L'età giolittiana

 

Fra depressione economica e repressione politica.

I tumulti di Milano e il regicidio di Monza.

 

Nel 1896 il massacro di Adua provoca la caduta di Crispi. Il suo successore, il conservatore marchese Antonio di Rudinì, si limita a liquidare la politica coloniale, rinunziando all'Etiopia e contentandosi della piccola colonia Eritrea; ma ne continua la politica repressiva nei confronti dei movimenti anarchici e socialisti e delle agitazioni operaie.

Ad aggravare la situazione e ad inasprire tale politica é anche la pesante congiuntura economica che l'Italia, non ancora sottrattasi agli strascichi della grande depressione, attraversa in questi anni. Nel 1898, il cattivo raccolto e le conseguenze della "guerra doganale" con la Francia, causata dalla politica protezionistica di entrambe le nazioni, provocano un rincaro del pane e di altri generi di prima necessità: tumulti e insurrezioni popolari non tardano a divampare nella penisola confusamente influenzate da idee socialiste e anarchiche. A Milano, dove più vasta e violenta é stata l'insurrezione, i dimostranti sono affrontati a cannonate dalle truppe al comando del generale Bava-Beccaris (decorato poi, per i "meriti" conseguiti  nell'occasione).

 

Il ministero Pelloux - I fatti di Milano suscitano una vastissima eco nel paese. Se radicali, democratici e, naturalmente, socialisti condannano la repressione sanguinosa dei moti e la sommarietà dei processi istruiti dai tribunali militari, moderati, reazionari, e anche vaste fasce di ceto medio preoccupate dall'esplosione della collera popolare, approvano la repressione, auspicando una svolta in senso conservatore ancora più netta. Da più parti si parla di "tornare allo statuto", la costituzione, cioè, concessa da Carlo Alberto, limitando gli sviluppi relativamente democratici assunti dalla vita istituzionale italiana ed estendendo le prerogative del sovrano. Contro il parlamentarismo si auspica l'avvento di un governo forte, sostenuto dall'appoggio della monarchia. Le pressioni della classe dirigente, della corte e della consorte regina Margherita inducono Umberto I a chiamare al governo un militare: il generale Luigi Girolamo Pelloux. Questi, nel febbraio del 1899, presenta alle camere una serie di leggi eccezionali limitatrici della libertà e di associazione e indirizzate in paricolar modo contro il partito socialista, che nel frattempo si é riorganizzato e munito di un proprio organo di stampa, il quotidiano "Avanti".

 

L'opposizione alla svolta autoritaria - La lotta ai "decreti liberticidi" coagula e rivitalizza le opposizioni di sinistra. Radicali e socialisti, si impegnano in parlamento in una campagna ostruzionistica: volta, cioé, a ritardare con tutti i mezzi consentiti dal regolamento i lavori dell'assemblea. Questo atteggiamento assicura loro larghe simpatie presso l'opinione pubblica progressista. Le elezioni del 1900, premiando le opposizioni, costituiscono una smentita della politica di Pelloux.  Umberto I é costretto a nominare un nuovo "governo di riconciliazione" presieduto da Giuseppe Saracco, pochi giorni prima di morire a Monza, vittima di uno dei tanti attentati anarchici contro sovrani e presidenti della repubblica che in questi anni insanguinano l'Europa.

 

Il ministero Giolitti-Zanardelli - La tragedia di Monza é una svolta decisiva nella politica italiana. Caduto il gabinetto Saracco per l'atteggiamento incerto tenuto nei confronti di uno sciopero generale a Genova, il nuovo re, il trentunenne Vittorio Emanuele III, nomina presidente del consiglio il liberale Giuseppe Zanardelli, portavoce di quegli ambienti della sinistra moderata che da tempo si mostrano favorevoli ad una politica più conciliante nei riguardi del movimento operaio.

Ministro degli Interni del nuovo dicastero é Giovanni Giolitti, già presidente del consiglio fra il 1892 e il 1893, prima di essere costretto alle dimissioni per i contraccolpi dello scandalo della Banca Romana. Fedele alla convinzione - applicata già nella sua prima esperienza ministeriale - che lo stato debba svolgere nel corso dei conflitti sindacali opera di mediazione, non di repressione, limitandosi a perseguire eventuali reati, Giolitti rompe con un'annosa tradizione di interventi dell'esercito in funzione antisindacale, rifiutandosi di far intervenire le forze armate per reprimere un vasto sciopero nella pianura padana. Lo statista piemontese sostiene che "chi non lavora non produce", ma anche afferma che "chi non guadagna non consuma": un innalzamento del tenore di vita delle masse salariate può, alla lunga, elevare i profitti degli stessi imprenditori. D'altra parte, Giolitti é anche convinto che lo sviluppo del movimento sindacale e dello stesso partito socialista siano ormai un fenomeno irreversibile, che non può essere debellato a colpi di decreti legge, ma di cui semmai é necessario cercare di ammorbidire la spinta rivoluzionaria.

 

Lo sviluppo del sindacalismo operaio - Dopo la caduta del governo Pelloux, infatti, il movimento sindacale conosce uno sviluppo estremamente rapido: le camere del lavoro si moltiplicano in tutte le città d'Italia, il partito socialista e il movimento sindacale costituiscono nella realtà italiana una delle componenti più aggressive e dinamiche.

Giolitti ha occasione di tradurre queste intuizioni e convinzioni in un sistema di potere, destinato a farne per oltre un decennio il dominatore della vita parlamentare italiana. Nel 1903, infatti, lo statista piemontese é chiamato alla presidenza del consiglio: vi resterà, salvo brevi e sporadiche interruzioni, da lui stesso provocate, sino al 1913. Uno dei primi atti politici del suo governo é l'offerta, rivolta al leader  del socialismo italiano Filippo Turati, di entrare a far parte del dicastero.

 

Una grande operazione trasformistica

 

Giolitti e l'evoluzione riformista del Psi - Obiettivo dello statista liberale è guadagnare allo stato liberale l'appoggio del proletariato agricolo e industriale del nord, governando l'Italia col sostegno del movimento operaio e della borghesia imprenditoriale più aperta. Nel 1903 Filippo Turati risponde con un rifiuto alla proposta di Giolitti. Turati, infatti, insieme alla sua compagna Anna Kuliscioff e a Claudio Treves, é alla guida dell'ala riformista del Psi, facente capo alla rivista "Critica sociale". Alla sua destra si colloca una picola pattuglia di revisionisti, favorevoli, sulle orme del Bernstein, ad una rilettura critica delle teorie di Marx, che le adegui alla mutata realtà del capitalismo moderno. Ma, alla sinistra, Turati deve fare i conti con l'ala intransigente e massimalista del Psi, guidata da accesi oratori e brillanti pubblicisti come Arturo Labriola ed Enrico Ferri.

Fra clientelismo e riformismo - Giolitti non é il leader  di un partito omogeneo e modernamente organizzato e può contare solo su maggioranze di deputati costituite volta volta tramite un abile gioco di compromessi politici e di patteggiamenti clientelari. Nessuno come lui é abile nell'utilizzare i prefetti per influenzare i risultati delle consultazioni elettorali; pochi sono altrettanto privi di scrupoli nel manovrare, al sud, violente cosche locali (i "mafiosi" e i "mazzieri") e nel far ricorso addirittura a brogli elettorali per assicurare il successo dei candidati che gli sono favorevoli. Non del tutto ingiustificato definirlo con l'epiteto di "ministro della malavita".

Per superare queste difficoltà e mantenersi in sella al governo, Giolitti ha perciò bisogno di appoggiarsi volta volta a diversi gruppi politici e sociali, che ne condizionano inevitabilmente le scelte.

La prima fase di questa politica vede lo statista piemontese collaborare attivamente con le frange più moderate e riformiste del movimento operaio. Nel 1903, infatti, Turati rifiuta la partecipazione al governo, ma non la collaborazione con Giolitti in una politica di riforme. La concessione delle pensioni d'invalidità e di vecchiaia, la tutela del riposo festivo, la regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli, l'introduzione dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro sono i principali provvedimenti varati dallo statista piemontese con l'appoggio esterno di Turati, mentre vengono poste le premesse per la nazionalizzazione delle ferrovie, ultimata nel 1905 con il ministero Fortis. 

 Il lungo ministero Giolitti ed il rilancio dell'attività riformistica.

Sviluppo economico ed evoluzione sociale - Giolitti, dopo la parentesi dei governi Fortis e Sonnino, nel 1906, può riprendere le sua politica riformista, nel corso di un "lungo ministero" che dal 1906 al 1909 registrerà il culmine della sua influenza sulla società italiana. Nel corso di questo triennio nuovi provvedimenti vengono presi in materia di contratti di lavoro, di nazionalizzazione delle linee telefoniche private, di tutela del lavoro; la lotta alla disoccupazione, ed alla conseguente emigrazione, viene condotta attraverso la realizzazione di grandiose opere pubbliche, come il traforo del Sempione e l'acquedotto pugliese. Nel frattempo si assiste ad una regolarizzazione dei rapporti in campo sindacale, con la nascita della Confederazione generale del lavoro dall'unione delle varie camere del lavoro e associazioni di mestiere, mentre gli imprenditori costituiscono, per tutelare i propri interessi su scala nazionale, la Confederazione generale dell'industria.

