IL MANIFESTO del 04 Febbraio 2005
FOIBE Così iniziò la stagione di sangue Le stragi istriane vanno inserite nel contesto
storico della guerra fascista e nazista alle popolazioni slave.
Contro ogni strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione «Si
ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente»,
raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario
Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di
esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia,
Bocche di Cattaro e Montenegro GIACOMO
SCOTTI,
Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe
istriane - ma comprensione non significa affatto giustificazione di
quei crimini - è assolutamente necessario inserire la questione nel
contesto storico in cui si verificò e nel quadro più ampio del
periodo tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda
guerra mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una
larga parte della popolazione istriana venutasi a trovare inserita
nel territorio di frontiera di un'Italia asservita al regime
fascista e perciò negata a governare con giustizia territori
plurietnici, plurilingui e multiculturali, spinta a realizzare un
preciso programma di oppressione e snazionalizzazione dei sudditi
cosiddetti allogeni e alloglotti. Ancor prima della firma del
Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l'Istria
all'Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione
militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo
squadrismo in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò
con particolare aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti,
tra i quali l'istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli
squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente
documentato i misfatti compiuti - dagli assassinii di antifascisti
italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno,
Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed altri - alla
distruzione delle Camere del lavoro ed all'incendio delle Case del
popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni
della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma
dopo la creazione del regime: furono distrutti e/o aboliti tutti gli
enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione
slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei
croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado,
cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro
lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del
1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia;
migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le messe
poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e
slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono
cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita
quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti,
comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari
diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e
lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa
dello Stato.
La sostituzione delle popolazioni
allogene
Mi è capitato per le mani un opuscolo del
ministro dei Lavori Pubblici dell'era fascista Giuseppe Cobolli
Gigli. Figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, classe
1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perchè
sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico.
Divenuto poi un gerarca, prese un secondo cognome, Gigli, dandosi un
tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore di opuscoletti altamente
razzisti, fra i quali Il fascismo e gli allogeni, (da
«Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la necessità della
pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle popolazioni
«allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da altre
provincie del Regno. Tra l'altro volle tramandare ai posteri una
canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul
bordo di una voragine che - scrisse il Cobol-Cobolli - «la musa
istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella
provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali
dell'Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per
esempio, di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di
trovar sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo
dialettale e traduzione italiana a fronte) diceva:
A Pola
xe l'Arena/ la Foiba xe a Pisin:/ che i buta zo in quel fondo/ chi
ga certo morbin.
(A Pola c'è l'Arena,/ a Pisino c'è la
Foiba:/ in quell'abisso vien gettato/ chi ha certi
pruriti).
Dal che si vede che il brevetto degli
infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli inizi degli anni Venti
del XX secolo. Putroppo essi non rimasero allo stato di progetto e
di canzoncine. Riportiamo qui, dal quotidiano triestino Il
Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello
Camerini, ebreo, classe 1924.
«Nel luglio del 1940, ottenuta
la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al
lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave
di bauxite, la cui sede principale era a S. Domenica
d'Albona.
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941
- poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile. La
crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece
che l'italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome
croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte
prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e
vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes,
Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle foibe, e lì,
dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro.
Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion,
di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito
di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che si
dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti.
Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica
d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della
finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene
che non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur
dopo 60 anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio
animo. Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno
scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari. Logicamente, i
partigiani di Tito, successivamente, si sono vendicati usando lo
stesso sistema. E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio
1943 hanno fatto dirottare la corriera di linea - che da Trieste era
diretta a Pisino e Pola - in un burrone con tutto il carico di
passeggeri, con esito letale per tutti. (. . .) Ho lavorato fra
Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio sino all'agosto del `43
e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati e italiani (quelli
non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e l'aiuto, in quel
difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la verità, che io
posso testimoniare».
60mila slavi in fuga
dall'Istria
Per gli slavi il risultato del ventennio
fascista e del triennio bellico 1940-43 fu la fuga dall'Istria di
circa 60.000 persone. Purtroppo a rafforzare il nazionalismo
anti-italiano fu ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella
seconda guerra mondiale portò l'Italia ad aggredire i popoli
jugoslavi. Quell'aggressione tra il 6 aprile 1941 e l'inizio di
settembre 1943 fu caratterizzata dalle brutali annessioni di larghe
fette di Croazia e Slovenia e da una lunga serie di crimini di
guerra. Per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali si
giunse alle scelte più draconiane dei comandi militari italiani.
Ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza
perpetrata a danno delle popolazioni».
Nelle regioni della
Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile `41 si ripetè quanto
avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo
per la snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando
inevitabilmente l'ostilità delle popolazioni. Nella toponomastica,
per cominciare da questo aspetto non cruento dell'occupazione, fu
recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il
prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del
Fiumano e della Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell'8
settembre 1941 fu ordinato di «adottare senza indugio i nomi
italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano
da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha
trasformato in denominazioni straniere». Così località del
profondo territorio interno lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar
divennero: Belica= Riobianco, Bogovic = Bogovi, BruÜic = Brissi,
Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar = Concanera, Glavani =
Testani, Jelenje = Cervi, Kacjak = Serpaio, Koziji Vrh=
Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore,
Padovo = Padova, Pecine = Grottamare e via traducendo o inventando.
