La differenza tra giudizi analitici e sintetici

Prima di esporre la propria teoria della conoscenza, Kant prende in esame nella Introduzione i punti di vista        storicamente in conflitto degli innatisti (alla Cartesio) e degli empiristi (alla Locke). Per i primi, la conoscenza consta di giudizi analitici a priori, che si ottengono scom ponendo concetti dati e prescindendo dall’esperienza. Per Kant, con questa concezione si giustificano l’universalità e la necessità del sapere, ma non le sue possibilità di accrescimento. Per i secondi, la conoscenza consta di  giudizi sintetici a posteriori, che sono tratti dall’esperienza vanno oltre concetti dati. Per Kant, con questa concezione si giustificano le possibilità di accrescimento del sapere, ma non la sua universalità e la sua necessità. Rifiutate queste posizioni perché non adeguate a dar risposta alle istanze fondamentali di un sapere che pretenda d’essere scienza Kant si domanda se siano possibili giudizi sintetici a priori.

IV. DELLA DIFFERENZA TRA I GIUDIZI ANALITICI E SINTETICI

In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato (considero qui soltanto quelli affermativi, perché poi sarà facile l’applicazione a quelli negativi), cotesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è  contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A, sebbene stia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico. Giudizi analitici (affermativi) son dunque quelli, nei quali la connessione del predicato col soggetto vien pensata per identità; quelli invece, nei quali questa connessione vien pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi esplicativi, gli altri estensivi; poiché quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto ne’ suoi concetti parziali, che eran in esso già pensati (sebbene confusamente); mentre, al contrario, questi ultimi aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era punto pensato, e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico, per es.: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico. Giacché non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l’estensione, ma mi basta scompone quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice ch’io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato; questo è dunque un giudizio analitico. Invece, se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L’aggiunta d’un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico. I giudizi sperimentali, come tali, sono tutti sintetici. Infatti sarebbe assurdo fondare sull’esperienza un giudizio analitico, poiché io non ho punto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, dunque a ciò non m’è d’uopo alcuna testimonianza dell’esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di passare all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso ricavare il predicato soltanto secondo il principio di contraddizione, e acquistar a un tempo coscienza della necessità del giudizio, che l’esperienza non potrebbe mai insegnarmi. Al contrario, sebbene nel concetto di corpo in generale io non includa punto il predicato della gravità, quel concetto tuttavia rappresenta un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, alla quale io dunque posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, che non siano appartenenti al concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto del corpo, perché questi due concetti, sebbene l’uno non sia compreso nell’altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno all’altro, benché solo in modo accidentale. Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A per conoscerne un altro B come legato al primo, su che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poiché qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell’esperienza? Si prenda la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest’ultima rappresentazione. Come mai dunque giungo ad affermare, di ciò che accade in generale, qualcosa che ne è affatto diverso, e a riconoscere il concetto di causa, sebbene non contenuto in quello, tuttavia come appartenente ad esso, e per di più necessariamente? Che cos’è qui l’incognita x, su cui si appoggia l’intelletto, quando crede di trovar fuori del concetto A un predicato B, ad esso estraneo, e che, ciò malgrado, stima con esso congiunto? Non può essere l’esperienza, poiché il principio citato aggiunge questa seconda rappresentazione alla prima non solo con universalità maggiore [di quella che può dare l’esperienza], ma altresì con la nota della necessità, e perciò del tutto a priori, e in base a semplici concetti. Ora tutto lo scopo supremo delle nostre conoscenze speculative a priori si fonda su tali principi sintetici o estensivi; perché gli analitici sono, sì, importantissimi e necessarissimi, ma solo per giungere a quella chiarezza dei concetti, che è desiderabile per una sicura ed ampia sintesi, come per una conquista realmente nuova.

VI.       PROBLEMA GENERALE DELLA RAGION PURA

È già un bel guadagno quando si può raccogliere una quantità di ricerche sotto la formula di un problema unico. Giacché per tal modo non solo vien agevolato il nostro proprio lavoro in quanto esso è esattamente determinato, ma anche ad ogni altro che voglia esaminano è reso facile il giudizio se abbiamo soddisfatto o no al nostro proposito. Il problema proprio della ragion pura è dunque contenuto nella domanda:

come sono possibili giudizi sintetici a priori ?

La ragione per la quale la metafisica è rimasta fin qui in una condi­zione tanto oscillante di incertezza e di contraddizione, è da cercarsi esclusivamente nel fatto, che non s'è posto mente in passato a questo problema, e nemmeno forse alla differenza tra giudizi analitici e sintetici. Intanto la vita e la morte della metafisica dipende dalla soluzione di questo problema, o da una dimostrazione soddisfacente che la possibilità di cui esso chiede la spiegazione, in realtà non c’è. Nella soluzione del suddetto problema è compresa, a un tempo, la possibilità dell’uso puro della ragione per fondare e recare in atto tutte le scienze che contengono una conoscenza teorica a priori di oggetti. Cioè, la risposta alle domande:

com'e'possibile una matematica PURA?

com'e'possibile una FISica PURA?