Una buona congiuntura economica favorisce una politica di aumenti salariali, consolidati dalla stabilità della lira, resa possibile dall'invidiabile situazione delle pubbliche finanze.

Quando, nel 1906, Giolitti attua la conversione della rendita dal 5 a 3,5 per cento - riducendo cioé in tale misura il tasso d'interesse corrisposto ai risparmiatori che hanno prestato denaro allo stato - il numero di quanti chiedono la restituzione delle somme versate é infinitamente inferiore alle previsioni: segno evidente della fiducia goduta dalle finanze italiane, che Giolitti gestisce con proverbiale accortezza, perseguendo con successo il tradizionale obiettivo del pareggio del bilancio.

 

Il decollo economico italiano... - Sfruttando la favorevole congiuntura internazionale e ponendosi al riparo da preoccupazioni militari con una politica estera distensiva e, sino al 1911, aliena da impegni coloniali, Giolitti può assicurare al paese una crescita senza precedenti, nel corso di un periodo di prosperità che passerà alla storia come "età giolittiana".

 

Lo sviluppo industriale - Tale crescita é dovuta soprattutto allo sviluppo dell'industria e del commercio: il vero decollo industriale italiano. Fra il 1898 e il 1914 la produzione di energia elettrica aumenta di oltre 25 volte, limitando, se non eliminando, la necessità di onerose importazioni di carbone dall'estero. L'industria siderurgica, come quella meccanica e chimica, si consolida in un potente trust  e si espande anche al sud con l'apertura delle acciaierie di Bagnoli. Si sviluppano intanto le prime fabbriche di automobili, la Fiat, l'Alfa Romeo, la Lancia, che si contendono il nascente mercato ed acquistano prestigio internazionale.

 

Il settore terziario - Un analogo sviluppo é conosciuto dal settore terziario. Nel giro di dieci anni - dal 1900 al 1910 - raddoppiano le esportazioni di prodotti finiti e le importazioni. Il perdurante squilibrio della bilancia dei pagamenti é appianato, oltre che dalle rimesse degli emigranti, dall'industria turistica, che attira un crescente numero di visitatori stranieri con la loro valuta pregiata. I commerci interni sono incoraggiati dall'estensione della rete stradale e dei servizi automobilistici, ma soprattutto dallo sviluppo dei collegamenti su rotaia. Con i suoi quasi 18 mila chilometri, la rete ferroviaria italiana del 1913 costituisce l'ossatura di quella attuale, mentre la sua nazionalizzazione, se da un lato comporta un aggravio dei costi di gestione, dall'altro permette di amministrare il servizio con criteri di maggiore socialità. Inoltre si sviluppa il sistema bancario con il consolidamento, in questo periodo, del predominio di tre grandi istituti di credito: la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma, quest'ultimo strettamente legato alla finanza cattolica.

A questa crescita economica vigorosa pur nei suoi limiti e nei suoi scompensi, corrisponde nell'età giolittiana un miglioramento del tenore di vita di vasti strati sociali; l'epoca è purtroppo funestata da una grandissima sciagura nazionale: il terremoto di Messina del 1908.

...E i suoi esclusi

Lo squilibrio fra industria e agricoltura - Ogni medaglia ha il suo rovescio. Alla notevole crescita del fatturato industriale non corrisponde un'analoga crescita della produzione agricola, che realizza considerevoli incrementi nelle colture industriali, come la barbabietola da zucchero, ma é incapace di tener testa all'aumentato consumo di cereali, che provoca dal 1900 al 1913 il raddoppio delle importazioni di grano

Questione meridionale ed emigrazione - Questo squilibrio fra agricoltura e industria si interseca con un più ampio scompenso fra centro-nord e Mezzogiorno. I sia pur contenuti progressi agricoli riguardano infatti soprattutto le aree della pianura padana; nei grandi latifondi del sud continua ad essere praticata la cerealicoltura, con metodi poco redditizi: il perdurante protezionismo agricolo non ne  incoraggia il superamento tra le plebi rurali del Mezzogiorno, favorendo altresì l'emigrazione. Il perdurante incremento demografico raggiunge il culmine proprio nell'età giolittiana, con 873.000 emigranti nel solo 1913, quasi il triplo dei 300.000 del 1900.

 

 

Apogeo e fine del sistema giolittiano

 

Il ritiro di Giolitti e i ministeri Sonnino e Luzzatti.

Una radicalizzazione del conflitto sociale - Consapevole del deterioramento della situazione all'interno del Psi, per lo scontro delle ali riformista e massimalista, e delle difficoltà di far accettare ai gruppi di pressione industriali il suo programma di riforme, comprendente fra l'altro l'introduzione della tassazione progressiva, Giolitti preferisce porre termine al suo "grande ministero", protrattosi dal 1906 al 1909. Lo statista piemontese lascia così la gestione dell'ordinaria amministrazione ai successivi governi Sonnino (1909-10) e Luzzatti (1910-11), rimandando a tempi migliori il suo rientro ufficiale sulla scena politica.

 

Il grande rientro di Giolitti e la guerra di Libia

Il rilancio dell'iniziativa riformatrice - Questo rientro avverrà due anni più tardi, con un disegno volto a soddisfare le aspettative e le esigenze delle vecchie e nuove forze presenti nella realtà del paese. Da un lato, infatti, Giolitti riprende in grande stile la politica riformista dei precedenti ministeri. Replica ai socialisti l'invito ad entrare nel suo governo, sia pur ricevendone un ulteriore rifiuto; concede maggiori fondi all'istruzione elementare; istituisce il monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, destinando alla previdenza sociale i proventi di questo redditizio settore sottratto all'iniziativa privata; e, soprattutto, attua nel giugno del 1912 una rivoluzionaria riforma elettorale, introducendo il suffragio universale maschile. Un'antica rivendicazione di socialisti e radicali viene finalmente accolta, con una legge che pone l'Italia, almeno sotto il profilo istituzionale, al passo con i maggiori paesi europei.

Gli obiettivi dell'impresa libica - Questa serie di concessioni alla sinistra, non soltanto formali, é tuttavia compensata dall'abbandono della tradizionale politica di routine  in campo internazionale, con la contemporanea realizzazione della conquista della Libia. Accortamente preparata dal ministro degli esteri Antonio di San Giuliano, che si assicura il preventivo assenso francese e britannico, l'impresa libica rappresenta una concessione alle aspettative sia della destra nazionalista, che un anno prima l'aveva sollecitata al congresso di Firenze, sia di alcuni ambienti economici, in prevalenza gravitanti intorno alla finanza vaticana e al Banco di Roma, che da tempo hanno compiuto considerevoli investimenti nella regione, e anche ad obiettive spinte di politica internazionale. E' infatti viva la preoccupazione che la Francia, reduce dall'occupazione del Marocco, invada anche la Tripolitania, battendoci - come già nel caso di Tunisi - sul tempo, ed alterando a svantaggio dell'Italia l'equilibrio nel Mediterraneo.

Un conflitto inizialmente popolare - Ad ogni modo, e non soltanto per l'appoggio della stampa nazionalista o filogovernativa, la conquista della Libia gode, almeno in un primo tempo, di vasta popolarità presso  l'opinione pubblica, L'appoggiano, naturalmente, i gruppi d'opinione che fanno capo a Giolitti, i nazionalisti, i cattolici, che non hanno difficoltà a vedere nell'impresa l'occasione per la conversione di popolazioni mussulmane soggette all'impero turco. Ma il consenso alla guerra coinvolge anche gruppi politici e ceti sociali estranei al patriottismo o al nazionalismo borghese. Specie al sud, é diffusa la convinzione che la nuova colonia possa assorbire quella quota di manodopera che sinora, non trovando occupazione in patria, é stata costretta ad emigrare in paesi stranieri. Di questo stato d'animo si fanno interpreti, insieme a socialisti umanitari come il Pascoli, sia molti esponenti della pattuglia sindacalista rivoluzionaria capeggiata da Arturo Labriola, sia la corrente moderata del Psi, facente capo a Leonida Bissolati e a Ivanoe Bonomi. Ad osteggiare decisamente la guerra restano solo la corrente maggioritaria del Psi, facente capo a Turati, ed alcuni radicali che, come Gaetano Salvemini, presentano la Libia come uno "scatolone di sabbia" poco redditizio e scarsamente adatto a fungere da valvola di sfogo alla nostra corrente migratoria.   

