere vennero sciolte anticipatamente per cinque volte di seguito.

 

Le elezioni del 19 maggio 1968 per il rinnovo delle Camere, mentre consolidarono la Democrazia Cristiana e in maggior misura il Partito Comunista, infersero invece un duro colpo al Partito Socialista Unificato (PSU), nato nell'ottobre del 1966 dalla preannunciata fusione del PSI e del PSDI. Tale sconfitta fu insieme una sconfessione del centro-sinistra, fondato appunto sull'alleanza della DC con un partito socialista di tipo occidentale (cioè socialdemocratico). Un anno più tardi il PSU si sciolse di nuovo nelle sue due componenti originarie, ma per il momento la formula del centro-sinistra sopravvisse, benchè in modo sempre più asfittico, sin quasi al termine della quinta legislatura (fu peraltro interrotta anticipatamente nel febbraio del 1972 per la costatata impossibilità di formare governi sufficientemente stabili).

Nei quattro anni di questa legislatura (1968-1972), durante i quali il centro-sinistra si va sfasciando, l'Italia è agitata da movimenti e inquietudini che non trovano nelle istituzioni politiche adeguata risposta.

 

Dal 1968 inizia una tumultuosa agitazione giovanile e studentesca, che compromette gravemente la resa dello studio nelle università e nelle scuole secondarie superiori, senza peraltro conseguire risultati significativi e durevoli e senza soprattutto ottenere una riforma organica della scuola e dell'università .

Le lotte del movimento studentesco esplodono in tutta Italia tra l'autunno del '67 e la primavera del '68. La protesta inizia a Trento, dove il 1 novembre 67 gli studenti occupano la facoltà di sociologia e si riuniscono in una serie interminabile di assemblee, sit-in, cortei.

Nel febbraio del 1968 a Roma la polizia, chiamata dal rettore, interviene per sgomberare la Sapienza occupata; gli studenti si rifugiano nella facoltà di architettura, a Valle Giulia, e il 1 marzo ingaggiano con le forze dell'ordine una lunga violentissima battaglia. Anche a Milano gli scontri furono violenti.

 

Nell'autunno 1969, mentre la tensione nelle scuole e nelle università non accenna a diminuire, la contestazione raggiunge le fabbriche. Una serie di scadenze contrattuali induce Cgil, Cisl e Uil (che hanno realizzato un patto di unità d'azione e rivendicato la loro autonomia dai partiti) ad avanzare rivendicazioni economiche e normative. Sull'atteggiamento intransigente dei tre sindacati influisce il timore di venire “scavalcati” dai gruppuscoli della sinistra extraparlamentare che cercano il collegamento fra studenti e operai, ma anche la consapevolezza che la crescita economica del precedente triennio rende possibile una migliore remunerazione dei lavoratori e soprattutto la disponibilità nei confronti delle rivendicazioni operaie mostrata dal governo in carica, su cui esercitano una considerevole influenza sia la sinistra cattolica sia il Psi. Proprio il socialista Brodolini, ministro del lavoro, vara lo Statuto dei Lavoratori, che rafforza nell'impresa le garanzie fornite ai dipendenti e alle rappresentanze sindacali.Le tensioni nel mondo del lavoro, comunque, non si risolvono con la chiusura della stagione contrattuale. I sindacati lanciano lo slogan della “conflittualità permanente” innescando una serie di rivendicazioni che nel biennio 1969-1970 farˆ perdere in tutta Italia per sciopero 59 milioni di giornate lavorative. Le astensioni dal lavoro si traducono sia in forme di lotta nei confronti della politica governativa, sia in manifestazioni violente in cui s'inseriscono i gruppuscoli extraparlamentari. Picchetti per impedire l'accesso ai non scioperanti, invasioni degli uffici, blocchi delle merci sono forme di lotta praticate un po' ovunque, almeno nelle grandi fabbriche del settentrione; e proprio a Milano, durante lo sciopero generale dedicato al problema della casa, una serie di scontri con la polizia si conclude con l'uccisione di un agente di pubblica sicurezza.

Le tensioni nel mondo del lavoro, comunque, non si risolvono con la chiusura della stagione contrattuale. I sindacati lanciano lo slogan della “conflittualità permanente” innescando una serie di rivendicazioni che nel biennio 1969-1970 farˆ perdere in tutta Italia per sciopero 59 milioni di giornate lavorative. Le astensioni dal lavoro si traducono sia in forme di lotta nei confronti della politica governativa, sia in manifestazioni violente in cui s'inseriscono i gruppuscoli extraparlamentari. Picchetti per impedire l'accesso ai non scioperanti, invasioni degli uffici, blocchi delle merci sono forme di lotta praticate un po' ovunque, almeno nelle grandi fabbriche del settentrione; e proprio a Milano, durante lo sciopero generale dedicato al problema della casa, una serie di scontri con la polizia si conclude con l'uccisione di un agente di pubblica sicurezza.

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