Di queste scienze, poiché esse realmente ci sono, convien bene domandarsi come sieno possibili; poiché, che debban esser possibili, è provato dalla loro stessa esistenza di fatto. Per ciò che riguarda la metafisica, il suo progresso fin qui assai infelice, poiché di nessuna delle metafisi­che fin qui esposte, per ciò che concerne il suo scopo essenziale, si può dire che realmente esista, deve ad ognuno lasciar dubitare con ragione della sua possibilità. Ma, tuttavia, anche questa specie di conoscenza deve, in un certo sen­so, essere considerata come data, e la metafisica, se pure non come scienza, esiste certo come disposizione naturale (metaphysica naturalis). Giacché la ragione umana viene irresistibilmente, anche senza che la muo­va la semplice vanità del molto sapere, spinta da un proprio bisogno fino a problemi tali che non possono esser risoluti da nessun uso empirico della ragione, né da principi tolti da questo; e così in tutti gli uomini, appena in loro la ragione si è innalzata sino alla speculazione, v’è stata in ogni tempo una metafisica, e vi sarà sempre. Ora anche per essa c’è la questione: 

COM'E' POSSIBILE LA METAFISICA IN QUANTO DISPOSIZIONE NATURALE ?

Cioè, come nascono dalla natura della ragione umana universale i problemi che la ragion pura affronta, e ai quali essa si sente dal proprio bisogno spinta a rispondere il meglio che può?Ma, poiché tutti i tentativi fatti fin qui, per rispondere a quelle naturali domande: se il mondo abbia un cominciamento o esista dall’eternità, e così via, sono sempre incorsi in inevitabili contraddizioni, così non ci si può accontentare della semplice disposizione naturale alla metafisica, cioè della stessa facoltà pura della ragione, dalla quale certo deriva sempre una qualche metafisica (quale che sia); ma dev’essere possibile giunger con essa alla Certezza o nella scienza o nella ignoranza de’ suoi oggetti, cioè, a pronunziarsi circa gli oggetti delle sue questioni, o a giudicare della potenza o impotenza della ragione rispetto ai medesimi; e però o ad allargare con sicurezza la nostra ragion pura, o a restringerla entro limiti determinati e sicuri. Quest’ultimo problema, che deriva da quello generale di sopra, sarebbe a ragione questo:

COM'E' POSSIBILE LA METAFISICA COME SCIENZA ?

La critica della ragione, dunque, conduce alla fine necessariamente alla scienza; l’uso dommatico, invece, di essa senza critica, ad affermazioni prive di fondamento, alle quali si potrà sempre contrapporne altre ugualmente verisimili, e però allo scetticismo. Inoltre, questa scienza non può essere d’una lunghezza grande, scorag­giante, perché non ha da fare con oggetti della ragione, la cui molteplicità è infinita, ma soltanto con se stessa, con problemi che sorgono esclusivamente dal suo grembo, proposti a lei, non dalla natura delle cose che sono da lei differenti, ma dalla sua propria; dal momento che, quando essa abbia prima imparato a conoscere compiutamente la sua propria capacità rispetto agli oggetti che le si possono presentare nella esperienza, deve diventar facile determinare in modo completo e sicuro l’ambito e i limiti del suo tentato uso al di là di tutti i confini dell’esperienza.Si può, dunque, anzi si deve far conto che non sieno mai esistiti i tentativi fatti sino ad ora per creare dommaticamente una metafisica; perché quel che vi è in questa o in quella di analitico, cioè la semplice scomposizione dei concetti che giacciono a priori nella nostra ragione, non costituisce punto ancora lo scopo, ma solo un preparativo per la vera metafisica: per estendere, cioè, sinteticamente la sua conoscenza a priori; e a questo essa non basta; poiché mostra solo ciò che è contenuto nei concetti, ma non come noi siamo pervenuti a priori a tali concetti, acciò si possa in conseguenza determinare il loro legittimo uso rispetto agli oggetti di ogni conoscenza in generale. E basta anche soltanto una piccola dose di abnegazione per rinunziare a queste pretese, giacché le incontestabili contraddizioni della ragione con se stessa, inevitabili in un procedimento dommatico, già da molto tempo han gettato il discredito sulla metafisica passata. Piuttosto sarà necessaria molta costanza per non lasciarsi distogliere dalla difficoltà intrinseca, o dalle resistenze esterne, dal promuovere finalmente una volta lo sviluppo rigoglioso e fecondo di una scienza indispensabile alla umana ragione; una scienza della quale si potranno tagliare i rami che ne son venuti fuori, ma non mai svellere le radici, con un’altra trattazione del tutto opposta alla precedente.

VII. IDEA E PARTIZIONE DI UNA SCIENZA SPECIALE SOTTO NOME DI CRITICA DELLA RAGION PURA

Da tutto ciò scaturisce dunque l’idea di una scienza speciale, che si può chiamare Critica della ragion pura. Poiché la ragione è la facoltà che ci fornisce i principi a priori della conoscenza. Ragion pura è perciò quella che contiene i principi per conoscere qualche cosa assolutamente a priori. Un organo della ragion pura sarebbe un complesso dei principi, secondo i quali possono essere acquistate ed effettivamente recate in atto tutte le conoscenze pure a priori. L’applicazione completa di un siffatto organo costituirebbe un sistema della ragion pura. Ma poiché questo sistema è desiderato moltissimo, e resta ancora a veder se e in quali casi una tale estensione della nostra conoscenza sia possibile, così noi possiamo considerare una scienza che si limiti al semplice giudicamento della ragion pura, delle sue fonti e dei suoi limiti, come la propedeutica al sistema della ragion pura. Una tale scienza non si dovrebbe ancora chiamare dottrina, ma solo critica della ragion pura; e la sua utilità sarebbe in realtà, riguardo alla speculazione, solo negativa, giacché servirebbe non ad allargare ma solo ad epurare la nostra ragione, e a liberarla dagli errori; ciò che è già moltissimo di guadagnato. Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve esser possibile a priori. Un sistema di siffatti concetti si chiamerebbe filosofia trascendentale.

Da  CRITICA DELLA RAGION PURA,

cur. G.Gentile, G. Lombardo-Radice, V.Mathieu, Laterza, Bari 1979, vol.I, pp.46-49, 53-58

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