Dai primi successi alle difficoltà della conquista effettiva - Accresce la popolarità dell'impresa anche l'apparente rapidità della conquista. La guerra, dichiarata nel settembre del 1911 all'impero ottomano, almeno formalmente padrone della Libia, porta rapidamente alla conquista della fascia costiera. Il persistere nell'entroterra della guerriglia delle tribù mussulmane, addestrate da militari turchi, induce però l'Italia a portare direttamente, per mare, la guerra all'impero ottomano, finché l'occupazione delle isole del Dodecaneso, con Rodi, e una serie di brillanti azioni della marina italiana, comprendenti anche la forzatura dello stretto dei Dardanelli, non costringono Istanbul alla pace. Il trattato di Losanna, nell'ottobre del 1912, sancisce il dominio italiano sulla Libia ed autorizza il nostro paese a conservare il possesso del Dodecaneso sino alla conclusione della guerriglia nella colonia.

In realtà la definitiva pacificazione della Libia sarà impresa meno facile del previsto (verrà portata a termine, senza risparmio di mezzi e di vite umane, solo nel 1927). E tutto ciò, se consente all'Italia di stabilizzare il suo dominio sul Dodecaneso, impedisce agli italiani di trarre immediati benefici dalla nuova colonia, che nel frattempo si presenta assai meno feconda e ospitale di quanto sperato. 

 

L'accordo con i cattolici

La svolta a sinistra del Psi mette decisamente fuori gioco la tradizionale tattica giolittiana di coinvolgimento dell'opposizione  socialista. Nell'imminenza delle prime elezioni a suffragio universale lo statista piemontese si vede infatti costretto a ridimensionare il suo tradizionale sistema di alleanze ed a cercare una organica, per quanto non ancora ufficiale, collaborazione con il mondo cattolico.

Chiesa, stato e "cristianesimo sociale" - Questo, nel corso dei primi anni del Novecento, ha ormai di fatto abbandonato l'atteggiamento di chiusura intransigente nei confronti dello stato unitario che lo aveva contrassegnato nell'ultimo trentennio del secolo precedente.

Il nuovo pontefice Pio X non si é opposto nel 1904 alla partecipazione dei cattolici alla competizione elettorale, in funzione sostanzialmente filogovernativa confermando nel mondo cattolico l'esigenza di un più fattivo impegno politico e sociale, alla luce dei principi affermati dal pontefice Leone XIII nell'enciclica Rerum novarum  sviluppando un vasto movimento sindacale cattolico, che, pur rifuggendo dalla logica della "lotta di classe", dà vita a leghe "bianche" concorrenziali con quelle "rosse" dei socialisti, e consolida quel complesso di iniziative assistenziali e cooperavistiche maturato già negli ultimi decenni dell'Ottocento.

Le tre anime del cattolicesimo italiano - Alcuni esponenti di spicco del mondo cattolico iniziano ad ispirarsi ai principi di una moderna "democrazia cristiana": suffragio allargato, maggiori libertà sindacali, lotta allo sfruttamento capitalistico, richiesta di più vaste autonomie locali sono i punti programmatici del nuovo movimento, il cui ispiratore é Romolo Murri, un sacerdote marchigiano influenzato dalle teorie del modernismo. Comincia a prender piede un'anima clerico-moderata, disposta a concedere la propria collaborazione allo stato liberale in funzione antisocialista e godendo inoltre dell'appoggio pontificio.

Il "patto Gentiloni" -  Pio X dapprima scioglie l'Opera dei Congressi, la tradizionale organizzazione del laicato cattolico su cui hanno fatto presa le idee di Murri; poi condanna per le sue tendenze moderniste, la "Lega democratica nazionale", il nuovo movimento politico da questi fondato. Tuttavia é ormai segnato anche il destino del vecchio intransigentismo. L'introduzione del suffragio universale, rendendo determinante il voto popolare cattolico, matura infatti i tempi per un'intesa di più ampio respiro fra Giolitti e il mondo ecclesiastico.

L'Unione elettorale cattolica presieduta da Ottorino Gentiloni, indirizza il voto dei credenti verso quei candidati che abbiano sottoscritto precisi impegni su alcuni temi ritenuti di importanza essenziale, come il rifiuto del divorzio, la difesa dell'istruzione religiosa e della scuola cattolica, la tutela delle organizzazioni sociali cristiane. I risultati di questo "patto Gentiloni" sono di tutto rispetto: nel 1913  228 deputati vengono eletti con l'appoggio determinante dei cattolici. Ne derivano un consolidamento delle basi sociali dello stato unitario, grazie alla partecipazione politica delle masse cattoliche, ed il contenimento del peso elettorale socialista.

 

Giolitti lascia il timone. La fine di un'epoca

Una maggioranza eterogenea - Alla nuova camera, di conseguenza, Giolitti può contare su una maggioranza di più di trecento deputati. L'opposizione di destra comprende trenta cattolici dichiarati e tre nazionalisti; quella di sinistra invece é composta da circa 160 parlamentari divisi in parti pressoché uguali fra radicali e socialisti.

Consistente sotto il profilo numerico, la maggioranza governativa é tuttavia assai meno solida di quanto possa sembrare a prima vista, a causa dell'estrema eterogeneità di una coalizione in cui i giolittiani di ferro convivono con gli "ascari" opportunisti, e gli alfieri del tradizionale liberalismo anticlericale e massonico siedono a fianco dei sottoscrittori del patto Gentiloni e della pattuglia dei giovani liberali, simpatizzanti per il nazionalismo.

L'abbandono di Giolitti -  In questa situazione é assai difficile per il primo ministro riprendere la sua tradizionale politica,  anche a causa della mutata situazione all'interno del Psi, in cui la corrente revisionista é stata espulsa, ma la direzione dell'"Avanti!" é stata affidata a Benito Mussolini, abile giornalista e leader  della corrente massimalista, imbevuto delle teorie volontaristiche di Nietzsche e di Sorel. Quando, nel giugno del '14, alcuni scontri fra polizia e dimostranti socialisti danno il via alla cosiddetta settimana rossa - una serie di agitazioni, scioperi, sommosse popolari promossi, oltre che da Mussolini , dal repubblicano Pietro Nenni e dall'anarchico Enrico Malatesta - le residue speranze nella possibilità di un coinvolgimento ministeriale del Psi vanno definitivamente deluse.

Già due anni prima, Giolitti - avvertito ancora una volta il montare di un'atmosfera ostile alla sua politica - ha preferito ritirarsi dietro le quinte, in attesa che la tempesta termini, passando le responsabilità di governo al liberal-conservatore Antonio Salandra.

Allontanatosi dal governo in quanto oggetto della crescente insofferenza di troppe nuove componenti della realtà italiana, diverse e reali, Giolitti tornerà a governare sei anni più tardi, dopo la successiva tornata elettorale. Ma a superare questi due suoi governi non sarà soltanto una legislatura: sarà qualcosa di assai più importante,  qualcosa di molto simile alla fine del mondo.          

 

 

La "grande guerra"

 

"Grande" la guerra del 1914-18 fu anzitutto per l'estensione del teatro delle operazioni belliche, per le masse di uomini e mezzi impiegati nei combattimenti, per l'ampiezza delle forze sociali, politiche, intellettuali coinvolte, per la mobilitazione totale delle capacità economiche dei belligeranti, che non erano più paesi prevalentemente agricoli, ma paesi industrializzati capaci di produrre armamenti su una scala larghissima, impensabile nel passato. La supremazia europea si fondava sulla forza industriale e finanziaria  degli Stati più grandi dell'Europa occidentale. Infatti Gran Bretagna, Germania e Francia, nonostante l'impetuosa ascesa economica degli Stati Uniti, coprivano il 62 % delle esportazioni mondiali di manufatti ed erano le principali importatrici di materie prime e derrate alimentari. L'Europa alimentava un flusso massiccio di investimenti all'estero; i tre paesi sopra ricordati si suddividevano l'83 % di tutti gli impieghi di capitali nel resto del mondo, e in quanto paesi creditori, avevano conseguito un predominio economico sui paesi debitori.

L'imperialismo economico-politico - All'interno di questa situazione operavano le tendenze che caratterizzavano l'imperialismo: la spinta alla formazione di giganteschi monopoli; il peso crescente del capitale finanziario, sviluppatosi in seguito al processo di compenetrazione tra il capitale industriale e quello bancario; la concorrenza sul piano internazionale e la lotta per la conquista dei mercati; il sempre più forte antagonismo tra i grandi gruppi industriali e finanziari dei vari paesi; la corsa degli Stati all'espansione coloniale e alla penetrazione politica ed economica nei paesi sottosviluppati.

L'acuirsi delle rivalità economiche contribuì a deteriorare minacciosamente il clima delle relazioni internazionali, che negli ultimi decenni dell'Ottocento sembrava avviato verso un lungo periodo di stabilità e di tranquillità.