Trinajstici, presso Castua, divenne Sassarino in onore della
divisione «Sassari» che vi teneva un reparto.
Ma ben presto,
dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò a
distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tolleravano
l'italianizzazione né l'occupazione. In data 30 maggio 1942 il
Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto
eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di un
numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si
erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità.
Ma non si limitò alle deportazioni. Con un manifesto si rendeva
noto: «Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e
fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per
rappresaglia». La rappresaglia continuò.
Il 4 giugno gli
uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume incendiarono le case
dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), Bittigne di Sopra
(Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo in Monte
(Ratecevo). A Kilovce furono fucilate 24 persone.
Non c'è
villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati Territori
Aggregati e/o Annessi a contatto con l'Istria e la regione del
Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente
raso al suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o
più membri deportati oppure fucilati.
Centomila nei campi
di concetramento
Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco
Capogreco: «In Jugoslavia il soldato italiano, oltre che quello del
combattente ha svolto anche il ruolo dell'aguzzino, non di rado
facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali l'incendio dei
villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei
civili e il loro internamento nei campi di concentramento». In
particolare evidenzia che il numero dei condannati e confinati
«slavi» della Venezia Giulia e dell'Istria fu particolarmente
elevato, sicchè dal giugno 1940 al settembre 1943 la maggioranza
degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era costituita
da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili internati
dall'Italia fascista superò di diverse volte quello complessivamente
raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i
17 anni durante i quali rimasero in vigore le «leggi eccezionali»;
più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e comandanti militari,
furono denunciati per crimini di guerra commessi durante la seconda
guerra mondiale alla War Crimes Commission dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite. I campi di concentramento nei quali furono rinchiusi
più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi
erano disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e
settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e
Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Non si contano,
poi, i campi «di transito e internamento» che funzionavano lungo
tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano (Ugljan) e Melada
(Molat). Quest' ultimo fu definito da monsignor Girolamo Mileta,
vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei lager
italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne
morirono 2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per
denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942
l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli,
trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un
medico in visita al campo di Arbe dove gli internati
«presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi
dell'inanizione da fame». Sotto quel rapporto il generale
Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico ed
opportuno che campo di concentramento non significhi campo
d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta
tranquillo». Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale
Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si
parlava di «briganti comunisti passati per le armi» e «sospetti
di favoreggiamento» arrestati. In una nota scritta a mano
il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il trattamento dei
sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle successive?
Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale
Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e
Croazia nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella
quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non
deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da
testa per dente».
Furono circa 200.000 i civili «ribelli»
falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla
«Provincia del Carnaro», dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro
e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a
semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di
federali e commissari fascisti. Potremmo citare altri documenti,
centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell'Italia monarchica e
fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati
nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi
di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Mi
limiterò, per l'Istria ad alcuni episodi che precedettero di pochi
mesi i fatti del settembre 1943.
Il 6 giugno 1942 furono
deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un
totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi, San Matteo e
Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono confiscati o
abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate,
dodici persone vennero fucilate.
I deportati in Italia, i
villaggi rasi al suolo
Ancora più terribile fu la sorte
toccata agli abitanti della zona di Grobnico, a nord di Fiume. Per
ordine del prefetto Temistocle Testa, reparti di camicie nere e di
truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum all'alba del 13
luglio. Rastrellata l'intera popolazione, questa fu condotta in una
cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il
villaggio veniva prima saccheggiato e poi incendiato. Oltre mille
capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati
via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di
internamento italiani: più di cento maschi furono fucilati nella
cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni
appena.
Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa
informò: «Ierisera tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa
est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel
numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono
presentati davanti ai reparti militari dell'armata operanti nella
zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici
soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della popolazione
e le donne e bambini sono stati internati
stop».
Nel solo Comune di Castua subirono
spedizioni punitive diciassette villaggi; furono passate per le armi
59 persone, altre 2311 furono deportate e precisamente 842 uomini,
904 donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle.
Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, reparti di Camicie
Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune
sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le
case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle
abitazioni, alle stalle e agli altri edifici "covi di ribelli". Nei
campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di
Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate
contro la popolazione civile slava furono denunciate anche da
eminenti personalità politiche italiane di Trieste, tra cui i
firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un
"Fronte nazionale antifascista" al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Era
passato un mese e mezzo dalla caduta del regime fascista. Nel
documento, si fa una denuncia drammaticamente circostanziata delle
vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni sommarie «operate
con grande discrezionalità da bande di squadristi che avevano goduto
per troppo tempo della mano libera e della compiacenza di certe
autorità». Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un
«diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe
potuto abbattersi indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria
come reazione «alla tracotanza del Regime e dei suoi uomini più
violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato
strumenti e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle
popolazioni slave».
(1 - continua)
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