L'antagonismo anglo-tedesco e l'espansione economica della Germania - Uno dei principali focolai di tensione era l'antagonismo anglo-tedesco . La Germania era infatti protesa nello sforzo di creare intorno a sé un blocco che abbracciasse tutta la "Mitteleuropa" (Europa Centrale) e di conseguire il rango di potenza mondiale, secondo il programma lanciato nel 1896 da Guglielmo II, che aveva sostenuto la necessità di un "posto al sole" per il suo paese.  L'impero tedesco stava vivendo un periodo di rapida ascesa economica. La penetrazione commerciale e finanziaria, rivolta prevalentemente in direzione dell'Autria-Ungheria e dell'Europa sud-orientale, fu particolarmente aggressiva in Turchia. In questo paese  - il cui esercito a partire dal 1886 era stato riorganizzato da ufficiali germanici - società tedesche ottennero tra l'altro le concesssioni per la costruzione della ferrovia anatolica e la sua prosecuzione fino a Bagdad e Bassora, che avrebbe dunque dovuto collegare Costantinopoli al Golfo Persico. La proiezione della potenza tedesca nei Balcani e nel Medio Oriente creava un asse diagonale Berlino-Costantinopoli che avrebbe potuto tagliare in due l'Europa e preoccupava la Russia; mentre il prolungamento dell'asse fino al Golfo Persico veniva a costituire una minaccia per gli interessi imperiali della Gran Bretagna nella zona e non poteva non suscitare la sua reazione.

La gara delle flotte - La rivalità anglo-tedesca fu però acuita soprattutto dalla volontà della Germania di costruire una grande flotta militare. I programmi di costruzioni navali furono impostati a partire dagli ultimi anni dell'Ottocento nell'intento di giungere alla parità con la Gran Bretagna, la maggiore potenza marittima mondiale. Il governo inglese tentò a più riprese di convincere quello tedesco di limitare la corsa agli armamenti navali, ma si trovò di fronte l'intransigenza della Germania, fermamente intenzionata a sviluppare la propria presenza sul mare anche a rischio di un conflitto. La reazione dell'Inghilterra fu la decisione di incrementare la sua marina militare; per ogni nave messa in mare dalla Germania gli inglesi ne avrebbero varate due: una risposta che offrì ai circoli dirigenti tedeschi l'opportunità di intensificare la campagna antinglese con l'accusa alla Gran Bretagna di mirare all'accerchiamento del Reich.

I Balcani, "polveriera d'Europa" - Un altro punto di crisi era costituito dai Balcani (la polveriera d'Europa), dove l'inarrestabile declino della Turchia e i suoi successivi ripiegamenti (che avevano ridotto le terre sotto sovranità turca alla Albania, alla Macedonia e alle isole del Mar Egeo) acuivano gli appetiti delle varie potenze. La Russia, che si atteggiava a protettrice naturale degli slavi della regione (panslavismo), era decisa a contrastare la volontà espansionistica dell'Austria-Ungheria, divenuta una potenza balcanica quando aveva ottenuto (1878) l'amministrazione della Bosnia-Erzegovina. Alle rivalità delle due potenze si intrecciavano poi i ricorrenti contrasti tra i vari Stati balcanici  provocati dalla intersecazione dei gruppi etnici.

La Serbia - Dal canto suo l'Austria appariva sempre più preoccupata per le aspirazioni della Serbia - orientata verso la Russia - a creare un grande Stato degli slavi del sud e a procurarsi uno sbocco sull'Adriatico.

I conflitti secondari - Tra i potenziali fattori di crisi vanno poi ricordati i conflitti secondari, come quello che opponeva l'Italia all'Austria per la questione delle terre irredente (Trento e Trieste) e per il controllo dell'Adriatico, o come quello che vedeva di fronte Francia e Germania. La Francia aspirava infatti fortemente a una revanche  (rivincita) per la sconfitta del 1870 che le permettesse di recuperare l'Alsazia-Lorena; e la rivalità si allargava poi ad altre parti del mondo, dal Marocco al Congo.

 

Nazionalismo e militarismo - L'inasprimento delle competizioni tra le maggiori potenze favorì la nascita e lo sviluppo dei vari nazionalismi, ideologie a sfondo democratico, antipacifistico e imperialistico.

 

Il gioco delle diplomazie e delle alleanze

La Triplice Alleanza e l'alleanza franco-russa - Da una parte vi era l'alleanza conclusa nel 1879 tra la Germania, in posizione egemonica, e l'Austria-Ungheria, allargata nel 1882 all'Italia (Triplice Alleanza), la quale però era divenuta un partner poco sicuro dopo il riavvicinamento alla Francia iniziato nel 1898.

Dall'altra nel giro di quindici anni si arrivò alla formazione di un sistema di accordi che collegò Francia, Russia e Gran Bretagna realizzato nel 1892, e Londra si orientò quindi verso la Francia con l'"intesa cordiale" (entente cordiale) dell'8 aprile 1904.

L'accordo anglo-russo e la Triplice Intesa - Dopo l'esito disastroso della guerra con il Giappone (1904-5) anche la Russia si risolse a cercare un accordo con l'Inghilterra, superando le divergenze che la opponevano agli inglesi in varie parti del mondo. Il 31 agosto 1907 fu così conclusa una convenzione anglo-russa.  Gli accordi del 1907 furono il momento decisivo per la formazione di quel sistema di alleanze che va sotto il nome di Triplice Intesa e che legava fra loro Inghilterra, Francia e Russia così da far contrappeso al blocco austro-germanico.

 

Le crisi marocchine e le tensioni nei Balcani

La prima crisi marocchina - Nell'atmosfera carica di tensioni fin qui delineata, a partire dal 1905 le relazioni internazionali furono scosse da una serie di crisi che portarono talora le grandi potenze alle soglie dello scontro armato diretto. Due di queste crisi furono originate dalla questione del Marocco, il sultanato arabo sul quale la Francia, che tra il 1900 e il 1904 si era garantita il disinteresse dell'Italia e dell'Inghilterra sulla regione, intendeva stabilire il suo protettorato mascherato.  All'inizio del 1905 la Germania decise di ostacolare apertamente i piani di Parigi e nel corso di una visita a Tangeri Guglielmo II dichiarò minacciosamente che la Germania era intenzionata a proteggere i suoi "grandi e crescenti interessi nel Marocco". Il governo francese era consapevole della superiorità militare tedesca; e nonostante gli incoraggiamenti inglesi a tener duro preferì la via del compromesso, accettando la riunione di una conferenza internazionale, che si tenne ad Algesiras (gennaio-aprile 1906). Ad Algesiras la Germania, isolata e male appoggiata dall'Austria, patì però uno scacco sostanziale, e dovette riconoscere il predominio di fatto della Francia in Marocco.

 

La seconda crisi marocchina - La Germania riaprì la questione marocchina nel 1911, quando il sultano chiese l'intervento delle truppe francesi a Fez per arginare la ribellione delle tribù del nord. I tedeschi inviarono (1° luglio) la cannoniera "Panther" nel porto marocchino atlantico di Agadir, sostenendo la necessità di aprire nuovi negoziati. La provocazione rischiò di dar fuoco alle polveri, ma anche questa volta la guerra fu evitata da un compromesso favorevole alla Francia, fermamente sostenuta dall'Inghilterra. Parigi ottenne infatti il riconoscimento del proprio protettorato sulla maggior parte del Marocco (una parte minore passò sotto il protettorato della Spagna), e la Germania dovette accontentarsi di una porzione del Congo francese.

Le tensioni nei Balcani - Anzitutto in Serbia l'assassinio in una congiura di palazzo di Alessandro I Obrenovic, protetto dall'Austria (1903), e il ritorno al potere dei Karageorgevic con Pietro I (1903-21), amico della Russia, rilanciarono la rivalità austro-russa nella regione e stimolarono una ripresa del panserbismo  (cioé delle correnti che volevano la costruzione di uno Stato che comprendesse tutti gli slavi del sud) e del panslavismo.

La crisi della Bosnia-Erzegovina - Un altro fattore destabilizzante fu la rivoluzione dei Giovani Turchi - il partito intenzionato a modernizzare la Turchia - scoppiata a Costantinopoli nel luglio 1908 per trasformare l'impero ottomano in uno stato costituzionale. Gli avvenimenti turchi posero l'Austria di fronte alla probabilità che la Turchia, pervasa dal nuovo spirito nazionalistico, chiedesse la restituzione della Bosnia e dell'Erzegovina, province turche abitate da serbi e amministrate da trenta anni da Vienna. L'Austria decise così l'annessione della regione (5 ottobre 1908) con un gesto unilaterale, che aveva anche lo scopo di infliggere un colpo alle ambizioni della Serbia.

 

Dalle guerre Balcaniche allo scoppio del conflitto

La prima e la seconda guerra balcanica - Dal 1912 andò  assumendo un rilievo minaccioso uno dei maggiori fattori di rischio presenti nella situazione europea, vale a dire l'intreccio dei nazionalismi balcanici. Nei primi mesi del 1912 si formò - con l'incoraggiamento della Russia, decisa a recuperare la sua influenza nell'Europa sud-orientale - la cosiddetta Lega balcanica  tra Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia, che si ponevano l'obiettivo di spartirsi la Macedonia e i residui territori di lingua slava ancora soggetti alla Mezzaluna. Ebbe così origine la prima guerra balcanica  (ottobre 1912-maggio 1913), che vide la rapida vittoria dei collegati i quali costrinsero la Turchia ad accettare la pace, conclusa a gravose condizioni a Londra (30 maggio 1913).

Ma le difficoltà insorte tra gli alleati al momento della spartizione al bottino portarono a uno scontro tra la Bulgaria, appoggiata dall'Austria in una prospettiva antirussa, e i suoi ex alleati. Fu questa la seconda guerra balcanica  (giugno-agosto 1913), conclusa con la sconfitta della Bulgaria da parte della Serbia e della Grecia, alle quali si era unita la Romania, allarmata dall'accresciuta potenza bulgara.

Il nuovo assetto dei Balcani - In seguito ai due conflitti la Macedonia fu divisa fra la Serbia, la vera vincitrice, e la Grecia, che ottenne anche la Tracia occidentale e l'isola di Creta; la Romania ebbe la Dobrugia meridionale; e alla Turchia restò una parte della Tracia con Adrianopoli e Costantinopoli. Nel quadro delle trattative, dominate dalle grandi potenze, venne pure deciso il destino degli albanesi, un popolo non slavo insorto contro i turchi nel 1910; per volontà precipua dell'Austria, che voleva precludere alla Serbia lo sbocco all'Adriatico, fu creato lo Stato autonomo dell'Albania, posto sotto la sovranità del principe tedesco Guglielmo di Wied. La conclusione delle guerre balcaniche, con la sconfitta della Bulgaria e il rafforzamento della Serbia, costituiva un grave scacco per l'Austria,  che venne indotta a meditare piani di rivincita.

La corsa agli armamenti - La catena degli avvenimenti sin qui descritti accrebbe il pericolo di un conflitto generale, indusse le potenze a rinserrare le loro alleanze e accelerò la corsa agli armamenti; in particolare l'Inghilterra varò un vasto programma per il potenziamento della flotta; e a sua volta la Francia portò da due a tre anni la durata del servizio militare. Nel 1914 si era insomma creata una situazione di "pace armata".

L'attentato a Sarajevo - Le cose precipitarono il 28 giugno 1914, quando l'arciduca ereditario d'Austria Francesco Ferdinando fu assassinato insieme alla moglie a Sarajevo, capoluogo della Bosnia, dallo studente bosniaco di nazionalità austro-ungarica Gavrilo Princip. Il governo austriaco ritenne fosse arrivato il momento per liquidare la Serbia.

L'ultimatum austriaco alla Serbia - Il 23 luglio, dopo lunghe esitazioni, L'Austria-Ungheria indirizzò così alla Serbia un ultimatum  estremamente rigido che chiedeva, oltre alla proibizione di qualsiasi propaganda antiaustriaca nei territori serbi, la partecipazione di rappresentanti di Vienna all'istruzione del processo contro i responsabili dell'eccidio di Sarajevo: una pretesa che nessuno Stato geloso del proprio onore avrebbe potuto accogliere. Il 25 luglio Belgrado accettò in gran parte i termini dell'ultimatum, ma l'Austria non si considerò soddisfatta e il 28 dichiarò guerra alla Serbia.

L'automatismo delle alleanze e lo scoppio del conflitto - Subito dopo scattò l'inarrestabile automatismo delle alleanze. Il 30 luglio venne decretata la mobilitazione generale in Russia, una decisione che segnò il momento culminante della crisi; il 1° agosto fu la volta della mobilitazione della Germania, che dichiarò guerra alla Russia; lo stesso giorno decretò la mobilitazione la Francia; il 2 la Germania invase il Lussemburgo intimando al Belgio di lasciar libero il passaggio alle proprie truppe, e l'indomani dichiarò guerra alla Francia. Di fronte all'invasione del Belgio e alla minaccia che il passaggio in mano tedesca delle coste belghe veniva a costituire per la Gran Bretagna, il governo inglese - nel quale fino ad allora la maggioranza dei ministri era stata contraria all' estensione della guerra - vinse le sue esitazioni e decise il 3 agosto l'intervento a fianco della Francia e della Russia, divenuto effettivo il 4. La grande guerra era così cominciata.

La neutralità italiana - Si tenne inizialmente fuori dal conflitto l'Italia, la quale era divisa dall'Austria dalla questione delle terre irredente  e dalle frizioni per i Balcani. Roma proclamò infatti la propria neutralità il 3 agosto, avvalendosi di una interpretazione letterale del trattato della Triplice, che non aveva un carattere offensivo: un atteggiamento giustificato anche dal fatto che i due imperi centrali non avevano consultato l'Italia nei giorni decisivi della crisi, lasciandola all'oscuro dell'ultimatum alla Serbia.

 

Le Operazioni. Dalla guerra di movimento alla guerra di posizione

L'estendersi delle alleanze - Il prolungarsi delle operazioni belliche spinse poi le diplomazie dei due blocchi alla ricerca di nuovi associati. Gli Imperi Centrali si procurarono l'alleanza dell'Impero Ottomano (novembre 1914), anche se il contributo turco non avrebbe potuto che essere marginale data la disorganizzazione dello Stato della Mezzaluna, e quella della Bulgaria (ottobre 1915), allettata dalla prospettiva di un ingrandimento a spese della Serbia. Dalla parte dell'Intesa invece si schierarono immediatamente il piccolo Montenegro e il Giappone ( che si pose l'obiettivo limitato di impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Cina e nel Pacifico), seguiti via via dall'Italia (maggio 1915), dal Portogallo (marzo 1916), dalla Romania (agosto 1916), dagli Stati Uniti (aprile 1917), dalla Grecia (giugno 1917) e dalla Cina (agosto 1917).

La Germania all'offensiva - L'iniziativa strategica fu subito assunta dalla Germania, che aveva un esercito disciplinato, ben guidato da uno scelto corpo di ufficiali e fornito di una eccellente artiglieria pesante e di una considerevole dotazione di mitragliatrici. La Germania era preparata a una guerra su due fronti. I comandi tedeschi attaccarono sulla base del "piano Schlieffen" elaborato fra il 1891 e il 1905 (del quale anche i francesi erano a conoscenza) e mentre dalla Francia provavano senza successo a rintuzzare l'attacco nemico dall'Alsazia e dalla Lorena, il generale Helmuth von Moltke invadeva il Belgio per aggirare la linea fortificata avversaria, sconfiggendo nella "battaglia delle frontiere" (21-23 agosto 1914) il corpo di spedizione inglese e i francesi, e si addentrava profondamente nella Francia di nord-ovest, fino a 40 chilometri da Parigi (abbandonata per Bordeaux dal governo il 3 settembre) e minacciando di accerchiamento le forze alleate. Moltke era convinto di avere ormai la vittoria in pugno, ma il 6 settembre il comandante francese Joseph Joffre, con un'ardita decisione, ordinò la controffensiva generale, riuscendo a bloccare l'avanzata nemica sulla Marna e respingendo poi i tedeschi  su un fronte di  180 km. sino al fiume Aisne, anche se non poté sfruttare il successo a causa delle gravi perdite subite. La battaglia della Marna determinò il fallimento del piano Schlieffen (e la conseguente sostituzione di Moltke con Erich von Falkenhayn  come capo dello stato maggiore) e segnò una svolta nella condotta delle operazioni sul  fronte occidentale . Infatti le operazioni si stabilizzarono su una linea di 750 chilometri che andava dal Mare del Nord alla neutrale Svizzera. Finiva così  la guerra di movimento, alla quale doveva succedere, per quattro lunghi anni, la guerra di posizione, con i fanti interrati nelle trincee e impiegati in massacranti attacchi per logorare l'avversario o per operare a prezzo di costi umani elevatissimi qualche breccia nello schieramento nemico, in una visione dei comandi che aveva sostituito la "strategia dell'usura" a quella "dell'annientamento" di stampo napoleonico.

Il fronte orientale - Sul fronte orientale le azioni belliche ebbero un andamento  più fluido, anche per la grande estensione del teatro delle operazioni.La formidabile coppia formata dal maresciallo Paul Ludwig von Hinderburg  e dal suo capo di stato maggiore Erich Ludendorff, approfittando  delle carenze organizzative  delle armate dello zar, inflisse loro due dure sconfitte a Tannenberg  (26 - 29 agosto) e nella battaglia dei Laghi Masuri (settembre), che costarono ai  russi 250.000 uomini. I russi riuscirono invece a bloccare l'offensiva austriaca e ad avanzare nella Galizia sino  ai Carpazi, mentre a loro volta i serbi fermavano due tentativi di invasione da parte delle forze austro-ungariche.

Le operazioni navali; la guerra di trincea - Il sostanziale stallo nelle operazioni terrestri crebbero l'importanza del ruolo delle flotte. Sul fronte navale le battaglie combattute tra inglesi e tedeschi presso l'isola di Helgoland, nel mare del Nord (28 agosto) e alle isole Falkland, nell'Atlantico meridionale (8  dicembre) confermarono la superiorirà della flotta britannica .

 

Armi vecchie  e armi nuove

La guerra  di trincea fu imposta dall'adozione  di nuove armi micidiali, come le  mitragliatrici e i perfezionati cannoni a tiro rapido. Particolarmente terrificante si rivelò il potenziale di fuoco delle artiglierie.

Le fanterie vennero altresì impiegate in uno stillicidio di assalti alla baionetta e a colpi di granate a mano contro le trincee avversarie, battute in precedenza  da un martellante fuoco d'artiglieria.  In questo tipo di guerra (che annullò  sul fronte  occidentale il ruolo della cavalleria), ci fu la novità dell'uso di nuove armi: i gas tossici e i carri armati.  I carri  armati  vennero  impiegati soprattutto  dagli alleati sul fronte occidentale a partire dal settembre 1916 (battaglia delle Somme) .

Più rilevanti furono i risultati ottenuti dall'aviazione, impiegata per la prima volta dagli italiani  durante la guerra italo-turca del 1911-12.

 

 

 

Le operazioni nel1915-16

Il 1915: la spedizione dei Dardanelli - L'equilibrio delle forze impedì per tutto il 1915 - l'anno che vide  l'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa - la rottura del fronte tedesco cercata dai francesi con una serie  di offensive fallite (Artois, Lorena, Champagne) che costarono grosse perdite (1.300.000 uomini) .

Gli anglo-francesi tentarono anche nello stesso anno una strategia di diversione nei Balcani, con un attacco combinato per mare e per terra sui Dardanneli (febbraio).

L'audace operazione, voluta dall'energico Winston Churchill, primo Lord dell'Ammiragliato inglese (ministro della Marina), fu tuttavia gestita in maniera improvvisata dai comandi militari, e si concluse con un grave scacco.

La Bulgaria si decise a scendere in campo con le potenze centrali, il suo intervento permise nell'ottobre all'Austria di schiacciare la Serbia.  Alla fine del 1915, gli alleati conservavano nella Regione soltanto Salonicco. A Oriente l'iniziativa restò saldamente in mano tedesca; le forze di Hindenburg appoggiate da quelle austro-ungariche,  riuscirono a sfondare il dispositvo difensivo dei russi che lasciarono in mano nemica 750.000 prigionieri, furono costretti ad abbandonare tutta la Polonia e la Lituania e cessarono di costituire una seria preoccupazione per la Germania. E inutile risultò anche l'intervento  a fianco dell'Intesa della Romania, che aspirava al possesso della Transilvania. Le truppe tedesche nel giro di pochi mesi (settembre dicembre 1916) occuparono  infatti quasi tutto il territorio rumeno, ricco di materie prime e di petrolio, costringendo i russi a spostare sul nuovo fronte 46 divisioni.

Verdun, la"macchina tritacarne" - Alla fine del 1915 Falkenhayan per superare la fase di stallo elaborò un nuovo piano. L'idea del capo di stato maggiore tedesco era di  indurre  i francesi a logorarsi nella difesa a oltranza di un obiettivo di grande valore non solo militare, ma anche simbolico-sentimentale, e la scelta cadde su Verdun. E Verdun fu veramente una carneficina, che costò 500.000 uomini ai francesi e 400.000 ai tedeschi; ma la strategia di Falkenhayn, dopo sette mesi di accaniti scontri, non ebbe successo. Verdun divenne il simbolo della resistenza francese.  

La battaglia delle Somme - Per alleggerire la pressione su Verdun i franco-inglesi lanciarono il 1° luglio 1916 una offensiva sulla Somme, nella parte settentrionale del fronte. Ma la lotta sostenuta soprattutto dagli inglesi e durata sino al novembre, assunse anche qui l'aspetto della guerra di logoramento, e si protrasse sino al novembre 1916 concludendosi  con un nuovo bagno di sangue.

 

 

Il 1917: l'offensiva sottomarina tedesca, il collasso della Russia e l'intervento degli Stati Uniti

La crisi dell'esercito francese -  Alla fine del 1916 il bilancio delle forze sembrava volgere  a favore dell'Intesa, che poteva contare su un  potenziale umano più ricco e sul crescente aiuto economico degli Stati Uniti. Ma le nuove offensive contro le linee tedesche si risolsero in pesanti insuccessi: dei francesi allo Chemin des Dames  (aprile-maggio1917), e quello di poco  successivo degli inglesi nelle Fiandre.

Il nuovo scacco rischiò di sgretolare progressivamente l'armata francese: una serie di ammutinamenti coinvolsero circa 40.000 soldati. Il dissanguamento dei contendenti indusse i comandi tedeschi a cercare la soluzione del conflitto nell'intensificazione della guerra sottomarina, resa possibile dalla produzione su larga scala di sommergibili (perfezionati nel decennio prebellico).

Gli U-Boote erano stati utilizzati  già dall'inizio del 1915 per reagire al blocco inglese. I paesi neutrali protestarono, soprattutto gli Stati Uniti, specialmente dopo l'affondamento del transatlantico inglese Lusitania, silurato il 7 maggio 1915; il 1° febbraio 1917, la Germania iniziò la guerra sottomarina indiscriminata. Questa grave decisione  fu motivata dalla speranza di soffocare in tal modo economicamente l'Inghilterra e di costringerla alla pace prima che il sempre più probabile intervento degli Stati Uniti potesse modificare radicalmente i rapporti di forza; ma sull'orientamento dei comandi tedeschi influì anche la persuasione che dopo la battaglia dello Jutland (l'unico scontro navale diretto del conflitto; 31 maggio- 1° giugno 1916), nel quale pure la flotta oceanica germanica era rimasta imbattuta, non sarebbe stato più possibile affrontare con successo in mare aperto la flotta inglese e che quindi convenisse puntare tutte le carte del confronto navale sui sommergibili.

L'uscita della Russia dalla guerra - Lo stato delle forze dell'Intesa, fattosi preoccupante alla metà del 1917 a occidente, fu aggravato dai disastri  che nel corso di quello stesso anno si verificarono su altri fronti. In Russia le sconfitte militari e il dissesto dell'economia avevano reso catastrofica la situazione. Le ostilità sul fronte orientale cessarono in seguito alla stipulazione di un armistizio (metà dicembre) cui fece seguito la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918).

 

Caporetto; le operazioni in Medio Oriente - Un altro grave colpo fu costituito per gli alleati dalla rotta italiana di Caporetto (ottobre-novembre 1917),  che diede  in un primo tempo l'impressione che il nostro esercito fosse crollato e che costrinse i franco-inglesi a inviare in tutta fretta in Italia undici loro divisioni per contribuire  a ristabilire la situazione.

A fronte di questi risultati negativi alla fine del 1917 gli alleati occidentali potevano vantare al proprio attivo solo le marginali vittorie conseguite in Medio Oriente (conquista di Gerusalemme e di Bagdad) e i successi ottenuti contro i turchi dalla guerriglia degli arabi insorti  per la  propria indipendenza e animati dal leggendario  colonnello inglese Thomas E. Lawrence (soprannominato "Lawrence del deserto" o "Lawrence d'Arabia").

L'intervento degli Stati Uniti -  Ma sempre nel tormentato 1917 si  verificò l'intervento degli Stati Uniti (aprile). Il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che nel 1916  era stato rieletto come uomo della pace e che sino ad allora aveva assunto l'atteggiamento di un potenziale arbitro tra i belligeranti, si era infatti orientato al principio del 1917  per la guerra contro la Germania; egli interpretò così gli umori  prevalenti dell'opinione  pubblica, irritata dagli affondamenti  di navi americane da parte degli U-Boote, accogliendo anche le pressioni di influenti circoli  finanziari   ed economici (dall'inizio della guerra all'aprile 1917 gli Stati Uniti avevano concesso prestiti alle potenze dell'Intesa per 2 miliardi di dollari, contro i 20 milioni della Germania). L'intervento americano era destinato a spostare l'equilibrio dalla parte degli alleati occidentali, che potevano contare in prospettiva - una volta che la macchina bellica degli Stati Uniti si fosse messa a girare a pieno regime - su un apporto pressoché inesauribile di mezzi finanziari ed economici e di uomini.

 

Il 1918: Il crollo degli imperi centrali e la fine della guerra

 

Tuttavia all'inizio del 1918 sul piano militare il rapporto generale delle forze era ancora favorevole agli imperi centrali. I circoli dirigenti tedeschi pensavano fosse giunto il momento per uno sforzo risolutivo sul fronte occidentale e conquistare una vittoria decisiva  prima dell'arrivo in forze degli americani. Ludendorff lanciò quindi il 21 marzo 1918 una grande offensiva, sviluppatasi sul vecchio campo di battaglia della Somme, nelle Fiandre, e sulla Marna,  impiegando il grosso delle sue forze integrate dalle divisioni fatte venire dalla Russia. I tedeschi   realizzarono due grandi  sfondamenti, ma non riuscirono a realizzare il successo strategico che era nei loro piani.

Gli alleati all'offensiva sul fronte occidentale -  Nella seconda metà di luglio, esauritasi la spinta tedesca, l'iniziativa tornò quindi agli alleati occidentali, che avevano unificato il comando supremo affidandolo al francese Ferdinand Foch (aprile) e che potevano ora contare sul massiccio afflusso delle divisioni americane. Gli inglesi  ottennero la vittoria l'8 agosto a est di Amiens. Quella giornata, che consacrò l'importanza dei carri armati impiegati in massa,  è considerata da molti storici militari il momento di svolta del conflitto,  perché gettò nello sconforto i comandi tedeschi e li convinse che la partita era ormai perduta.

La Germania chiede l'armistizio - Nelle settimane successive gli alleati sfondarono la linea difensiva tedesca e avanzarono lentamente ma inesorabilmente  riconquistando  le regiorni francesi perdute nel 1914,  liberando il Belgio e costringendo i tedeschi a compiere una ritirata generale sul Reno. La Germania, giunta allo stremo, il 7 novembre 1918 chiese l'armistizio che le fu accordato l'11 novembre. La caduta della Germania fu accompagnata e accelerata dalla catastrofe dei suoi assai più deboli alleati. Nei Balcani le armate alleate di Salonicco,  passate all'offensiva il 15 settembre, costrinsero rapidamente alla capitolazione i bulgari (29 settembre),  liberarono la Serbia e la Romania e minacciarono da sud l'Austria-Ungheria. Le forze britanniche indussero inoltre all'armistizio la Turchia (30-31 ottobre). Poche settimane dopo sul fronte italiano le nostre forze sbaragliavano nella battaglia di Vittorio Veneto le demoralizzate forze austriahce e obbligavano alla resa il governo di Vienna. Finiva così la grande guerra, una strage che era costata il sacrificio di circa 9 milioni di vite umane.

 

L'Italia nel conflitto: interventisti e neutralisti

 

Il governo Salandra, inizialmente considerato un semplice intervallo dell'era giolittiana, proclamò la neutralità iniziale dell'Italia (2 agosto 1914): una scelta che, tenendo conto dell'ostilità verso Vienna largamente diffusa nel paese, permetteva di giocare su due tavoli, con la richiesta di compensi territoriali nel caso  di ingrandimenti dell'Austria o di garanzie per gli interessi italiani in cambio di un appoggio diplomatico all'Intesa. E tuttavia, la neutralità,  largamente approvata per il momento dall'opinione pubblica, con il prolungarsi del conflitto difficilmente poteva restare una decisione definitiva; vi era infatti il rischio che,  qualunque dei contendenti avesse vinto, l'Italia dovesse affrontare le ritorsioni e l'inimicizia del vincitore. E quindi, poiché appariva chiaro che un intervento a fianco degli imperi centrali era pressoché impossibile dopo la dichiarazione di neutralità, la scelta era limitata tra la neutralità stessa e l'intervento dalla parte dell'Intesa. Salandra e i suoi ministri degli esteri - il prudentissimo Antonino di San Giuliano, che aveva conservato un orientamento favorevole alla Triplice Alleanza e dopo la sua morte (16-10-1914)  Sidney Sonnino - intrecciarono così lunghe trattative con l'Austria, intensificate dopo la decisione, in settembre di rimandare la scelta definitiva alla primavera del 1915 a causa delle deficienze della preparazione militare. Ma Vienna, nonostate le pressioni della Germania, che voleva tener fuori dal conflitto l'Italia, non intendeva cedere: anche perché temeva che eventuali cessioni territoriali all'Italia spingessero all'interno dell'impero le nazionalità a chiedere autonomie e riforme  che  avrebbero portato alla dissoluzione  la Duplice  Monarchia. Il massimo delle concessioni austriache - Trento e una parte del Trentino- non era tale  da soddisfare Salandra e l'Italia; questo spinse  Salandra stesso a stringere dal 3 marzo 1915 i tempi dei negoziati con l'Intesa, avviati già prima che fosse esaurito il tentativo di accordo con l'Austria. Nel progressivo orientamento del ministro italiano convergevano motivi di ispirazione risorgimentale  (l'irredentismo, il compimento dell'unità nazionale con la IV guerra d'Indipendenza) e aspirazioni di potenza (il pieno controllo dell'Adriatico, l'espansione nei Balcani),  unitamente  al tentativo di modificare i termini del quadro politico interno. Approfittando della crisi del giolittismo, apparsa evidente già nel1913, Salandra mirava a un'aggregazione di destra, imperniata sulla borghesia liberale resa possibile dall'instaurazione  di buoni rapporti con i cattolici e i nazionalisti e cementata  da un programma impostato sull'affermazione dell'autorità dello Stato, sul rinnovato prestigio della monarchia e dell'esercito, sulla difesa dell'iniziativa privata in campo economico. E in questa prospettiva anche la scelta dell'intervento,  in opposizione al dichiarato neutralismo di Giolitti veniva ad assumere il valore di un rifiuto del sistema giolittiano.

Le trattative con l'Intesa e il Patto di Londra - Le trattative con le potenze dell'Intesa condotte nel massimo segreto con il consenso del Re e all'insaputa del Parlamento, si conclusero il 26 aprile1915 con la stipulazione del Patto di Londra, con il quale l'Italia si impegnava a scendere in guerra entro un mese a fianco dell'Inghilterra, della Francia e della Russia. In caso di vittoria il nostro paese avrebbe dovuto ottenere il Trentino e il Tirolo Cisalpino (Alto Adige) fino al Brennero, Trieste, Gorizia, Gradisca, l'Istria sino al Quarnaro, la Dalmazia settentrionale quasi tutte le isole dalmate e il possesso del porto albanese di Valona (occupato dagli italiani alla fine del 1914). All'Italia venivano anche promessi compensi territoriali e arrotondamenti delle colonie.

Il neutralismo: i giolittiani - All'interno dei partiti politici e dell'opinione pubblica si formarono  due correnti contrapposte, quella dei neutralisti e quella degli interventisti, che attraversavano gli schieramenti tradizionali. Il campo dei neutralisti era composito, perché esso comprendeva i liberali, i cattolici e i socialisti, tre forze la cui ostilità all'intervento aveva motivi diversi. I liberali facevano riferimento a Giolitti, il quale era convinto che l'Italia non fosse preparata per una guerra lunga e di esito incerto, che avrebbe potuto mettere a dura prova la solidità del sistema politico di cui egli era il centro. Quanto ai cattolici vi era fra loro un neutralismo filo-austriaco, proprio di quei gruppi che vedevano nell'Austria l'ultima grande potenza cattolica e il baluardo  contro lo slavismo di fede ortodossa; ma la grande maggioranza si rifaceva al pacifismo di principio sostenuto dalla Chiesa e riaffermato dal nuovo Papa Benedetto XV (eletto il 5-9-14 succedendo a Pio X morto il 20-8). Decisamente contrari all'intervento erano infine i socialisti che adottarono subito la formula della  neutralità assoluta, in coerenza con la linea pacifista e anti militarista più volte espressa dalla II Internazionale e che era stata invece abbandonata da  quasi tutti i partiti socialisti dei paesi belligeranti.

L'interventismo democratico e quello rivoluzionario - A sua volta anche il movimento interventista era diviso in varie correnti. Vi era anzitutto un interventismo democratico, animato da uno spirito patriottico di ascendenza risorgimentale e da una profonda ostilità verso gli imperi centrali, visti come l'incarnazione dell'autoritarismo conservatore e del militarismo, contrari al diritto all'autodecisione dei popoli. In questo filone confluivano i repubblicani, buona parte dei radicali, i socialisti riformisti del gruppo di Bissolati e Bonomi e alcuni  socialisti dissidenti come Gaetano Salvemini e l'irridentista Cesare Battisti, capo dei socialisti trentini.  Alla sinistra di questa tendenza vi era il movimento degli interventisti rivoluzionari, i quali speravano che la partecipazione al conflitto dell'Italia a fianco dell'Intesa avrebbe  indebolito il capitalismo e aperto la strada alla rottura violenta e rivoluzionaria del sistema"borghese". Il gruppo fu rafforzato dal passaggio nelle file interventiste di Benito Mussolini. Il direttore dell"Avanti!" dopo le incertezze iniziali giudicò infatti che la linea della neutralità assoluta adottata dal PSI costituisse una sorta di suicidio politico perché toglieva ai socialisti ogni possibilità futura d'azione; egli passò quindi a sostenere l'intervento dalle colonne del quotidiano "Il  popolo d'Italia", da lui fondato a Milano il 15 novembre 1914 con il finanziamento di alcuni industriali. Mussolini si poneva così fuori dal suo vecchio partito che alla fine di novembre deliberò la sua espulsione.

L'interventismo liberale; i nazionalisti per la guerra - Vi era poi la tendenza interventista liberale che si coagulò lentamente  intorno a Salandra e a Sonnino, grazie anche all'azione di appoggio svolta da alcuni quotidiani assai influenti sull'opinione pubblica (dal milanese "Corriere della Sera" al romano "Giornale d'Italia). Vi convergevano aspirazioni di prestigio internazionale, simpatie per le potenze liberali dell'Intesa, motivazioni di politica interna come quella del rafforzamento della linea salandrina  in funzione anti giolittiana. Il ruolo di punta nel campo interventista fu dei nazionalisti, decisi sostenitori di un programma di espansione imperialistica passati presto  dalla scelta di campo  triplicista a quella a favore dell'Intesa. Nel progetto politico dei nazionalisti la partecipazione alla guerra doveva costituire l'occasione per far uscire l'Italia da quella "crisi morale" di cui addossavano la colpa all'odiata democrazia parlamentare di Giolitti, alla quale avrebbero voluto sostituire una propria alternativa fondata sul rafforzamento dello Stato in senso autoritario.

L'interventismo fino ai primi mesi del1915 restò una corrente di minoranza. Esso  manifestò tuttavia una forte capacità di attrazione tra la gioventù studentesca e gli intellettuali, come dimostrano le prese di posizione  a favore dell'intervento della cultura militante, con l'eccezione di Benedetto Croce; la guerra era vista come la grande occasione festosa  a lungo sperata per ridare valore alla vita, per esprimere lo slancio e l'energia giovanili,  e per rinnovare il mondo sull'onda delle suggestioni di un mito che aveva le sue radici nella cultura dell'irrazionalismo e del decadentismo.

Verso l'intervento-  Nonostante tutto  nel maggio 1915 l'Italia "reale", rimaneva intimamente contraria o indifferente alla guerra. Mentre il contrasto tra neutralisti e interventisti infiammava il paese, in un succedersi di manifestazioni contro  l'intervento o a suo favore, il governo dovette affrontare il problema della prevedibile opposizione della maggioranza dei deputati giolittiani e neutralisti alla Camera; questa era infatti chiamata dalla Statuto a ratificare, anche se a cose  ormai fatte, le decisioni del Patto di Londra, che erano il frutto della volontà quasi esclusiva di Salandra e Sonnino.

Il governo, rafforzato dal fatto che Vittorio Emanuele aveva respinto le dimisisoni di Salandra presentate il 13 maggio dopo aver constatato l'ostilità della Camera, utilizzò inoltre  la pressione della piazza, dominata dagli  interventisti (che tentarono di assalire l'abitazione romana dello stesso Giolitti) per intimidire la Camera.  In questo clima di violenza, di malessere e di larvato colpo di Stato che caratterizzò le giornate del "radioso maggio", come le chiamarono i nazionalisti, i deputati rinunciarono in sostanza al loro ruolo e delegarono tutte le scelte al governo, approvando (con 407 voti su 482 presenti) il conferimento a questo dei poteri straordinari per l'entrata in guerra.

 

La guerra sul fronte italiano

L'inizio delle operazioni -  il  24  maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria, ma non alla Germania, che restò quindi fuori del conflitto con l'Italia fino al 28 agosto 1916.

I piani di Cadorna e le battaglie dell'Isonzo - Le operazioni militari videro l'immediato fallimento dei piani del capo di stato maggiore Luigi Cadorna  il quale aveva pensato a una guerra di movimento  che avrebbe dovuto portarlo in breve a Lubiana per poi puntare su Vienna. L'esercito italiano, superiore  per numero ma con  una scarsa dotazione di artiglieria  pesante e di mitragliatrici, e poco preparato   nonostante  le ingenti  spese militari del periodo giolittiano, si scontrò con la tenace  resistenza delle ancora valide armate asburgiche, e dovette adattarsi alla logorante guerra di posizione in trincea  dal Carso all'Isonzo.

Cadorna fu quindi indotto ad adottare  una linea d'azione imperniata su una serie di attacchi a oltranza delle fanterie  su settori ristretti  che favorivano  i difensori e imponevano  alle truppe italiane rilevanti costi umani e di materiali. Si susseguirono così dal giugno 1915 al settembre 1917 le undici battaglie dell'Isonzo - intervallate dalla Strafexpedition  (spedizione  punitiva) austriaca del  maggio 1916 - che non portarono  però a risultati rilevanti   eccezion fatta per la conquista di Gorizia (agosto 1916). E nel corso di una di queste battaglie  vennero catturati dagli austriaci gli irridentisti trentini Cesare Battisti e Fabio Filzi,  processati e giustiziati per tradimento  in quanto cittadini austriaci arruolatisi nell'esercito italiano.

La "disciplina" di Cadorna -  La tattica  adottata da Cadorna non ammetteva interferenze dei politici nella zona del fronte, richiedeva l'applicazione di una "ferrea disciplina" con l'adozione di "estreme misure di coercizione e di repressione". La conseguenza di  questo duro regime  disciplinare era la crisi di efficienza dell'esercito, composto in misura predominante  di contadini (due milioni di combattenti  nel maggio 1917) nelle cui file i sacrifici di sangue e il logoramento per le lunghe  permanenze in trincea con rari avvicendamenti diffusero stati d'animo di stanchezza e di sfiducia. Questa crisi morale, insieme alla cattiva  organizzazione dei comandi e a uno schieramento offensivo troppo sbilanciato in avanti, furono le premesse del disastro di Caporetto il più grande rovescio italiano della grande guerra.

La rotta di Caporetto - Un'azione offensiva  iniziata dagli austro-tedeschi il 24 ottobre 1917 nella zona di Caporetto, nell'alta valle dell'Isonzo, con la tattica dell'infiltrazione di reparti speciali, provocò il rapido cedimento della nostra II armata e il conseguente franamento  dell'intero schieramento, che rese necessario il ripiegamento generale fino al Piave. La ritirata si trasformò in una rotta disordinata,  che costò la perdita di circa 650.000 uomini (40.000 tra morti e feriti, 265.000 prigionieri e 350.000 sbandati) e di enormi  quantità di materiale bellico.

La difesa sul Piave e la vittoria finale - Le forze austro-tedesche non furono però  in grado di sfruttare il loro grande successo per mancanza  di riserve, e ai primi di novembre il fronte si stabilizzò sulla linea Monte Grappa-Piave. Armando Diaz, che l'8 novembre aveva sostituito Cadorna e che era pienamente sostenuto dal governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, (che, entrato in carica durante la crisi di Caporetto, rivalutò la funzione  del Parlamento e cercò    di creare un clima  di concordia nazionale), poté così riorganizzare l'esercito. Venne migliorato il trattamento dei soldati con un'abile propaganda  che insisteva  sul motivo della difesa del suolo patrio e arrivava a promettere ai fanti-contadini la distribuzione delle terre . Nel giugno 1918 venne respinto l'ultimo, disperato attacco nemico, e il prudente Diaz riprese l'iniziativa solo quando  l'Austria-Ungheria  era ormai giunta al collasso, ingaggiando il 24 ottobre la battaglia  di Vittorio Veneto  presto trasformatasi a causa della disgregazione  delle unità austriache in una facile avanzata fino a Trento e a Trieste, raggiunte  il 3 novembre. Lo stesso giorno  il comando austriaco firmava l'armistizio di Villa Giusti  entrato in vigore il 4, ponendo così fine alla guerra sul fronte  italiano.

 

Il Fronte Interno

La Guerra totale -  Il graduale passaggio dalle forme tradizionali di combattimento alla lotta economica globale (blocchi economici e guerra sottomarina) coinvolse i più vari aspetti della vita contemporanea  e mise alla prova la capacità dei  singoli Stati di saldare  l'intero arco delle forze economiche, sociali e culturali.

 Lo sforzo industriale -  Le esigenze di un conflitto di lunga durata, le cui sorti dipendevano in larga misura dagli sviluppi della tecnologia e dell'apparato produttivo, sollecitarono un rapido sviluppo di tutti i settori industriali impegnati nella fornitura di materiali alle truppe (dalla siderurgia alla meccanica, dalla chimica al tessile).

Si verificò   quindi  una dilatazione delle funzioni economiche statali  che delineò un nuovo modello di rapporti assai stretti tra Stato, capitalismo e mercato. L'aumento della produzione industriale fu reso possibile da un crescente impiego di maestranze femminili  nelle fabbriche, dove continuarono a prestare servizio gli operai qualificati che, dopo essere stati richiamati, furono spesso  rimandati ai loro posti di lavoro per utilizzarne le competenze sul "fronte" produttivo.